1969, la felicità di Woodstock
Città della Spezia, 15 settembre 2019 – Sia pure con qualche settimana di ritardo, è giusto ricordare Woodstock, il grande concerto che si tenne a Bethel, un’ora di macchina da New York, dal 15 al 17 agosto 1969. Vi parteciparono oltre 400 mila giovani. Fu un grande festival musicale, in cui si esibirono Joan Baez, Grateful Dead, Jefferson Airplane, Joe Cocker, Crosby, Stills, Nash & Young, Carlos Santana, The Who, Ten Years after, Canned Heat, Credence Clearwater Revival, Jimi Hendrix, Janis Joplin (la vedete nella foto in basso) e moltissimi altri… Ma non fu solo questo, fu anche una manifestazione che si batteva per la pace e contro la guerra in Vietnam, e soprattutto una manifestazione che indicava un nuovo modo di vivere. Il simbolo dell’energia liberatoria di una generazione che voleva cambiare il mondo.
Woodstock, come tutto ciò che accadde nel 1968-1969, si capisce solo se lo si considera un effetto generato da anni di lotte e di controcultura. Alla radice ci sono tutti gli anni Sessanta: la beat generation, “On the road” di Jack Kerouac, gli hippies, la rivolta iniziata all’Università di Berkeley, in California, contro la guerra in Vietnam e la discriminazione dei neri, il movimento studentesco, la musica folk, beat, rock… L’unione di due rivolte, che poi purtroppo si ruppe: la rivolta “esistenziale” e la rivolta “politica”.
La musica era l’elemento che teneva insieme le due componenti, che non a caso erano entrambe a Woodstock. Il simbolo fu Jimi Hendrix che trasformò con la sua chitarra l’inno americano in una raffica di mitragliatrici, il suono straziante della guerra. Ma anche Joan Baez, che cantò “Joe Hill”, ispirato al martire dei diritti dei lavoratori. O Joe Cocker, che cantò “With a little help of my friends”: con un piccolo aiuto dei miei amici supererò la mia solitudine.
Janis Joplin, intervistata da “Time” dieci giorni dopo, disse:
“400 mila persone insieme e nessun capo. Noi non abbiamo bisogno di nessun leader. Noi ci teniamo insieme l’uno con l’altro. Abbiamo bisogno solo di mantenere lucide le nostre teste, consapevoli e tra dieci anni il nostro Paese potrà essere un posto decente dove vivere”.
La tragica fine della Joplin ci dice che purtroppo non fu così.
Eppure fu un bel sogno. Ho ormai ultimato una ricerca, insieme a Maria Cristina Mirabello, che è partita dal 1968-1969 per estendersi a tutti gli anni Sessanta. Anche a Spezia, nel nostro piccolo, una generazione fece un bel sogno. Ed anche da noi fu innanzitutto la musica ad aggregare le ragazze ed i ragazzi. Tutti la ascoltavano, tanti la suonavano. Era un modo per comunicare e per stare insieme in maniera “altra”, rispetto alla società autoritaria di allora.
Al Monteverdi -in un piccolo ma a suo modo straordinario concerto del giugno 1966- come a Woodstock e come in tutto il mondo c’era la stessa gioia di ritrovarsi in tanti e di provare a dare un senso alla propria vita. Alle origini del Sessantotto ci fu anche questa ricerca, ma le ricette offerte dalla politica -tutta- furono inadeguate.
Oggi quei concerti non si potrebbero ripetere. Non solo perché sono cambiate le tecnologie, ma anche e soprattutto perché sono cambiati i giovani, siamo cambiati noi. Non c’è più quella felicità, privata e pubblica. Sappiamo che la felicità ha un limite, non dura. Ma questa consapevolezza ci spinge, pur sapendo che non si può sfuggire a quel limite, ad avere ancora passione, desiderio, voglia di cambiare in meglio la propria vita insieme a quella degli altri. Allora la nuova Woodstock arriverà, prima o poi. Ma sarà qualcosa che oggi è assolutamente imprevedibile.
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