25 luglio, riscopriamo la speranza
Città della Spezia, 29 luglio 2018 – Se nella prima guerra mondiale l’Italia era entrata impreparata, nella seconda entrò impreparatissima. Benito Mussolini decise l’entrata in guerra a fianco della Germania di Adolf Hitler, convinto che la guerra fosse ormai agli sgoccioli e di potersi sedere presto al tavolo della pace con qualche limitato successo militare da far valere nei confronti del potentissimo alleato tedesco. Mai previsione fu così drammaticamente sbagliata. Dal 1940 al 1943 le catastrofi militari si susseguirono. Intanto nel Paese il malcontento si trasformava in collera e in opposizione organizzata. I contatti tra gli oppositori si intensificarono e nel dicembre 1942 si costituì a Torino un Comitato antifascista in cui erano presenti, accanto ai socialisti, ai liberali e ai comunisti, due nuovi partiti, il Partito d’Azione, erede del movimento “Giustizia e Libertà”, e la Democrazia Cristiana. Nel marzo 1943, a Torino e poi a Milano, gli operai delle fabbriche scesero in sciopero. I gerarchi fascisti si ricordavano che dopo la marcia su Roma la classe operaia torinese era stata piegata soltanto con il ferro e con il fuoco. Molti di essi cominciarono a pensare che una guerra perduta era sempre preferibile a una rivoluzione. Nel frattempo le città italiane, tra cui La Spezia, erano sottoposte a terribili bombardamenti.
E’ in questo contesto che, 75 anni fa, maturò la “congiura” del 25 luglio 1943: una parte dei gerarchi, d’intesa con la monarchia, destituì Mussolini con un voto del Gran Consiglio del Fascismo. Il Duce fu portato a Ponza. Gli italiani, appresa la notizia dalla radio, riempirono le piazze con manifestazioni di gioia. La pace e la fine delle sofferenze sembravano vicine. Ma non fu così.
LINA FRATONI, UCCISA A QUINDICI ANNI
Anche alla Spezia ci fu una manifestazione: il 29 luglio scesero in piazza migliaia di persone, soprattutto operai. In testa al corteo c’erano un tricolore e l’immagine di Garibaldi: l’obbiettivo era spingere le Forze Armate a schierarsi contro la guerra. In corso Cavour, all’altezza di piazza Beverini, dalla seconda fila di un cordone di marinai e di poliziotti partì un colpo di moschetto che uccise il giovane operaio Rino Cerretti. Il corteo si spostò sul viale Regina Margherita (oggi Ferrari), dov‘era la sede del 21° Reggimento Fanteria. Di fronte, da una finestra del magazzino di artiglieria, dove alloggiavano i fascisti, partirono alcune raffiche di fucile: venne colpita a morte una ragazza del Limone, Lina Fratoni, apprendista operaia ai torni nelle officine Motosi.
Lina era nata il 28 aprile 1928, lavorava in fabbrica da tre mesi, dopo aver compiuto appena quindici anni. Fu colpita mentre portava una bandiera tricolore che sventolava alta, su di un semplice e rozzo bastone. Stava cantando insieme ai suoi compagni. Ecco la testimonianza di un’altra ragazza che quel giorno manifestava, Giuseppina Cogliolo:
“Eravamo a Spezia, c’era una manifestazione di giubilo per la caduta del fascismo. E questa ragazzina, Lina Fratoni, aveva pochi mesi più di me, no, meno di me. Adesso, io non la conoscevo, lei era un’operaia di Motosi e forse in quel momento non si rendeva nemmeno conto del momento storico che passavamo, vero? Perché a quell’età lì quasi quasi non ce ne rendiamo conto. Era in corteo e noi tutti in corteo, tutti dietro, insomma, era un corteo immenso. Quando siamo nei pressi… dove adesso c’è… la scuola 2 Giugno, allora lì c’era il Ventunesimo, il famigerato Ventunesimo dove han trovato dei partigiani che non l’han nemmeno riconosciuti dalle torture che facevano, c’era ancora la milizia fascista e ha cominciato a sparare. Non so se ha sparato in aria, conclusione questa ragazza qui è rimasta ferita gravemente, l’han portata all’ospedale, è morta. Allora la Questura, ricordo, ha vietato il funerale e me, in quel momento, forse sarà una cosa che m’è venuta dopo, è parso quasi che mi lanciasse un messaggio, non so, io l’ho sempre detto che la spinta iniziale è stata quella”.
La “spinta iniziale” per Giuseppina Cogliolo, che fu poi partigiana in armi con il nome di “Fiamma”, fu dunque il 25 luglio, con il suo seguito di manifestazioni e di vittime.
ANNA MARIA VIGNOLINI: GLI IDEALI PORTANO A OSARE COSE INIMMAGINABILI
Anche per Anna Maria Vignolini, sarzanese, che poi con il nome di “Valeria” coordinò e organizzò nella Resistenza i Gruppi di Difesa della Donna, tutto cominciò il 25 luglio. La manifestazione si svolse il 26 pomeriggio, con una grande partecipazione di operai, al rientro dalle fabbriche del capoluogo. Ecco la sua testimonianza:
“Il 25 luglio, quando tutta Sarzana esultò per la caduta del fascismo, presi parte alla manifestazione che si svolse nelle vie cittadine: fu la prima esperienza attiva alla quale partecipai. Dopo l’8 settembre e lo sfacelo dell’esercito aiutammo i giovani militari sbandati. Fu quella la svolta. Anche noi ragazze ci davamo da fare, non parlavamo più di ballo o di ragazzi. Andavamo in bicicletta al fiume in costume, per dare la sensazione di essere innocui bagnanti, invece facevamo riunioni politiche. Cantavamo ‘Bandiera rossa’ e l’’Internazionale’ sul fiume o nel Campo dei Cappuccini, dove ora c’è lo stadio. Prima ero timida, riservata e un po’ paurosa, di svenimento facile, poi il lavoro clandestino mi diede coraggio. Gli ideali portano a osare cose inimmaginabili”.
UNA NUOVA GENERAZIONE
Certamente la rottura con il fascismo diventò visibile scelta civile, politica e militare solamente dopo l’esito catastrofico dell’avventura imperial-guerresca e dopo la manovra di una parte della gerarchia fascista e della corona di liberarsi di Mussolini. Il che significa che, prima, le forze antifasciste attive e disposte a impegnarsi erano scarse.Ma queste testimonianze ci spiegano che, dopo il 25 luglio, irruppe sulla scena una generazione giovanissima di ragazze e di ragazzi disposti a tutto, all’insegna di un antifascismo esistenziale e spontaneo che non ne poteva più non solo della guerra ma anche della mancanza di libertà e delleingiustizie sociali.Una nuova generazione, che contribuì a rendere la rottura con il fascismo diffusa e di massa: a partire dalla responsabilità individuale.
NON PERDERE MAI LA FIDUCIA NELL’UMANO
Oggi molti sostengono che la natura dell’uomo è quella di un animale violento ed egoista che vede nell’altro una minaccia alla propria felicità. Il razzismo, per esempio, viene considerato un dato di natura. La paura verso l’altro sarebbe innata, tutti saremmo Caino.
Qualche settimana fa, invitato a un dibattito sul futuro della sinistra, ho sostenuto che il tema di fondo è il reinsediamento sociale e culturale della sinistra e la sua capacità di far leva sul protagonismo dei più poveri, dei sommersi e non dei salvati: perché le persone migliori che ho incontrato nella vita erano o sono povere, dagli operai che rinunciavano allo straordinario per l’impegno in sezione agli africani che sono costretti a migrare ma vogliono soprattutto restare. L’onorevole Andrea Orlando mi ha ribattuto che negli anni Cinquanta gli operai torinesi respingevano gli operai meridionali. Vero, almeno in parte. Ma gli operai torinesi nel marzo 1943 rischiarono il lager per scioperare contro il fascismo, e negli anni Settanta scioperarono per lo sviluppo del Mezzogiorno, fianco a fianco con i loro compagni meridionali. E operai erano Rino Cerretti, Lina Fratoni…Giuseppe Di Vittorio era un bambino di sette anni quando vide morire di fatica suo padre bracciante nella Puglia del 1899. Dovette lasciare la scuola e fare il bracciante insieme a tanti bambini come lui. Fu massacrato di botte con un compagno della sua età, che ne morì, perché avevano osato chiedere più pane per sfamarsi dopo una giornata di lavoro. Capì che bisognava alzare la testa e non togliersi più il cappello davanti al padrone. Vendette il suo unico paio di scarpe per comprarsi un vocabolario e fondò le Camere del Lavoro, fino a diventare il segretario della Cgil. Quindi non sempre i poveri sono stati egoisti, anzi. Vuol dire che è non è nella loro natura. E poi vuol dire che il problema sta nella politica: se crede che la cattiveria umana sia un dato antropologico e se non fa nulla per combattere la passività dei poveri e per promuovere il loro protagonismo, per trasformare noi stessi e la società, è una sinistra che aderisce all’ideologia della destra.
A cento anni dalla nascita di Nelson Mandela (18 luglio 2018) dobbiamo riflettere su come sia riuscito a sopravvivere a 27 anni di carcere duro e soprattutto a non perdere mai la fiducia nell’umano: “Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe a cui appartengono”, diceva.
NON SIAMO TUTTI CAINO
Il grande psichiatra Eugenio Borgna ha detto nei giorni scorsi, in un’intervista, che occorre rispolverare una parola antica, dal suono dolcissimo: speranza. Una possibilità di dialogo, di incontro con l’altro, in un’Italia che chiama “nemico” il più debole. “E’ un concetto lontano da quello che chiamiamo ottimismo o dalle illusioni… Significa mettere in gioco il presente, nutrendolo di passato e proiettandolo nel futuro. Liberandoci da rabbia e paura, e rieducandoci al confronto… Solo se entriamo in relazione con chi è fuori di noi possono emergere le nostre capacità… La tragedia attuale è la perdita della relazione con gli altri”. La speranza è la passione del possibile, un’inclinazione che parte dal nostro interno e ci spinge a immedesimarci negli altri. Perché non siamo tutti Caino.
Post scriptum:
Le testimonianze di Giuseppina Cogliolo e di Anna Maria Vignolini sono tratte dal libro mio e di Maria Cristina Mirabello “Sebben che siamo donne. Resistenza al femminile in IV Zona Operativa, tra La Spezia e Lunigiana”.
La foto in alto è della lapide a Cornice di Sesta Godano in memoria di BrunoVesigna, partigiano caduto combattendo contro i nazifascisti il 19 dicembre 1944; la foto in basso è di Anna Maria Vignolini.
Sul 25 luglio 1943 si veda, in questo giornale, l’articolo “25 luglio 1943, l’arresto di Mussolini e i cortei di Spezia e Sarzana” (29 luglio 2013).
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