L’umanesimo africano parla anche a noi
Città della Spezia, 17 aprile 2016 – Il mio lavoro a Sao Tomè e Principe sta terminando proprio in questi giorni. Il Piano integrato di sviluppo sostenibile e inclusivo del Distretto di Lembà è stato approvato all’unanimità dall’Assembleia Distrital -equivalente al nostro Consiglio Comunale/Regionale – e poi è passato nuovamente al vaglio di un incontro pubblico, molto partecipato, con le comunità e le organizzazioni della società civili. La condivisione è stata ampia, anche da parte del Governo. Il Ministro dell’Amministrazione Interna ha espresso consenso al Piano e ha reso pubblico omaggio all’attività di Alisei, ong storicamente presente nell’isola. Con i diversi Ministeri abbiamo lavorato fianco a fianco in questi mesi, e tuttavia l’appoggio del Governo non era scontato (si veda, in questa rubrica, l’articolo “Ce la faremo?”, dell’8 novembre 2015 ), proprio per il carattere molto innovativo del Piano e della sua scelta-chiave, quella di puntare sull’ecoturismo.
Questa scelta si sta imponendo nei fatti. Le due strutture turistiche del Distretto, quella di Mucumblì, dove risiedo abitualmente, e quella di Monteforte, dove pure sono stato, sono quasi sempre piene, per tutto il periodo dell’anno. Ogni volta che faccio un’escursione scopro nuove meraviglie, rese ancora più tali dalla stagione delle piogge e dall’esplosione di colori che la caratterizza. Da Santa Catarina sono salito a Ponta Forada per poi scendere nella bellissima spiaggia di Boca Bela (la fotografia è in basso), attraverso sentieri immersi tra piante di cacao, di banana, di papaia… Ho cercato inoltre di salire da Ponta Figo fino alla sommità del Pico di Sao Tomè (2.024 m.), la montagna più alta dell’isola: dieci ore di cammino nella foresta primaria, poi la notte in tenda sulla vetta, il giorno dopo la discesa. Ma la stagione delle piogge non me lo ha consentito: si è scatenato un nubifragio, e dopo quattro ore di cammino, insieme alle due guide “Zè” e Nito, abbiamo deciso di tornare indietro. Era troppo pericoloso. La discesa è durata molto di più: il sentiero era diventato un ruscello circondato da cascate, abbiamo camminato per ore tra granchi e gamberi di acqua dolce, con “Zè” e Nito che si facevano strada a colpi di machete, tra canne e rami caduti. Comunque uno spettacolo!
Eppure nulla è scontato. Sao Tomè e Principe è un Paese contraddittorio, come ho scritto tante volte in questo Diario. E contraddittorio è pure il mio sentimento su quanto stiamo facendo: a volte ottimista, a volte pessimista. Ma, alla fine, penso sempre che ce la faremo. O meglio, che i saotomensi ce la faranno. Il nostro Piano l’abbiamo costruito con loro. Ora il nostro supporto continuerà: non solo perché una parte della nostra equipa si fermerà per altri due anni, ma anche perché stiamo già cercando donatori, imprese, partner, italiani e di altri Paesi. Claudio Rissicini, che ha seguito con me il Piano, si sta adoperando per una collaborazione dello Stato brasiliano di Amazonas nel settore della gestione comunitaria della foresta. Io sto lavorando perché funzionari e tecnici dei Comuni e dei Parchi italiani accompagnino i loro colleghi soatomensi. Le reti di cooperazione ligure e toscana sono attivate per coinvolgere nel partenariato tra comunità le nostre associazioni e le nostre imprese. Ma il più spetterà ai saotomensi: al Governo nazionale, certo, ma soprattutto alla Camara Distrital, perché non può esserci sviluppo locale senza un forte potere locale, e alla società civile, perché ogni cambiamento è sempre anche sociale e personale. Sì, ce la faremo, ce la faranno.
Dopo ogni riunione, ogni incontro, mi chiedo sempre se sia servito. E mi vengono in mente le parole dello scrittore uruguayano Eduardo Galeano in “Memoria del fuoco”: “Sono piccole cose. Non eliminano la povertà, non ci fanno uscire dal sottosviluppo, non socializzano i mezzi di produzione, non espropriano la grotta di Alì Babà. Ma forse scatenano la gioia del fare, e la traducono in atti. In fin dei conti, agire sulla realtà e cambiarla, anche se di poco, è l’unico modo per dimostrare che la realtà è modificabile”.
La cosa più importante è che, anche quando sono tra la sporcizia e il degrado, intravvedo sempre la dignità. E’ un concetto che ha ben spiegato Papa Francesco nell’enciclica “Laudato sì”: “E’ ammirevole la creatività e la generosità di persone e gruppi che sono capaci di ribaltare i limiti dell’ambiente, modificando gli effetti avversi dei condizionamenti, e imparando a orientare la loro esistenza in mezzo al disordine e alla precarietà. Per esempio, in alcuni luoghi, dove le facciate degli edifici sono molto deteriorate, vi sono persone che curano con molta dignità l’interno delle loro abitazioni, o si sentono a loro agio per la cordialità e l’amicizia della gente. La vita sociale positiva e benefica degli abitanti diffonde luce in un ambiente a prima vista invivibile. A volte è encomiabile l’ecologia umana che riescono a sviluppare i poveri in mezzo a tante limitazioni. La sensazione di soffocamento prodotta dalle agglomerazioni residenziali e dagli spazi ad alta densità abitativa, viene contrastata se si sviluppano relazioni umane di vicinanza e calore, se si creano comunità, se i limiti ambientali sono compensati nell’interiorità di ciascuna persona, che si sente inserita in una rete di comunione e di appartenenza. In tal modo, qualsiasi luogo smette di essere un inferno e diventa il contesto di una vita degna”.
Sono entrato in abitazioni poverissime, sia nei villaggi rurali che nella periferia della capitale, e vedendo “l’ecologia umana” ho sempre pensato a queste parole di Francesco. Credo che alla base ci sia, come ho scritto più volte, un umanesimo africano. A differenza del nostro è poco scritto, ma esiste. C’è tutta una cultura da riscoprire: l’Africa ha avuto una storia e una civiltà le cui radici sono antiche quanto e più di quelle europee. Lo schiavismo prima e il colonialismo dopo hanno considerato gli africani come “merce”, li hanno “disumanizzati”. Ora c’è da riscoprire un’identità africana radicata nel continente e non costruita dall’esterno attraverso i filtri della cultura europea. Vale anche per Sao Tomè e Principe: l’individualismo e la scarsa coesione sociale si sconfiggono anche con il recupero della storia, della cultura, dell’identità saotomensi. Sono importanti le manifestazioni di arte e musica tradizionali. E’ importante il Museo Nazionale, collocato nel magnifico Forte di San Sebastiano (la fotografia è in alto), che ci introduce nell’animismo e ci fa vedere la brutalità del colonialismo e la fierezza della lotta anticoloniale. E’ importante lo studio della storia locale nelle scuole. Perché, come dice lo storico e antropologo senegalese Chieikh Anta Diop: “senza la coscienza storica, i popoli non possono essere chiamati a grandi destini”. Noo Saro-Wiwa, figlia di un attivista nigeriano assassinato, cresciuta in Inghilterra, racconta in “In cerca di Transwonderland” il suo viaggio di ritorno in Nigeria. Si infuria, si rammarica, critica e disapprova con sguardo occidentale, ma poi si riconcilia con la sua terra: “Io, donna di città e progressista, ero diventata un’amante della natura e delle cerimonie animiste precoloniali”.
Forse ci sono residui dell’Africa antica e profonda che possono diventare semi per un frutto futuro: una spiritualità segreta e non esibita, sistemi di parentela basati sulla solidarietà e l’aiuto reciproco, metodi ecologici in agricoltura. Forse, in questo mondo globale così inaridito e succube del dio denaro, l’Africa ha qualcosa da dire anche a noi.
Postscriptum:
con questo articolo termina il “Diario do centro do mundo”. Grazie a tutte le lettrici e a tutti i lettori che mi hanno seguito durante questa avventura. Domenica 24 aprile ritornerà la rubrica “Luci della città”.
Giorgio Pagano
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