Suor Lucia e il Dio unico della giustizia
Città della Spezia, 30 agosto 2015 – “Africa” di Wole Soyinka, nigeriano, Premio Nobel per la letteratura, è un viaggio affascinante nelle culture, religioni, storia e identità africane. Un’indagine a tutto campo sulle forme in cui il continente africano ha espresso la sua spiritualità prima dell’avvento di Islam e Cristianesimo. Alla base di questa spiritualità, secondo Soyinka, c’è una visione umanistica: è la stessa tesi di autori di matrice molto diversa, come il grande poeta-statista senegalese Leopold Senghor e l’arcivescovo anglicano e oppositore dell’apartheid in Sudafrica Desmond Tutu, Premio Nobel per la pace. Senghor parlava di umanesimo della “negritudine”, Tutu di “ubuntu”, parola sudafricana che traduce come “l’insieme dell’umanità”. Anche per Soyinka è l’Africa precoloniale, sopravvissuta alle violenze dei secoli, che ancora sostiene la realtà sotterranea dell’autentico essere africano: una realtà che si contrappone alle guerre di religione che stanno lacerando il continente -musulmani integralisti contro cristiani e anche contro altri musulmani- non solo perché è precristiana e preislamica, ma anche perché è fondata su un umanesimo tollerante. Lo scrittore nigeriano è di fede “orisha”, una delle religioni “invisibili” dell’Africa, la millenaria fede del popolo yuruba dell’Africa Occidentale, che ha messo radici, tramite il viaggio degli schiavi attraverso l’Atlantico, in Brasile e in America Latina. Secondo la religione “orisha” la definizione di verità è una meta continuamente cercata dall’umanità: chi dichiara di possedere la conoscenza una volta per tutte è il principale ostacolo al raggiungimento della verità. In questa religione non esiste il concetto di infallibilità dottrinale, o quello di Rivelazione come parola ultima; e la stessa divinità ultima non è infallibile. Un umanesimo tollerante che -sostiene Soyinka- è stato sovvertito, spesso con violenza e disprezzo, dall’Islam e dal Cristianesimo. E che può essere preso come paradigma della spiritualità dell’intera Africa, di tutte le religioni descritte come animismo, feticismo, culti ancestrali, vodoo o adorazione degli spiriti.
Questa spiritualità la avverto anche a Sao Tomè, pur conoscendo ancora molto poco le persone, le loro tradizioni, la loro cultura. Si tratta di capire quanto di questa spiritualità sia rimasto oggi, innanzitutto nella professione della fede cattolica, la più praticata nell’arcipelago (l’80% della popolazione di Sao Tomè e Principe è di religione cattolica, poi ci sono gruppi di evangelici e di avventisti del settimo giorno). Alla domenica mattina è come da noi molti anni fa: gli uomini e le donne si mettono il vestito della festa, e spesso restano fuori dalle chiese, perché sono piene di gente. Il cristianesimo è cresciuto fino a diventare la prima religione in Africa, superando l’Islam. Ciò ha provocato le reazioni dei fondamentalisti islamici, soprattutto in Nigeria, Mali, Somalia e Kenya. Paradigma della situazione dei cristiani africani è la Nigeria, dove i cristiani stanno subendo la persecuzione del gruppo terroristico di Boko Haram. La situazione più complessa è nella Repubblica Centrafricana, dove si stanno scontrando milizie musulmane e cristiane, con violenze inaudite commesse anche dai cristiani (Amnesty International parla di “genocidio” in corso). A Sao Tomè non ci sono conflitti, anche se stanno arrivando, nella capitale, gruppi di musulmani dalla vicina Nigeria.
Con il rispetto dovuto alle posizioni di chi, come Soyinka, denuncia giustamente il “colonialismo religioso” avvenuto nei secoli, va anche detto che oggi la religione cattolica è, a Sao Tomè, fonte decisiva di impegno assistenziale, sociale ed educativo. Lo dimostra, tra l’altro, il ruolo svolto dalle Suore Francescane di Maria Immacolata, presenti da 55 anni nella capitale (innanzitutto nel suo ospedale) e da 17 anni a Neves, capoluogo del Distretto di Lembà. Insieme a Suor Lucia abbiamo visitato le sedi principali della loro attività: il giardino d’infanzia con 405 bambini da 2 a 5 anni, la scuola primaria con 417 bambini, la falegnameria e la sartoria, rispettivamente con 24 e 14 giovani impiegati (le foto di oggi sono state scattate nella sartoria). Queste due piccole imprese sono autosostenibili dal punto di vista economico: il 5% dell’utile va alle scuole e all’assistenza agli anziani. 20 anziani vivono in un ospizio, 70 vi pranzano, 150 hanno generi alimentari. C’è un buon rapporto di collaborazione con la Camara Distrital, l’organo di potere locale, e con il Governo centrale. La Camara, per esempio, garantisce il trasporto. “I servizi -ci spiega Suor Lucia- sono forniti dallo Stato, ma sono insufficienti: per i vecchi si fa poco, così per i bambini abbandonati: il 15% è iscritto da noi”. La religiosa ci conferma il quadro che ho delineato nell’articolo di questa rubrica “La leggenda dell’isola del libero amore”(2 agosto 2015): “le donne diventano mamme troppo presto, nella scuola secondaria abbiamo 12 ragazze in cinta… la famiglia è troppo debole, con pochi vincoli… le donne hanno figli da diversi mariti, che non si occupano dei figli… tutto è sulle spalle delle donne, non solo i figli ma anche i vecchi, e spesso le donne non ce la fanno… stanno crescendo la prostituzione e la droga”.
Ma vediamo meglio i dati, contenuti nel documento dell’Unicef “Politica e Estratégia Nacional de Proteçao Social” (2013). Le famiglie in stato di povertà estrema, che non hanno risorse sufficienti per soddisfare le necessità alimentari minime, costituiscono l’11,5% della popolazione, il 20,2% nel Distretto di Lembà, il più povero. La denutrizione cronica infantile affligge un bambino su 4 di età inferiore ai 5 anni. Il 15% dei più poveri non ha accesso alle cure sanitarie. Il tasso di scolarizzazione nella scuola dell’infanzia è del 41,8%, nella scuola di base è dell’ 85,4%, nella scuola secondaria è del 48,5%. L’accesso ai servizi scolastici dei bambini portatori di handicap è ancora allo stato embrionale. Nelle famiglie più povere spesso si ritirano i bambini da scuola per l’impossibilità di pagare le tasse scolastiche, e si preferisce che lavorino: il problema dello sfruttamento del lavoro minorile è molto serio. In questo quadro, sostiene l’Unicef, Sao Tomè e Principe ha un programma molto generoso di borse di studio all’estero, che assorbe il 47% delle risorse per il settore dell’educazione, e i cui benefici non sono proporzionali all’investimento: le borse di studio sono destinate all’educazione superiore, e di esse beneficiano in grande maggioranza i figli delle famiglie più ricche. Ancora: pensioni sociali molto basse per gli anziani poveri, nessun programma di lavori pubblici per i disoccupati, terminato il GIME (si veda in questa rubrica “Mucumblì e la sfida dell’ecoturismo”, 9 agosto 2015)… La comparazione della spesa sociale a STP con quella di altri Paesi africani con caratteristiche simili conferma che il Paese spende molto poco nel suo welfare. L’Unicef propone un aumento della spesa sociale con risorse locali (in parte provenienti da quelle oggi destinate alle borse di studio all’estero) dall’attuale 1,1% al 3% nel 2023, in caso di conferma degli aiuti stranieri; in caso contrario le risorse locali dovrebbero aumentare ancora. Lo scenario potrebbe mutare favorevolmente in caso di avvio della produzione/esportazione di petrolio (si veda in questa rubrica “Sviluppo a Sao Tomè, c’è spazio per le imprese italiane”, 16 agosto 2015).
Suor Lucia concorda: “Il rischio è che i programmi di cooperazione internazionale si concludano, servono più risorse locali”. E aggiunge: “C’è molto denaro, bisogna combattere le diseguaglianze… inoltre i soldi si trovano lottando contro la corruzione, che si batte solo con la partecipazione”. La religiosa ricorda con commozione la visita a Sao Tomè di Papa Giovanni Paolo II, nel giugno 1992: un viaggio memorabile, “dalla parte dei neri e degli schiavi”. Ora vorrebbe che arrivasse Papa Francesco. Viene in mente il discorso con cui Bergoglio ha chiuso il suo recente viaggio in Bolivia: “Diciamolo senza timore: noi vogliamo il cambiamento delle strutture. Questo sistema non regge più, non lo sopportano i contadini, i lavoratori, le comunità e i villaggi. Un cambiamento che tocchi tutto il mondo e metta l’economia al servizio dei popoli. L’equa distribuzione è un dovere morale, si tratta di restituire ai poveri e al popolo ciò che a loro appartiene”. Naturalmente Francesco parla in nome della fede; ma l’aspetto rivoluzionario è che parla in nome del Dio unico che non è cattolico né musulmano né ebreo né “orisha”. E’ il Dio unico della giustizia sociale e ambientale, ed è Francesco che per primo lo rappresenta e ne esprime il comandamento che si riassume così: “Ama il prossimo tuo un po’ più di te stesso”.
Giorgio Pagano
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