Lungo l’antica via del sale, tra il forno per i viandanti e il paese fantasma
Città della Spezia, 6 settembre 2020 – L’antichissima strada romana che saliva dalla Riviera di Levante verso il territorio parmense -attraverso cui si trasportava il sale prodotto dalle saline di Sestri, ma anche olio e vino, e al ritorno il grano- transitava per Carro e Castello, superava il fiume Vara e poi saliva verso Costola, Buto, Teviggio, Porciorasco e Caranza. La via del sale consentiva inoltre il collegamento più rapido tra due importanti abbazie, quella di Brugnato e quella di Bobbio. Seguire l’andamento delle creste e i crinali era il modo più sicuro per attraversare i monti liguri, perché esposti al sole tutto il giorno e meno soggetti alle aggressioni dei banditi. In seguito la strada per raggiungere l’Emilia fu deviata, per accorciare il cammino, verso Salino e San Pietro Vara, transitando ancora per Teviggio, Porciorasco e Caranza. Nel XII secolo il tragitto fu definitivamente deviato verso San Pietro e Varese, raggiungendo poi il passo delle Centocroci. Il nuovo tracciato favorì lo sviluppo economico di Varese (si veda il secondo articolo della rubrica) e la staticità dei paesi che si trovavano sull’antica strada, diventata secondaria.
Il “viaggio” di oggi ci porterà nei paesi -facenti parte del Comune di Varese Ligure- di questa antica strada nella valle dello Stora, affluente del Vara che nasce dal Monte Scassella, tra il passo della Cappelletta e il passo delle Centocroci. Erano paesini sparsi in numerose località, perché la necessità di utilizzare ampi spazi per la coltivazione e per l’allevamento impediva la formazione di un consistente nucleo principale. Solo Porciorasco fa eccezione, come vedremo. Le popolazioni ridussero nei secoli a coltura tutte le terre favorevoli, trasformando le colline in scalinate di fasce. Il resto delle terre serviva per l’allevamento e la pastorizia. Ciò che unisce questi paesi è inoltre il Monte Gottero, che li sovrasta e nelle cui selve le popolazioni raccolgono funghi, lamponi, mirtilli, fragole. Nel terzo articolo della rubrica ho scritto che la vera montagna di Varese è lo Zatta: ma vale per il “capoluogo” e per i paesini attorno al Vara. Per i paesini attorno allo Stora la vera montagna è il Gottero, così come per la vicina Sesta Godano. Non a caso uno degli itinerari più frequentati per la vetta è quello che inizia dal passo della Cappelletta, subito dopo Caranza. Ma si può partire anche dagli altri paesini.
Costola, Buto, Teviggio, Porciorasco e Caranza sono tutti ricchi di fascino e di storia. Il “viaggio” -che si può fare in macchina o passando per la mulattiera di un tempo- va arricchito dalla lettura, davvero preziosa, dei libri dedicati a ognuno di questi paesi, scritti dal 2002 al 2017 da Buto Cultura e pubblicati a favore delle relative parrocchie, che hanno così potuto finanziare numerosi restauri.
COSTOLA
A Costola, e poi a Buto, mi accompagna Maurizio Pietronave di Buto Cultura. Il paesino, vera e propria “sentinella” della Valle, controllava la via di fondovalle e anche quella, più antica, di crinale, con un castello sulle cui rovine nel XVI secolo, cessate le esigenze difensive, si costruì la chiesa di San Vincenzo. Dal paese c’è un bellissimo panorama, da cui si ammirano San Pietro e tutte le frazioni del Comune di Maissana, tranne Maissana e Torza, sullo sfondo dei monti Verruga e Porcile (si veda il primo articolo della rubrica).
In precedenza la chiesa era situata in località Cavallanova, ma non ne sono rimaste tracce. Dal punto di vista religioso la zona di Costola, come quelle di Buto e di Teviggio, dipendeva in origine dalla Diocesi di Luni, e in particolare dalla pieve di Robiano (poi Godano), e poi dalla Diocesi di Brugnato. Le tre zone non erano, insomma, “sotto Genova”, come tutte le altre del territorio varesino.
La chiesa fu ristrutturata nell’aspetto attuale nel XVIII secolo, in stile barocco. Furono utilizzati materiali di reimpiego: il portale ha elementi del portale originario. La facciata è rosa e crema, l’interno è ricco di marmi e di affreschi. Sopra l’altare maggiore è collocato un crocifisso ligneo. Il campanile fu costruito dopo, alla fine del Settecento.
BUTO
Da Costola si va a Buto anche a piedi, attraverso una bella passeggiata. La chiesa attuale, dedicata a san Pietro, era anticamente la cappella cimiteriale. Fu costruita nel 1650 circa, poi ampliata e ristrutturata più volte, fino alla forma odierna. Il bel campanile (si veda la foto in basso), autonomo dalla chiesa, fu costruito a metà Ottocento, anche con l’utilizzo di pietre prelevate dai ruderi di un vecchio castello. L’interno ha marmi ed affreschi. Nella chiesa si vede bene la sagoma del precedente campanile.
La chiesa più antica, risalente al 1200, era nella località Focetta. Fu una delle celle dei monaci benedettini Brugnatensi, luogo di incontro, di meditazione e di preghiera per i religiosi che lavoravano i campi e insegnavano a coltivarli agli abitanti del luogo. La si vede tuttora, in quello che è il nucleo più antico di Buto: ancora nel Settecento c’era un punto della dogana della Repubblica di Genova, che controllava il commercio.
Proseguendo la strada si arriva al confine con il Comune di Sesta Godano: anche a piedi si può raggiungere Groppo. Proprio al confine si distacca il sentiero per il Gottero, lungo il quale si trova il piccolo eremo delle suore Benedettine (oggi ne è rimasta una), “famose” per le marmellate.
TEVIGGIO
E’ di grande interesse anche Teviggio, immerso nella pace del verde, con bei panorami. La Chiesa parrocchiale, dedicata ai Santi Rocco e Quirico, ha un’elegante facciata barocca e un grande campanile. La precedente Chiesa di San Quirico fu distrutta da un’alluvione, provocata da uno straripamento del torrente Stora. L’Oratorio di San Rocco -in posizione più sicura- fu ampliato nella forma attuale alla fine del XVI secolo e trasformato dunque in Chiesa. L’ho visitata grazie ad Adriana Pezzi ed al marito. L’interno colpisce per la sua bellezza. Vi ammiriamo l’altare dedicato a San Rocco, il più antico perché proveniente dalla cappella precedente, quella dell’Oratorio; e poi l’altare maggiore con un crocifisso ligneo, l’altare di Nostra Signora di Caravaggio -verso la quale c’è la devozione più grande-, quello di Nostra Signora del Rosario, con una scultura lignea della scuola del Maragliano, l’altare di Santa Lucia, la statua di San Quirico, l’organo, il presepe… Un vero scrigno.
Sul lato sinistro della Chiesa di Teviggio c’è una costruzione che racchiude i resti di una loggia per pellegrini, con un forno in mattoni chiuso da una mezzaluna di legno.
Don Sandro Lagomarsini ha pubblicato nel 2019 “La Devota della Costa. Il genio cristiano di Margherita Antoniazzi”. Margherita fu protagonista, nei territori piacentini, di una straordinaria esperienza cristiana nei primi decenni del Cinquecento. Nata nel territorio di Bardi, nel parmense, esperta di pastorizia, conosceva pascoli, sorgenti e grotte di più valli appenniniche. Alla sapienza pratica aggiungeva, secondo la voce popolare, una singolare familiarità con la Vergine Maria. Margherita, nell’ambito contadino e montano, realizzò i più alti obiettivi evangelici: il sostegno ai bambini e alle madri sole, la scuola come elemento di elevazione e di libertà, la promozione della pace dentro le famiglie e le comunità. La bambina fu affidata, quando aveva all’incirca dodici anni, nel 1514-1515, a una famiglia di Teviggio, alla Ca’ Bianca. Di fatto era lavoro minorile -guardiana del bestiame- sotto un padrone. Probabilmente l’accordo tra i genitori e la famiglia affidataria avvenne a Compiano, in occasione della fiera di San Terenziano. Durante la permanenza di Margherita a Teviggio era già costruito e funzionante l’Oratorio di San Rocco. Scrive don Sandro:
“Ma la cosa più singolare è il forno, dalla muratura in solida pietra lavorata, che dall’Oratorio di San Rocco dista pochi passi e oggi si trova inglobato nella nuova Chiesa. Assieme al suo atrio coperto, il forno costituisce un piccolo Ospitale, dove i viandanti poveri possono cuocere la farina ricevuta in elemosina e, all’occorrenza, anche dormire. E’ la stessa cosa che si poteva fare nel camino della “Casetta” annessa alla Chiesa di San Martino di Zanega, in territorio di Scurtabò. Quante volte Margherita ha visto, da lontano, i poveri in transito e il fumo uscire dal forno? Ogni volta ha ricevuto la conferma che vivere la fede significa anche condividere il pane e la farina”.
PORCIORASCO
A Porciorasco la Chiesa, dedicata a San Michele Arcangelo, sorse nel XII secolo. Attorno ad essa furono costruite le case del nucleo centrale, che si consolidò nel XVI secolo. L’ipotesi di don Lagomarsini è che la Chiesa facesse parte di un complesso monastico rurale: il disegno è indubbiamente quello. E’ un’ipotesi affascinante, che potrebbe giustificare la posizione dell’antica Chiesa, l’esistenza di fabbricati importanti, di cui uno da sempre chiamato “foresteria”, la formazione dei terrazzamenti… Servirebbe una campagna di scavi per confermarla.
La zona, dal punto di vista religioso, era compresa nella Diocesi di Luni, ma non appartenne alla pieve di Robiano, a differenza di Costola, Buto e Teviggio. Probabilmente fu di fondazione brugnatense.
Quel che sappiamo con certezza è che, dalla fine del XVI secolo, la storia del paese si intrecciò strettamente a quella della famiglia De Paoli, originaria della Corsica. I De Paoli diedero a Porciorasco tre parroci e costruirono un complesso aziendale, unico nell’Alta Val di Vara, di produzione agricola e artigianale e con attività commerciale, con il coinvolgimento di gran parte della popolazione del paese. “In una zona di gente indipendente e riottosa”, ha scritto don Lagomarsini, i De Paoli instaurarono “un regime di infeudamento unico per vastità e importanza economica”.
L’estinzione della famiglia De Paoli avvenne nella prima metà del XX secolo; ne diventarono eredi alcuni membri della famiglia Gotelli, originaria di Teviggio. Tra questi emerge la figura di Angela Gotelli, deputata all’Assemblea Costituente per la DC. Grazie a lei il “palazzo” fu utilizzato, dalla fine di dicembre del 1944 alla fine del gennaio 1945, come sede del Comando partigiano della IV Zona Operativa.
I De Paoli realizzarono il “palazzo”, visibile ancora ora, anche se in precarie condizioni (si veda la foto nell’articolo “’Richetto’, Tino e la ‘santa pattona’” della rubrica su questo giornale “Luci della città”, 18 gennaio 2015): la costruzione più grande del paese, composta da locali a uso abitazione, spazi destinati al lavoro (magazzini e laboratori artigianali), stalle e fienili. E pure una biblioteca e una stanza segreta. Insomma, il palazzo era una piccola “città indipendente”. Due versi di Orazio, incisi agli inizi del Settecento sul portale del palazzo, dicono il programma familiare: “Parta labore quies / iterum paritura laborem” (Il benessere è frutto del lavoro e genera a sua volta nuova attività).
L’antica Chiesa ospitò sotto l’altare una bellissima statua di legno, della scuola del genovese Anton Maria Maragliano, raffigurante la Madonna di Lavasina, la cui venerazione era nata in Corsica (Lavasina è poco a nord di Bastia). Nella seconda parte del Settecento fu costruito il campanile. La Chiesa fu in demolita in parte e ricostruita all’inizio dell’Ottocento, per allargare la piazza antistante. Alla fine di quel secolo la Chiesa si dotò di una Madonna del Sacro Cuore, acquistandola dalla Chiesa di piazza Navona a Roma. Angela Gotelli raccontava che la popolazione non era affezionata alla vecchia Madonna di Lavasina: da qui l’acquisto della nuova statua.
La Chiesa è splendida, anche se abbandonata, piena di crepe e di muffa… L’ho visitata grazie a Linda Merciari, amica di Varese. Il suo “Ricordi di scuola (Diario di una maestra)” ha impreziosito il primo Volume del libro mio e di Maria Cristina Mirabello “Un mondo nuovo, una speranza appena nata”. Nella Chiesa si ammira ancora la Madonna del Sacro Cuore, mentre quella di Lavasina è al Museo Diocesano della Spezia. La sua nicchia è vuota. Ma sono molto belli anche l’altare maggiore, con il crocifisso e gli affreschi, l’altare di San Michele, le decorazioni del soffitto, un altro crocifisso ligneo, il coro, l’organo, i confessionali, i mobili della sacrestia…
Oggi il nucleo centrale di Porciorasco è abbandonato. Nel 2006 morì Maria Caterina Rossi detta “Rina”, per una quindicina d’anni l’unica abitante del paese. Attualmente una casa del paese è abitata da una signora di Sestri Levante. Le altre costruzioni sono ruderi (si veda la foto in alto).
Uno scozzese ha rilevato tutto il paese, tranne la casa abitata. Il “palazzo” dai Gotelli, i ruderi dall’Istituto Diocesano per il sostentamento del clero della Spezia. Peccato che non si sia potuto operare lo “scambio” tra vendita dei ruderi e restauro della Chiesa. L’acquirente realizzerà un “albergo diffuso”, rispettando la tipologia architettonica degli edifici. I lavori sono in corso. L’italian ghost town, il paese italiano fantasma, come lo definiscono gli articoli scritti dai figli degli emigranti, si salverà. Ma la Chiesa? Se non si interverrà con urgenza, il degrado sarà inarrestabile. E anche il sistema di terrazze del suolo andrebbe recuperato. Altrimenti di Porciorasco si perderà, in ogni caso, la “comunità”.
CARANZA
Caranza è il territorio più montano tra quelli del nostro “viaggio”. L’ambiente è molto bello, ma d’inverno il clima è rigido: gli antichi abitanti vivevano in case scavate nel terreno. Il primo stanziamento abitativo fu un castello: lungo la mulattiera storica vi sono alcune tracce. Nessuna traccia, invece, dell’Ospitale che gli abitanti di Caranza, assieme a quelli di Varese e della Val di Taro, realizzarono per i viandanti vicino al passo delle Centocroci. Era dedicato a San Michele.
Tracce più consistenti sono presenti, invece, della prima Chiesa di Caranza, che era poco più in basso rispetto all’attuale. Massimo Noceti, che mi ha aperto la Chiesa attuale, mi ha spiegato che i rovi rendono inaccessibile il sentiero che conduce alle rovine: altrimenti si vedrebbero ancora l’ingresso con l’inizio del portale a volta, parte dei muri perimetrali, parte dell’abside… Basterebbe poco per disboscare. A proposito: anche i ruderi del vicino castello del Monte Tanano, costruito alla metà del XII secolo dai Fieschi per poter dominare la valle dello Stora, sono inaccessibili per via della vegetazione infestante…
La Chiesa attuale di Caranza fu edificata nel 1664, ma subì rimaneggiamenti e trasformazioni nel 1844 e ancora di più nel 1934; in quest’ultimo periodo era prevosto il sacerdote Giovanni Battista Pardini che venne nominato, nel 1953, Vescovo di Jesi nelle Marche. Della Chiesa originaria è rimasta la testa della statua di un angelo, visibile perché incastonata nella roccia, appena sotto il piazzale della Chiesa. Una parte della popolazione era contraria alla demolizione, ma la lettera anonima indirizzata al Vescovo è del 1933, in pieno regime fascista… Ovviamente si andò avanti. La Chiesa di Caranza, va notato, non dipendeva, come le altre citate in questo articolo, da Luni-Brugnato, ma fu sempre “genovese”, soggetta cioè alle Diocesi prima di Genova, poi di Chiavari.
Sia la Chiesa che il campanile attuali hanno certamente il loro fascino… Ma il passato è andato perduto.
Resta, oltre alla testa d’angelo, l’architrave in pietra arenaria, collocato sulla facciata dell’Oratorio accanto alla Chiesa. Porta scolpito a bassorilievo il mistero dell’Annunciazione e parecchi stemmi. Secondo la tradizione era nel castello del Monte Tanano. Per don Sandro Lagomarsini ne era autore il Maestro Ilario, su cui si soffermò, nella sua “Relatione”, il canonico Antonio Cesena (si veda il secondo articolo della rubrica).
A proposito di passato: a Caranza, dopo l’8 settembre 1943, fu fondata la Brigata Centocroci, una delle più importanti della nostra Resistenza. Tra i fondatori c’era il futuro Comandante, Federico Salvestri “Richetto”, nativo di Teviggio. La riunione si tenne nella casa dei Lunghi, tra la nuova e la vecchia Chiesa. Ora nella casa dei Lunghi abita Marisa Uccelli, che mi ha ospitato. L’edificio è molto bello. Le piante hanno tolto la veduta di Porciorasco, ma nei prossimi giorni saranno tagliate. Marisa mi ha offerto le “roette”, da lei appena cucinate in vista del mio arrivo. Ci volevano proprio, dopo un piccolo panino al passo delle Centocroci tra una visita e l’altra. Sono piccoli dolci dalla forma di ruota dentellata, dalla ricetta super segreta, tant’è che sono un prodotto “slow food”. Ma di ricette, di “Terre Alte” partigiane e di molto altro scriverò domenica prossima.
Giorgio Pagano
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