A ottant’anni dall’8 settembre 1943 – prima parte
Come Spezia fu occupata dai tedeschi
Città della Spezia, 3 settembre 2023
I GIORNI DEL DISONORE E DELL’ONORE
La “scarsa o nulla volontà dell’Italia di affrontare i tedeschi” di cui scrissero in quei giorni gli angloamericani – ne ho scritto nell’articolo di domenica scorsa – fu alla radice del baratro in cui precipitò l’Italia l’8 settembre 1943. La gioia per la fine della guerra si intrecciò con la rabbia e la paura per la fuga del re e di Badoglio, che alle 5 del mattino del 9 settembre lasciarono Roma per raggiungere Brindisi, sotto protezione dei nuovi alleati. Sono come sempre gli scrittori a rendere il clima del tempo: “Farsi ammazzare per chi?”, scrisse Beppe Fenoglio, mentre Italo Calvino paragonò l’8 settembre all’Odissea.
L’8 settembre non fu la morte della Patria, ma delle istituzioni che avrebbero dovuto rappresentarla. Dal baratro una parte importante del Paese si risollevò, con la Resistenza. O, meglio, con una spinta dal basso che diede vita a molteplici “resistenze”.
Alla Spezia insegnava allora, al Liceo Classico, Ennio Carando, che sarebbe diventato da lì a breve un dirigente del CLN – Comitato di Liberazione Nazionale – spezzino. Un suo ex allievo raccontò di averlo visto dopo il 25 luglio. Era “indignato e furioso” per la scelta del re e di Badoglio di continuare la guerra al fianco dei tedeschi, e gli disse:
“Così i tedeschi si rafforzeranno, sposteranno in Italia altri soldati e saranno ancora lutti e rovine. Da tanto male un unico vantaggio: la monarchia è liquidata per sempre”.
E poi, dopo l’8 settembre:
“Ora è il momento dell’azione concreta, urge unire tutte le forze per salvare vite umane, per cercare di salvare la dignità, l’avvenire del nostro Paese”.
Furono i giorni del disonore, ma anche dell’onore. La maggioranza dei comandanti militari cedette le armi ai tedeschi, ma una minoranza li combatté. Ruggero Zangrandi ha raccontato una miriade di reazioni ai tedeschi provenienti dai militari e dal popolo, anche nel Sud. A Moschito, piccolo centro in provincia di Potenza, fu addirittura instaurata una repubblica, che sopravvisse venti giorni, finché i badogliani non arrestarono gli organizzatori.
Nessuno sapeva bene cosa fare, ma la Resistenza nacque così, come spinta popolare spontanea, poi raccolta dai partiti antifascisti, che già il 9 settembre costituirono il CLN a Roma. Alla Spezia fu costituito a metà ottobre.
I RACCONTI DI DUILIO BIAGGINI E DI DINO GRASSI
Anche alla Spezia ci fu l’intreccio tra la gioia – grandi falò vennero accesi sulle colline – e la rabbia e la paura, per lo sfacelo dei corpi d’armata – le divisioni Rovigo e Alpi Graie – che avrebbero dovuto difendere la città, importantissima piazzaforte militare. Ma non mancarono le reazioni ai tedeschi. Per studiare il periodo bisogna basarsi sugli archivi e sulle testimonianze. La stampa non ci è di aiuto. Consideriamo per esempio “Il Telegrafo”, che aveva una pagina di cronaca spezzina. Durante i quarantacinque giorni del governo Badoglio la direzione era passata a Giovanni Engely, fascista dissidente che era stato anche confinato. Il giornale era rigorosamente schierato per l’alleanza con i tedeschi. In politica interna dava spazio, nelle pagine nazionali, anche al liberale Benedetto Croce e, nella pagina locale, affrontava quasi quotidianamente i problemi dei salari dei lavoratori e delle discussioni sindacali. Non diede però la notizia dello sciopero all’OTO Melara del 23 agosto, di cui ho scritto domenica scorsa. Le stesse manifestazioni popolari dopo il 25 luglio erano state censurate. Trapelò solo, in due trafiletti, che in quella del 29 luglio erano stati uccisi due operai. Nessuno spazio alla manifestazione di Pitelli del 27 sera, quella in cui gli operai scalpellarono gioiosamente le insegne fasciste; largo spazio invece a quella di Sarzana, sempre del 27 sera (vengono così confermate le fonti di archivio, e smentite le testimonianze su cui si è sempre basata la storia locale: non corrisponde al vero che la prima manifestazione dopo il 25 luglio si tenne il 26 a Sarzana), perché decisamente più tranquilla e più “badogliana”: il titolo dell’articolo era significativamente “Viva Casa Savoia!”. Poi, il 10 settembre, “Il Telegrafo” diede la notizia dell’armistizio, ma sparì il giorno dopo per tornare, “fascistissimo”, il 24 settembre.
Tutte le testimonianze convergono sul fatto che alcuni reparti delle divisioni Rovigo e Alpi Graie diedero inizio a sporadici combattimenti, che durarono poche ore. Lo scrisse anche il generale Renzo Apollonio, nel libro del 1975 “Le forze armate nella resistenza e nella guerra di liberazione nazionale”.
Leggiamo il racconto di un testimone del tempo, Duilio Biaggini, conservato nell’Archivio di Stato della Spezia. L’autore racconta che i tedeschi occuparono in primo luogo il palazzo dell’ammiragliato, tra via Chiodo e corso Cavour:
“Gli ammiragli, gli ufficiali hanno lasciato il comando. E’ bene riferire che un paio d’ore prima erano state auto-affondate in Arsenale e in bacino alcune cacciatorpediniere e navi da guerra. Presso i cantieri del Muggiano tre sommergibili avevano lasciato gli ormeggi, inabissandosi al largo. Uno dei tre sommergibili sembra che all’ultimo momento avesse ricevuto il contrordine di sospendere l’affondamento, ma dalla viva voce del comandante dell’unità subacquea ho appreso che egli ordinò ugualmente di fare affondare l’unità. Gli operai dell’Arsenale e così quelli degli stabilimenti industriali erano stati fatti uscire prima dell’arrivo di truppe.
Dalla strada di Sarzana truppe someggiate giungevano a Lerici avendo ragione del nucleo di marina, che aveva in precedenza autoaffondato i Mas della flottiglia. I tedeschi occupavano le scuole per alloggiamenti, e si accampavano prima nelle piazze e poscia in villette già sedi di comandi militari.
Presso Sarzana reparti di alpini si opponevano all’ingiunzione di lasciare le armi, e avveniva qualche scontro.
La Spezia, che aveva già più della metà della popolazione sfollata, è apparsa subito deserta. Tutti i negozi si sono chiusi. All’una i tedeschi avevano preso possesso dei punti principali della città.
Nella notte, parte della flotta che trovavasi nel golfo aveva lasciato la rada dirigendosi velocemente con grosse unità verso le isole e l’Africa. Sono rimasti alcuni piroscafi, ex francesi, e una nave ospedale.
La prima giornata non ha dato luogo a episodi notevoli.
Poco prima di mezzogiorno del 10 settembre, una motonave sulla quale avevano preso imbarco soprattutto elementi siciliani, muovendo le macchine piano cercava di oltrepassare la diga per dirigersi al largo. Da terra i tedeschi l’hanno cannoneggiata. Da bordo è stato risposto con spari. Poi la motonave si è incendiata. Sono stati occupati tutti gli stabilimenti industriali, dove gli operai nel terzo giorno di occupazione non si sono ancora presentati al lavoro. Tutti i servizi pubblici, tranviari, automobilistici e marittimi per Lerici e Portovenere e per i paesi dell’entroterra sono stati sospesi. Le auto trovate a circolare sono state requisite.
[…] Il principe Aimone, prima dell’occupazione, aveva lasciato Lerici via mare”.
Il principe era Amedeo di Savoia, duca d’Aosta, ammiraglio. Nel febbraio 1942 fu posto al comando dell’ispettorato generale delle flottiglie MAS (Generalmas), con sede prima a Livorno e poi a Lerici. L’8 settembre partì per seguire Vittorio Emanuele III a Brindisi.
La testimonianza di Duilio Biaggini trova riscontro nel libro di Dino Grassi “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista”, di cui ho appena curato la pubblicazione:
“Il 9 settembre sul tetto dei magazzini del molo principale del Cantiere, in una mattinata meravigliosa che la natura sembrava voler dispensare per consolazione o rendere meno triste il dramma che stavamo vivendo, potemmo vedere le ultime navi della flotta salpare per raggiungere – sapremo dopo – le basi dell’Italia liberata; dagli ormeggi della nostra darsena un paio di sommergibili in allestimento ma non ancora in condizioni di prendere il mare vengono portati in mezzo al golfo e lì affondati. Alla sera avevamo i tedeschi accampati un po’ ovunque; i nostri soldati allo sbando, le famiglie davano loro abiti per dismettere quelli militari”.
Tra le navi che lasciarono La Spezia quel 9 settembre 1943 – ne scriverò domenica prossima – c’era la corazzata Roma, che fu colpita da bombe lanciate da aerei tedeschi e affondò al largo dell’isola dell’Asinara. Oltre 1.200 marinai persero la vita.
GLI ALPINI PROTAGONISTI DEI PRIMI EPISODI DI RESISTENZA
Tra gli episodi sporadici e spontanei di resistenza ve ne fu uno presso Brugnato dove, secondo la testimonianza di Giuseppe Fregosi depositata all’Istituto Storico della Resistenza, alcuni artiglieri presero a sparare contro i tedeschi ma furono costretti a smettere in seguito a un ordine superiore.
Uno degli episodi più importanti – come riferito da Biaggini – avvenne a Sarzana.
Lo confermò Renato Jacopini, allora dirigente comunista, più tardi organizzatore di gruppi partigiani, nel libro “Canta il gallo”. La mattina del 9 settembre Jacopini se ne andò da solo, da Arcola dove lavorava, sulla via Aurelia verso Sarzana, nella direzione dalla quale, da un momento all’altro, secondo le speranze di quei giorni, dovevano apparire le colonne motorizzate alleate. Leggiamo:
“Per tornare a Sarzana, dovevo passare sul ponte del Magra. Qui intorno, era di stanza un battaglione d’alpini, il Val d’Orco. Guardai sulla cima del campanile della chiesa di Arcola, credendo di veder spuntare almeno la canna di una mitragliatrice. Pensavo che gli alpini avrebbero mantenuto la posizione a difesa della via Aurelia. Sul campanile, invece, non c’era più nemmeno la solita vedetta. Seppi poi che gli ufficiali se l’erano squagliata fin dall’alba: quanto agli alpini, si sbandavano, ognuno sperando di tornarsene a casa. Barattavano le divise con qualche vestito di contadini.
Non sapevo spiegarmi da che cosa potesse nascere quel panico diffuso in tutti e soprattutto nei militari. Arrivai alla stazione e non trovai né il capostazione né altri: vidi soltanto un marinaio, in divisa e armato di moschetto. Gli chiesi di dove veniva. Da Spezia, rispose: sono scappati tutti, e i tedeschi hanno occupato la città. Voleva nascondere il moschetto. Gli dissi di darlo a me, ma preferì spezzarlo, battendolo contro lo spigolo di un muro, e buttare i due tronconi in una siepe. ‘Meno male, pensai, la Marina getta anch’essa le armi, ma almeno le rende inservibili al nemico’.
Finalmente si fece vedere il capostazione. Di lì a poco sarebbe passato un treno, si diceva l’ultimo, per Pisa. Passò infatti, verso le undici, lentamente, ma senza fermarsi. Era carico di gente, in gran parte militari fuggiti da La Spezia, aggrappati ai predellini, ai respingenti, alcuni perfino saliti sui tetti dei vagoni.
Cominciai allora a provare, anch’io, un certo panico, come se un vento di folle terrore fosse passato su tutti. Incerto se andare a Spezia o a Sarzana, mi diressi verso quest’ultima, dove almeno avevo un letto. Poco oltre il ponte sul Magra, incontrai un tenente e un sottotenente medico, gli unici ufficiali alpini rimasti. Discutevano con alcuni civili che chiedevano la consegna delle armi abbandonate un po’ dovunque, lì intorno. Gli ufficiali erano titubanti: presentandomi come ufficiale a mia volta, appoggiai la richiesta dei civili. La discussione cessò di colpo quando vedemmo di là dal fiume una pattuglia di tedeschi venire avanti lentamente, rastrellando e rendendo inservibili le armi che trovava lungo la strada.
A due passi da noi era in postazione una mitragliatrice Fiat pesante: la sua sola presenza era un invito: mirai, più o meno bene, sulla pattuglia che avanzava allo scoperto, certa di non trovare resistenza, e lasciai partire tutto un caricatore. Seguirono subito il mio esempio i due ufficiali e i due o tre civili che si trovavano nel nostro gruppo. Uno dei tedeschi cadde, colpito, e gli altri si gettarono a terra ai lati della strada, rispondendo fiaccamente al fuoco. Appena dietro di essi comparve un carro armato, sparando verso di noi. Il sottotenente medico degli alpini, un bolognese, cadde ferito a morte. Il primo partigiano caduto nella nostra provincia, e mi dispiace di non aver saputo il suo nome.
Contro i carri armati non avevamo difesa efficace da opporre, e così ci disperdemmo subito nella campagna”.
Secondo lo storico Maurizio Fiorillo i tedeschi uccisi furono tre. Quasi certamente ebbero sepoltura. In Germania qualcuno avrà saputo. Ma il “primo partigiano”? Qualcuno si prese cura del suo corpo? I familiari vennero mai a sapere della sua morte? La ricerca continua…
Paolo Ambrosini, partigiano socialista sarzanese, raccontò anche un altro episodio. A Sarzana, fuori Porta Pisa, l’ufficiale alpino abruzzese Sergio De Vitis fu fermato dai tedeschi che gli chiesero di consegnare le armi. Lui sparò a bruciapelo, uccidendo due tedeschi. De Vitis fece poi il partigiano in Piemonte, dove fu ucciso il 26 giugno 1944. E’ Medaglia d’oro al Valor Militare.
Ma l’unico vero tentativo di resistenza organizzata fu quello di due compagnie del battaglione alpino Val di Fassa, di presidio sul litorale apuano, che il 9 settembre avevano deciso di ritirarsi sulle alture tra Carrara e Massa, sostenendo alcuni scontri. L’11 settembre, sotto il tiro dell’artiglieria tedesca, i gruppi si dissolsero, Nei giorni successivi i tedeschi rastrellarono le colline di Vezzano, Ameglia e Carrara e catturarono diversi alpini sbandati.
Secondo Ambrosini il gruppo del tenente medico di Bologna si asserragliò in una caserma di Carrara, a cui i tedeschi diedero fuoco:
“Non si è mai saputo con precisione quanti militari italiani delle varie Armi morirono lì dentro assieme agli alpini; tra i pochissimi identificati caduti, si registrò anche un certo Resasco Francesco, da Vernazza (La Spezia)”.
Di Francesco Resasco non c’è memoria a Vernazza, che non lo ricorda nel suo Monumento ai Caduti. Anche in questo caso la ricerca continua…
Infine, un episodio minore, ma anch’esso significativo. Luciano Dodi, pontremolese, me ne ha parlato dopo aver ascoltato parecchi anni fa il racconto di un impiegato alla stazione di Sarzana:
“Il 9 settembre mattina un treno partì da Spezia per Pisa, carico di militari dell’Arsenale che cercavano di tornare a casa. Quei giovani vennero a sapere che a Carrara i tedeschi avrebbero bloccato il treno. Scesero allora a Sarzana, e scapparono. Dopo mezz’ora arrivò in stazione una motocarrozzetta, da cui scese un tedesco con il mitra. Il tedesco entrò nell’ufficio del capostazione e, dopo una vivace discussione, lo colpì in pieno volto con il calcio del fucile spaccandogli tutti i denti”.
I ferrovieri di tutta Italia furono in prima fila nella solidarietà ai soldati sbandati.
Le storie raccontate in questo articolo danno il senso di cosa fu il “tutti a casa”: mancanza di direttive e senso di abbandono, stanchezza della guerra e voglia di rivedere la famiglia, paura, ma anche impulso a resistere all’invasione e timido affacciarsi di una consapevolezza nuova.
Come scrisse Giaime Pintor:
“I soldati che nel settembre scorso traversavano l’Italia affamati e seminudi, volevano soprattutto tornare a casa, non sentire più parlare di guerra e di fatiche. Erano un popolo vinto; ma portavano dentro di sé il germe di un’oscura ripresa: il senso delle offese inflitte e subite, il disgusto per l’ingiustizia in cui erano vissuti”.
L’UCCISIONE DI GIOVANNI PELOSINI
La raccolta delle armi abbandonate, con obiettivi ancora non chiari, era parte della nuova coscienza che stava nascendo e che preparava un nuovo momento di lotta per riscattare la libertà.
Tra i popolani che raccoglievano armi c’era Giovanni Pelosini, ventenne di Tellaro, che recuperò nell’amegliese, in località Montemurlo, insieme ad alcuni amici, armi abbandonate dai reparti alpini della divisione Alpi Graie sbandatasi nella zona. Sorpreso dai tedeschi, Pelosini tentò la fuga ma venne gravemente ferito da colpi di armi da fuoco. Morì all’ospedale di Sarzana. Era l’11 settembre 1943: fu il primo caduto della Resistenza spezzina che ricordiamo con un nome. Una targa lo ricorda nella sua Tellaro.
Post scriptum
L’articolo di oggi è dedicato a Francesco Scattina “Bren”, partigiano di Giustizia e Libertà e del Battaglione Vanni. Era uno degli ultimi, purtroppo ci ha lasciati nei giorni scorsi.
Le fotografie in alto sono di Giovanni Pelosini e della via a lui intitolata a Tellaro.
Le fotografie in basso sono di Ennio Carando e della via a lui intitolata alla Spezia.
Sul 1943 rimando a questi articoli:
“Marzo 1943. Gli scioperi che scossero il fascismo”, Il Secolo XIX nazionale, 19 marzo 2023
“Gli scioperi del marzo-aprile 1943, come il malcontento divenne politico”, www.patriaindipendente.it, 20 marzo 2023
“25 luglio 1943, non fu solo un’illusione”, Città della Spezia, 25 luglio 2023
“25 luglio 1943. Cade il fascismo stremato, ma la tragedia non è finita”, Il Secolo XIX nazionale, 25 luglio 2023
“In quei quarantacinque giorni di Badoglio cominciò il riscatto. E partì dal basso”, www.patriaindipendente.it, 20 agosto 2023
“Lo sciopero degli operai dell’OTO Melara, i calzolai e una lezione contro l’odio”, Città della Spezia, 26 agosto 2023
Su Ennio Carando, Marcello Jacopini, Dino Grassi e Giovanni Pelosini rimando a questi articoli:
“Il professore quasi cieco e il giovane ‘Spezia’”, Città della Spezia, primo maggio 2016
“La solitudine di ‘Marcello”, Città della Spezia, 17 maggio 2015
“La scomparsa di Dino Grassi”, Città della Spezia, 16 giugno 2023
“Montemurlo, 11 settembre 1943: la prima strage nazista in provincia”, Ameglia Informa, agosto 2023
“Dal 25 luglio all’8 settembre 1943. Dall’uccisione di Giovanni Pelosini al ritorno di Tommaso Lupi”, Lerici In, settembre 2023
lucidellacitta2011@gmail.com
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