Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

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Gli altri tesori nascosti della valle di Rossano: Bosco, Piagna e Castoglio

a cura di in data 10 Maggio 2024 – 21:03

Zeri, Bosco di Rossano
(2023) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 10 novembre 2023

“SE CHIUDO GLI OCCHI VEDO IL BOSCO”
Bosco di Rossano nel 1700 veniva ancora chiamato come l’omonimo, famoso bosco, Bosco di Gambatacca, oggetto – l’ho raccontato domenica scorsa – di un memorabile contenzioso tra i rossanesi e gli abitanti della vicina Suvero di Rocchetta Vara.
Bosco è oggi conosciuto in tutto il mondo grazie al documentario “Bosco”, della regista uruguayana Alicia Cano Menoni: una testimonianza intima e profonda di una storia familiare segnata dall’emigrazione dalla Lunigiana all’Uruguay. In “Bosco” l’artista intraprende un viaggio in Italia per scoprire le proprie origini, partendo dai ricordi del nonno Orlando nato a Bosco di Rossano, un paese che non ha mai visto ma che può descrivere in ogni angolo, basandosi sulle memorie e gli aneddoti tramandati da generazioni. Ha spiegato Alicia Cano Menoni:
“Dall’altra parte dell’oceano mio nonno a 102 anni dedica le sue mattine ad abitare quella stessa terra che non ha mai calpestato ma che conosce come il palmo della sua mano, attraverso storie ereditate dai suoi avi che hanno costruito un paesaggio mentale fiabesco. La cornice di quella favola ha riempito le domeniche della mia infanzia”.
Il nonno è scomparso nel 2020 all’età di 103 anni. “Se chiudo gli occhi vedo il bosco”, dice nella frase più emblematica del documentario. Nel paese magico gli abitanti camminano tra i castagni lungo sentieri solcati migliaia di volte, badano alle pecore, parlano ai cari estinti, sembrano esistere in una stasi che diviene silenziosa resistenza contro una natura che inesorabilmente si sta riprendendo la propria terra.
Così Carlo Caselli, nel libro “Lunigiana ignota” (1933), descriveva Bosco di Rossano:
“Bosco è l’ultimo borgo di Rossano, ultimo topograficamente e pel prodotto. Per avere un’idea di questo borgo basta pensare ad un branco di gente caduta in un profondo burrone senza che sia accaduta alcuna disgrazia mortale. I più destri ed esperti, appena riavutisi dalla caduta sono andati in America o in Francia dove hanno trovato da campare la vita; ma i vecchi, le donne, i ragazzi, disorientati e, colla speranza sempre di trovare chi, tenendoli per mano li conducesse per una facile via, si sono dati alla fabbricazione di ricoveri invernali, squadrando e cementando i ciottoli di macigno del vicino torrente Serra, affluente del Teglia. Alcuni, improvvisandosi scalpellini, muratori, fabbricanti di calce, fabbri e falegnami, hanno tirato su qualche casetta che può stare a confronto di tante costruite in luoghi più spaziosi, pianeggianti e più illuminati dal sole. Qualcuno ha coltivato a fagiuoli e patate pochi palmi di terra sulla sponda del torrente e più in alto ha seminato un campo di segale per poter con la farina far la crescenta, specie di gnocco, che cotto fra grossi e grandi testi, tiene luogo del pane. Qualche altro, ricordandosi di avere un fucile, s’è dato alla caccia. Le donne ed i ragazzi, nella stagione estiva, girano dall’alba al tramonto per i secolari boschi di castagni a cercare funghi, che seccati, in certe annate hanno fruttato al paese fino a 50 mila lire. Ma tutti indistintamente, ignoranti ancora che la notte può essere rischiarata dal sole dell’elettricità, ignoranti di tanti e tanti progressi umani, attendono con vivo desiderio di poter uscire dal burrone quasi eternamente ombreggiato da selve di castagni. Come si può vivere dodici ore tra gente tormentata da così vivo assillo di spazio e d’aperto orizzonte, senza provare una profonda mestizia e non considerare, senza discutere, ogni sentiero come ottima via d’uscita?”.
Le cose sono cambiate: sono arrivate le strade, la luce, le altre conquiste della modernità. Certo, l’emigrazione è proseguita fortissima. Oggi a Bosco vivono 13 persone. Ma non sono “tormentate”, per dirla con Caselli. Sono orgogliose e felici di vivere a Bosco. Come Rita Volpi, che apre a me e a Mauro Malachina, mio inseparabile compagno di viaggio, le porte dell’oratorio di San Pellegrino, sorto in pendenza, nel Cinquecento. Ha una bella facciata di arenaria, l’interno è finemente affrescato. Anche le altre persone che incontriamo sono orgogliose e felici. Tanto più ora che “Bosco” ha dato lustro al paese! Tutti lo citano. Come scrive Paolo Bissoli in “Paesi di Lunigiana”, a Bosco “non ci sono i segni di abbandono” e “gli edifici sono ben conservati, pronti a risvegliarsi, a spalancare porte e finestre per tornare ad accogliere quanti ritornano”. E ci sono ancora due mulini.

LA CASCATA DELLA COLOMBARA E LA MORTE DI “BACICCIA”
Siamo andati a Bosco dopo aver visitato Paretola. Sulla via del ritorno, passato il ponte sul torrente Teglia, ci siamo fermati per ammirare la cascata della Colombara. Siamo arrivati dopo aver percorso un sentiero attrezzato. La cascata ha formato una piccola grotta: l’acqua precipita al centro di un cono scavato nella roccia. Roccia scura, acqua chiara, il verde tutto attorno: la cascata è uno dei luoghi più suggestivi dello Zerasco.
Mauro mi porta nel punto in cui, il 22 gennaio 1945, durante il grande rastrellamento passato alla storia come la “battaglia del Gottero”, fu ucciso dai nazisti Prospero Castelletto “Baciccia”, partigiano azionista di Giustizia e Libertà. “Baciccia” era di Camogli. Già a inizio 1944 il comitato genovese del Partito d’Azione lo aveva inviato a Torpiana di Zignago, dove operava il primo nucleo azionista. Coraggioso e capace, Castelletto divenne l’intendente della Colonna Giustizia e Libertà. Una funzione preziosa: procurare il cibo ai partigiani. Ma anche i civili si rivolgevano a lui. Infatti “Baciccia” correva sempre. Il 21 gennaio fu fatto prigioniero, il giorno dopo riuscì a fuggire, ma scivolò sul ghiaccio e si ruppe una gamba. I tedeschi sentirono il suo urlo di dolore e lo uccisero.
Nei prossimi mesi una lapide in suo ricordo – mi spiega Mauro, che è presidente della Sezione Anpi di Zeri –sarà eretta all’inizio del sentiero attrezzato che conduce alla cascata.

PIAGNA E L’ELOGIO DELLA PECORA ZERASCA
Tra i paesi della valle di Rossano ce ne restano da visitare due: Piagna e Castoglio.
Il primo richiama nel nome, probabilmente, le tegole di ardesia che un tempo ricoprivano tutti gli stabili della valle. Ora ne ricoprono, purtroppo, solo una parte. Anche Piagna è stata vittima dell’emigrazione: molti sono gli edifici abbandonati. Ma c’è chi è rimasto.
Nel 1982, quando Giulivo Ricci scrisse “Zeri. Guida storico-turistica”, a Piagna c’erano un ristorante e una bottega di alimentari. Mauro ricorda che veniva a Piagna a ballare, nella sala al piano superiore del ristorante. La bottega di alimentari non c’è più ma il ristorante si è trasformato in un un bar, gestito dai giovani del posto: è il circolo Acli intitolato a don Adriano Filippi, un punto di aggregazione importante per tutta la zona.
Tra gli edifici in pietra ben tenuti c’è l’oratorio di Santa Maria Maddalena, che porta la data del 1644 e conserva una statua della santa. E c’è quello dove abita Cinzia Angiolini con il marito Renato. Ma non è solo abitazione. Lei lo chiama “laboratorio”: Laboratorio del gusto “Le Modeste”. Un agriturismo, collegato all’allevamento. Quando entriamo, è appena uscito un giornalista di Canale 5, per fare un servizio sulla pecora zerasca. Cinzia – come Patrizia Figaroli, che ho intervistato domenica scorsa – è una pastora. E, come Patrizia, descrive l’allevamento come una realtà piena di potenzialità ma in grosse difficoltà:
“Molti dei problemi che abbiamo sollevato in questi anni non hanno avuto risposta: dalla macellazione alla consegna della carne, per non parlare del lupo che falcidia i greggi. Il lupo non ci ha aiutato a salvaguardare una razza che viveva in stato brado o semibrado. Da marzo a novembre le pecore stavano in alpeggio, mentre al piano si coltivava la terra. Ora stanno nei recinti, e le gestiamo con i cani. Anche se il lupo ormai uccide anche i cani… Le pecore sono meno forti perché non possono più vivere come venti o trent’anni fa. Lo so di toccare temi su cui ci sono sensibilità diverse dalla mia. Ma lo Zerasco si salva con l’agnello: carne buona, bianca, con poco grasso, con caratteristiche organolettiche straordinarie, grazie a una alimentazione tutta locale. Se uno viene per mangiare l’agnello di Zeri può innamorarsi dei posti, comprare una casa e recuperarla, venirci a vivere… L’agnello è una leva contro lo spopolamento. Ma è anche una leva per difendere il paesaggio: dove non c’è il pascolo avanza il bosco. Il bosco è ormai diventato savana, il prato è sempre più cespuglioso… Avevo 400 pecore, ora ne ho 210. Non le vendo più, le uso qui, nel laboratorio, nella cucina. Nel laboratorio non c’è solo la cucina della carne: c’è la marmellata di mele cotogne, c’è la castagna, c’è la patata, c’è il grano, c’è la lana… La classe politica non ha saputo leggere le esigenze del popolo dei pastori. Non ha capito la straordinaria peculiarità della pecora zerasca, il fatto che abbia un costo maggiore rispetto alle altre, il fatto che i pastori hanno bisogno di un supporto. Il mondo che andava salvato era quello del paesaggio con le pecore”.

Zeri, la cascata della Colombara
(2023) (foto Giorgio Pagano)

CASTOGLIO: Il QUADRO DEL SEICENTO, IL MULINO, LA RESISTENZA RACCONTATA DA GIOVANNI TOGNARELLI
Castoglio appare, soprattutto a chi lo vede dall’alto, come un lungo villaggio su uno sperone di monte. Le case sono curate. Baciato dal sole, Castoglio aveva vigneti, ormai una rarità. Il paese attrae visitatori. Nel 1982 c’era un ristorante, ora c’è un agriturismo che ha successo. Recentemente ha aperto anche un b&b.
Josian Volpi ci apre l’oratorio dedicato a Santa Elisabetta. L’interno è molto bello, con un pregevole quadro seicentesco che raffigura la Visitazione e la Madonna col Bambino, e una statua della santa, due opere d’arte entrambe restaurate di recente. Ci sono poi altre tre statue, raffiguranti Santa Polonia, Sant’Antonio Abate e Sant’Antonio da Padova.
Andiamo poi a salutare un partigiano ancora in vita, Cesare Prian, classe 1926, della III Brigata Beretta, che operò nel Parmense. Non poteva mancare, infine, la visita all’amico Giovanni Tognarelli, classe 1930, e alla moglie Maria. Giovanni ci racconta due storie straordinarie. La prima è sulla Resistenza:
“Mio padre Luigi era del 1907, mia madre Irma Volpi del 1909. Lei era di Bosco di Rossano. Eravamo quattro fratelli, io ero il più vecchio. E’ morta la più giovane.
La mia famiglia ha assistito Gordon Lett, il maggiore inglese, fin quando è arrivato, nell’ottobre 1943. Dormiva nell’essiccatoio delle castagne. C’è stato una settimana, poi si spostava per il timore di essere catturato.
Siamo stati perquisiti, anche nella casa dei nonni paterni. Erano i carabinieri. Uno di loro ha trovato un australiano a letto ferito, ma è stato zitto. Gli australiani non sono voluti andare con Lett e non hanno mai fatto partigianato. Sono rimasti nascosti fino alla fine della guerra. Erano due, uno giovane. Ora il nipote vuole venire a Castoglio.
Ci siamo salvati con la farina di castagna.
Mio padre è stato a contatto con Lett fino a dicembre-gennaio. Subivamo perquisizioni, volevano ammazzarmi. Ho detto che andavo a prender legna. Erano carabinieri, quasi tutti fascisti tranne uno, quello che aveva trovato l’australiano, finito con i partigiani. Era un toscano di Pistoia.
Ci fu un litigio di mio padre con Lett, che era con tre polacchi. Il maggiore voleva uccidere i fascisti di Zeri. Mio padre l’ha portato fuori di casa, Lett ci ha ripensato. Ma i rapporti si sono rotti.
Nel dopoguerra Lett è tornato, hanno fatto pace: mio padre gli aveva salvato la vita.
Mio padre ha disarmato la caserma di Sesta Godano, il 12 giugno 1944, con due suoi fratelli. Erano del gruppo di Giustizia e Libertà. C’era Franco Coni, che era il partigiano più attivo a Zeri. C’era gente di Torpiana, c’era Antonio Celle, c’era Antonio Paganini, il fratello di Bianca. Coni fu un grande partigiano, un grande combattente. Non parlava molto, era un sardo. Quando morì Aristide Galantini, Coni riuscì a salvarsi. C’era un gruppo di Sesta Godano, uno di Torpiana, uno di Pontremoli. Franco era nelle case Rossi a Monte Fiorito. Celle dormiva a Castoglio, a casa nostra.
A Monte Lama c’era sempre GL: Ermanno Gindoli a cavallo, Vero Del Carpio ‘il Boia”…
Del Carpio ha ammazzato il partigiano Giuseppe, siciliano. Aveva partecipato all’attacco della caserma di Sesta Godano. Aveva rubato, era andato dietro alle donne. A Pieve di Zignago.
Bucci, un toscano che era a Bosco di Rossano, fu ucciso dalla gente del posto perché non si comportava bene.
Il rastrellamento nazifascista del 3 agosto fu terribile. Bruciava tutto a Rossano, a Chiesa, a Noce. A Castoglio hanno bruciato tutto il grano e due-tre case, la nostra casa si è salvata”.
Giovanni ci accompagna poi a vedere il mulino, che è sotto casa:
“Il mulino fu costruito da mio padre nel 1946, appena dopo la Liberazione. Da allora non si è più fermato. Ci sono tre macine diverse per castagna, grano e granoturco. Sono le stesse di allora. Non si perde nemmeno un grammo. Produciamo ormai per la famiglia e per l’agriturismo che ha aperto mio figlio a Castoglio. Le castagne sono quelle dei boschi attorno, grano e granoturco sono coltivati nei campi vicini”.

DOBBIAMO PENSARE AI PAESI NON CON LA CULTURA DEI CITTADINI E DEI POTENTI, MA CON QUELLA DELLA GENTE DEI PAESI
Ogni tanto mi è capitato di vedere in tv “Il Borgo dei Borghi”, una gara con tanto di giuria e voto popolare, ospitato nella trasmissione “Kilimangiaro”. I paesi dello Zerasco ovviamente non parteciperanno mai. Ma hanno anch’essi dei tesori. Sicuramente non “finti” o imbalsamati come alcuni di quelli che ho visto in Tv. Condivido la critica dell’antropologo Pietro Clemente al “cortocircuito di concetti che fa pensare a chiese, mura, castelli, piazze ma mai a cascine, stazzi, masserie e soprattutto mai al mondo del sapere e del saper fare connesso con agricoltura, allevamento e paesaggio culturale”.
Dobbiamo pensare ai paesi non con la cultura dei cittadini e dei potenti, ma con quella dei contadini, dei pastori, degli artigiani, dei deboli. Della gente che ha memoria dei luoghi.
Dietro alle finestre delle case abbandonate, nei paesi che non luccicano, ci sono valori, tradizioni, saperi che sono utili ancora oggi. Non sono solo tracce del passato, ma virtù generatrici di futuro, utili per un processo di rinascita delle Terre Alte.

Post scriptum:
Ho scattato le fotografie di oggi nel 2023. Quella in alto è di Bosco di Rossano; quella in basso della cascata della Colombara.
Chi vuole approfondire le figure e le vicende della Resistenza citate nell’articolo può consultare il “Dizionario online della Resistenza spezzina e lunigianese” sul sito www.associazioneculturalemediterraneo.com

Giorgio Pagano

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