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“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
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La cooperativa del cacao biologico traina l’economia e migliora la vita

a cura di in data 19 Luglio 2015 – 10:01
Piantagione di Diogo Vaz, le baracche in cui vivono i lavoratori   (foto Giorgio Pagano)

Piantagione di Diogo Vaz,
le baracche in cui vivono i lavoratori
(foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 19 luglio 2015 – Il futuro dei lavoratori di Sao Tomè e Principe sta nella capacità di riscoprire, ovviamente in modo originale e coerente con la cultura locale, le migliori esperienze degli albori del movimento operaio europeo: in particolare l’impegno dei lavoratori a creare cooperative e forme di mutualismo, capaci di dare loro più benessere e insieme più coscienza sociale.
Il ragionamento vale in generale, per il settore della pesca come per quello dell’ecoturismo, ma ancor più per l’agricoltura, la più importante risorsa economica del Paese. La maggior parte dei saotomensi vive in zone rurali, ed è impegnata nella coltivazione del cacao -la principale fonte delle esportazioni nazionali-, del caffè e di prodotti di orticultura.
Dopo l’epoca coloniale, in cui i lavoratori sono sempre stati, in sostanza, schiavi, si passò alle nazionalizzazioni della fase “socialista” post indipendenza (1975-1992): molta burocrazia, poca libertà, scarse capacità gestionali. Con le privatizzazioni, dal 1992 in poi, si è proceduto alla estrema frammentazione della proprietà agricola: la produzione non ne ha tratto benefici. Nel complesso, in tutti questi anni, le condizioni di vita dei lavoratori non hanno conosciuto grandi miglioramenti, anche se devo correggere l’impressione iniziale, riportata nel primo articolo di questa rubrica, secondo cui “ben poco è cambiato rispetto a un secolo fa”. Ho conosciuto meglio la capitale, Sao Tomè, che qui tutti chiamano “la città”: molte case, nel centro, sono in muratura, non solo le vecchie ville coloniali, ma anche le costruzioni più recenti. Anche se la periferia della “città” è tutta di baracche. Nelle zone rurali del Distretto di Lembà, quello in cui risiedo e lavoro, gli agricoltori vivono tutti in baracche senza servizi, e la povertà è estrema. Ma non c’è più la schiavitù. E ci sono anche segnali di cambiamento positivo, sia pure a macchia di leopardo.

Ho visitato molte piantagioni. Le baracche che vedete nella foto in alto sono quelle dove vivono i lavoratori della piantagione Diogo Vaz, le cui strutture sono solo in parte abbandonate perché alla parcellizzazione proprietaria è succeduta un’unica impresa, la Kennyson, di capitali camerunensi. Non è l’unico caso di intervento imprenditoriale esterno: a Monte Cafè ho visitato una piantagione la cui proprietà è di un’impresa di Taiwan. Nel Distretto di Lembà opera un’impresa franco-svizzera, la Saotocao, che possiede 2500 ettari, non uniti tra loro ma divisi in singoli terreni, acquistati dallo Stato, perché abbandonati, o da piccoli proprietari (ma in alcuni casi espropriati senza il loro consenso, il che provocò forti proteste degli agricoltori contro il Governo di allora). In tutti questi casi viene coltivato soprattutto il cacao, che poi viene essiccato negli appositi essiccatoi (come quello della foto in basso, sempre di Diogo Vaz) e infine esportato, in Francia o in Belgio, per produrre cioccolato. La Kennyson ha riattivato gli essiccatoi, ma restano abbandonate bellissime strutture di archeologia industriale, sedi di impianti diventati obsoleti, di carpenterie, di officine di riparazione dei mezzi, e così via… Le baracche dei lavoratori, oggi dipendenti della Kennyson, sono sempre quelle dell’epoca coloniale. Le lamiere dei tetti nel frattempo si sono rotte, e piove dentro queste misere “case”, piene di secchi pronti per la stagione delle piogge. La mancanza di acqua potabile, mi gridano le donne, ha provocato casi di febbre tifoidea. La privacy di cui parliamo noi occidentali è un concetto del tutto inesistente. Quelle baracche che vedete nella foto contengono una “casa” per ogni porta, ma dentro le pareti di tavole di legno non arrivano al tetto, funzionano solo da “separè”. Il tetto è più in alto, e tutti sentono tutto quello che accade e che si dice in ogni “casa”. Nella piantagione di Ponta Figo la situazione è simile, anche se permane la frammentazione proprietaria e c’è anche chi abita nelle strutture in pietra ex coloniali, non più utilizzate per l’agricoltura. Qui una multinazionale, la Chevron, ha donato alcune latrine “collettive” in lamiera, posizionate vicino alle abitazioni. Ma non vengono usate, non c’è l’abitudine all’utilizzo degli spazi comuni e i bisogni si fanno sempre nei campi. Nella vicina isola di Capoverde, mi hanno spiegato alcuni amici cooperanti, le vecchie abitudini sono state superate solo con la realizzazione di latrine in ogni “casa”.

Piantagione di Diogo Vaz, il cacao in un'essiccatoio  (foto Giorgio Pagano)

Piantagione di Diogo Vaz,
il cacao in un’essiccatoio
(foto Giorgio Pagano)

Nei casi di subentro di un’impresa straniera è sicuramente aumentata la produzione, ma non sempre il benessere dei lavoratori. Diverso è il caso della cooperativa di cacao biologico (senza pesticidi) CECAB. Ecco i segnali di cambiamento positivo a cui accennavo. La cooperativa è nata nel 2005, dall’unione di 40 comunità agricole e 34 associazioni, e coinvolge 2000 famiglie del Distretto di Lembà (le donne sono più di un terzo del totale degli agricoltori). “Siamo il principale esportatore di cacao del Paese”, ci spiega in un incontro il Direttore Antonio Diaz. Il cacao viene prodotto ed esportato in Francia, grazie a un accordo con l’impresa Kaoka. “Nei nostri primi dieci anni di vita -racconta Diaz- ci siamo impegnati per integrare sempre nuove associazioni e comunità, superare lo spirito individualistico, fare emergere leader comunitari nei villaggi, e per produrre un cacao di sempre maggiore qualità, grazie a strutture di lavorazione sempre più adeguate”. I produttori hanno imparato a utilizzare essiccatori solari di cacao, e impianti di stoccaggio per limitare il deterioramento dei semi di cacao raccolti. La CECAB ha fatto da apripista: altre cooperative sono sorte non solo nel settore del cacao, ma anche in quelli del caffè e del pepe. Il reddito annuo dei lavoratori delle cooperative è aumentato. Con gli utili, continua Diaz, “diamo sostegno economico e sanitario ai lavoratori soci, paghiamo i funerali, finanziamo iniziative socioculturali, apriamo botteghe in cui loro possono comprare buoni prodotti a buon prezzo”. “Noi in Europa lo chiamiamo mutualismo”, gli dico. Lui assente con convinzione, conosce il termine e la sua storia. Ora la cooperativa coltiva 4000 ettari e produce 1000 tonnellate di cacao all’anno: la media tra chi produce 30 e chi 1200. L’obbiettivo, dal 2015 al 2025, grazie a nuove tecniche produttive, è raddoppiare, passare cioè a 2000 tonnellate. L’utile è raddoppiato nei primi dieci anni, l’obbiettivo è raddoppiarlo ancora. Fino al passo finale: non solo esportare il cacao, ma anche produrre il cioccolato a Sao Tomè. Ora, come racconterò in un’altra occasione, lo fa solamente, con una produzione di alta qualità e un mercato di nicchia, un italiano, il fiorentino Claudio Corallo.
L’esperienza di CECAB ci dice che “mutualismo” è una parola chiave per il futuro di Sao Tomè e Principe. E che l’altra parola chiave decisiva è “agricoltura biologica”. Le piantagioni biologiche sono vive, ci sono uccelli, ci sono insetti, c’è la vita. Le piantagioni trattate chimicamente hanno una produzione maggiore, ma sono morte. Il biologico garantisce migliore qualità. Il progetto è nato per volontà dell’IFAD, il Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo, che ha dimostrato così che puntare sulla produzione sostenibile rappresenta un’opportunità di crescita per i piccoli agricoltori dei Paesi in via di sviluppo. Attraverso il progetto sociale e biologico è cominciata a Sao Tomè e Principe una “rivoluzione”, che ora deve estendersi a tutto il Paese. Viene in mente l’esperienza del Perù: settemila piccoli coltivatori di caffè e cacao hanno costituito la cooperativa Norandino e hanno sottratto spazio ai campi di cocaina, con il risultato di trovare sbocchi commerciali all’estero, di assicurare il rispetto dei diritti dei lavoratori e lo sviluppo sociale ed economico dell’area. La sfida è garantire un cibo che arriva su grandi circuiti ma viene dalle comunità locali: come ricorda l’economista indiana Vandana Shiva, il 70% della produzione agroalimentare del mondo è assicurato dai piccoli contadini. Coltivazione sociale e biologica: è questo il futuro della produzione agroalimentare.

Giorgio Pagano

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