Arte, cibo, natura e memoria nei paesi del Gottero
Città della Spezia, 13 settembre 2020
LA ZECCA CLANDESTINA DI GODANO
Dopo Maissana e Varese Ligure, il nostro viaggio nelle Terre Alte si sposta a Sesta Godano. Il territorio del Comune si trova sul confine nord orientale della provincia spezzina, nel medio bacino del fiume Vara, lungo la riva destra del torrente Gottera. È costituito prevalentemente da zone montane e pedemontane, solcate da vallate che confluiscono nella valle principale, attraversate a loro volta da torrenti minori che nascono principalmente alle pendici del monte Gottero (1639 m.), il più alto della provincia. Il “monte di Sesta Godano”, da cui la gente ha tratto e trae risorse.
Prima di salire al Gottero -dal territorio di Sesta Godano- si arriva al Passo della Foce dei Tre Confini, che si trova al confine tra tre regioni, Liguria, Toscana ed Emilia. Tuttora sul Passo ci sono termini di confine datati 1780, posti dalla Repubblica di Genova, dal Granducato di Toscana e dal Ducato di Parma. La storia del territorio non può che essere una storia di terra di confine.
Anteriormente a Sesta c’era Godano, più in alto. Dal 2014 è stata riportata alla luce l’area del castello di Godano, edificato lungo l’antica via che da Pontremoli conduceva al Genovesato, da cui passava soprattutto il prezioso legname del Gottero. A differenza dei territori finora esaminati, tutti “genovesi” (in alcune case abbiamo visto sventolare la bandiera della Repubblica di Genova, e lo stemma della Serenissima ricopre la parete di fondo del bellissimo Oratorio della Confraternita dei Santi Antonio e Rocco a Varese Ligure, come abbiamo raccontato nell’articolo di questa rubrica “Arte e devozione nella ‘terra di Varese’”, 16 agosto), Godano è stato per secoli conteso da Pontremoli e Genova. Il castello fu edificato nella seconda metà del XIII secolo dai Malaspina in funzione antigenovese, fu poi dei Fieschi e sotto Genova, quindi ancora dei Malaspina, poi degli Sforza che governavano Pontremoli, infine, dal XVI secolo, sempre genovese.
Nel 2014 il Comune di Sesta Godano, dopo aver acquistato il terreno, avviò un progetto di radicale recupero del sito, finanziato con fondi europei, che si concluse nel 2015. La campagna di scavi condotta dalla Soprintendenza ligure ci ha restituito i resti di imponenti mura perimetrali in buono stato di conservazione. Ma, come spesso avviene, i castelli riservano sorprese. Nel caso di Godano, a parte il camminamento interno che consentiva di raggiungere l’abitato sottostante, la sorpresa è stata quella di una Zecca clandestina che coniava monete false, voluta o quanto meno favorita dai Malaspina. Gli archeologi hanno individuato il punto preciso della Zecca, di cui non esiste traccia nei documenti ufficiali dell’epoca, accanto al luogo dove si trovava la cisterna. Le monete rinvenute sono di buona fattura in rame ricoperto da un sottile strato superficiale di argento che si confondono molto bene con gli originali, fra i quali quelli in uso a quel tempo in Toscana e nel Ducato di Milano. Il materiale ritrovato mostra una grande capacità di contraffazione da parte dei falsari che svolgevano il loro lavoro con la probabile complicità dei Malaspina. Con ogni probabilità la causa della distruzione del castello fu proprio la volontà di porre fine al mercato di monete false.
Recentemente sono stati eseguiti nuovi scavi, mi ha spiegato il Vicesindaco e Assessore alla Cultura Davide Calabria, per consolidare i paramenti murari ancora esistenti. hanno permesso il rinvenimento di ulteriore documentazione relativa alla Zecca, che arricchiranno le informazioni sulla storia di Godano. Non vi resta che andare, e ammirare da quel nido d’aquila sia le vestigia che la natura circostante, dominata dal Gottero.
L’ARTE NEI PAESINI DI MONTAGNA
A Sesta Godano c’è la Chiesa di Santa Maria Assunta e di San Marco Evangelista, ricostruita nel XVIII secolo su una precedente Chiesa romanica, quella Pieve di Robiano di cui ho scritto domenica scorsa. All’interno vi sono due opere settecentesche su tela dedicate a San Rocco che venera la Madonna e alla Madonna della Guardia. Colpisce poi il ponte sul torrente Gottera, che collega la Chiesa all’abitato di Sesta Godano: romanico-medioevale, a tre arcate, è completamente in sasso.
Ma il vero patrimonio del territorio si trova più in alto, salendo verso il Gottero. Oggi scriverò dei paesini che si incontrano lungo la strada che conduce a Zeri e a Pontremoli. Ho potuto visitare le loro chiese grazie alla cortesia del Parroco don Carmine Capasso e dei diversi paesani che, su sua indicazione, me le hanno aperte. Nel frattempo l’amico Piero Donati mi aveva segnalato le letture indispensabili.
Il primo paesino è Airola, bagnato dal torrente Gottera, nel quale, in qualche cascatella, è possibile fare un bagno. Numerosi sono i ponti in pietra, lungo i sentieri attorno al paese, e i mulini ad acqua oggi ridotti a ruderi. Nel Santuario di Nostra Signora della fontana, del XV secolo, si conserva un bel quadro con Madonna con Bambino, olio su tela, risalente alla seconda metà del Cinquecento (si veda la foto in basso). E’ il frutto, mi ha spiegato Piero Donati, dell’attenta elaborazione di influssi nordici -la pittura fiamminga- da parte di un anonimo genovese: l’opera deriva da un dipinto dell’anversese Jan Sanders, detto Jan van Hemessen, conservato nel Museo del Prado a Madrid. Le somiglianze sono davvero notevoli. L’influenza fiamminga si nota anche nel paesaggio lacustre che si apre sulla destra dell’opera, con la chiesa a mezza costa e un grande mulino sui bordi dello specchio d’acqua. L’unico dipinto conservato in Italia che può essere accostato a questo è, secondo Donati, una tavola della Pinacoteca di Cagliari, per la quale non si può escludere una provenienza ligure: anche in questo caso le coincidenze sono evidenti.
Si arriva poi a un altro paesino, Pignona, dove ho visitato la Chiesa di Santa Croce, che fu costruita nel XIV secolo sulle fondamenta di un preesistente edificio e poi subì rifacimenti e ampliamenti in tempi diversi. All’interno sono conservate due sculture di scuola lombarda: la Vergine annunciata e l’Arcangelo Gabriele. Secondo Donati nella scultura lombarda, negli anni Settanta del XV secolo, stava prendendo piede una corrente “espressionista” che trovava nel cantiere della Certosa di Pavia il principale incubatore. Figura eminente di questa corrente è Giovanni Antonio Piatti: le sculture di Pignona sono testimonianza della penetrazione delle sue formule anche in Liguria. I legami fortissimi dei Malaspina con la corte sforzesca, che gestiva questi rapporti attraverso il commissario di Pontremoli, sono lo sfondo sul quale collocare queste presenze artistiche. Ritorna quindi, anche in campo artistico, il tema della “terra di confine”.
Sopra Pignona c’è Antessio (si veda la foto in alto), dal quale si ammira tutta la vallata, con Pignona e Sesta Godano. Antessio è un nucleo urbano compatto e solare. La chiesa di San Lorenzo è stata ristrutturata più volte sui resti di un edificio più antico: la forma definitiva è di fine Ottocento-inizio Novecento. Anche questa Chiesa ha un legame con Pontremoli, perché per una fase dipese dalla Pieve di San Cassiano di Saliceto, presso Pontremoli. Molte le opere scultoree in marmo di pregio: colpiscono il fonte battesimale datato 1535, di bottega di Carrara, con la raffigurazione di una fenice che spicca il volo da una vasca, trasparente riferimento all’anima che risorge a nuova vita; un’acquasantiera riccamente decorata, di fine Seicento; la settecentesca anconetta a rilievo raffigurante la Madonna col Bambino, San Giuseppe e San Giovanni Battista; il sontuoso ciborio a tempietto che sovrasta l’altare maggiore, della metà del Seicento… E poi le sculture lignee: il Crocifisso cinquecentesco e le tre bellissime statuette ottocentesche che compongono la Sacra Famiglia, conservate in sacrestia… E infine l’organo Agati di fine Ottocento.
Da Antessio si sale con una stradina e poi un sentiero al monte Antessio (1.181 m.), lungo l’Alta Via, tra il Gottero e il Passo del Rastrello. E’ un monte boscoso di abeti, ai cui lati ci sono ampi pascoli. La veduta sulla Val di Vara è bellissima, mentre in cielo volteggiano le aquile reali.
Ma torniamo ai paesini. L’ultimo, il più vicino al Gottero, è Chiusola, ed è forse il più bello. Il castello che chiudeva il sistema difensivo della valle del Gottero è oggi scomparso. Sia il toponimo Chiusola che la dedicazione a San Michele Arcangelo rimandano alla presenza longobarda. Non lontano dal paese ci sono i resti della Chiesa più antica (mai indagata archeologicamente), dalla quale proviene la ghiera di portale del XII secolo riutilizzata nella parete perimetrale della Chiesa attuale, nonché una scultura (che andrebbe, sostiene Donati, rimossa, restaurata e ricoverata all’interno) che raffigura un guerriero a cavallo, probabilmente del XIII secolo.
Da Chiusola si sale a Ca’ Menage, abitazione di pastori, e da lì al Passo dei Tre Confini e al Gottero.
ALCUNE ANTICHE RICETTE DEL GOTTERO
Del monte Gottero, e di altri paesini del territorio di Sesta Godano, scriverò domenica prossima. Ma è bene anticipare che il monte era ed è, per tutti i paesini vicini, anche quelli facenti parte del Comune di Varese Ligure di cui ho scritto domenica scorsa, un luogo di incontro, di feste, di raccolta di funghi, castagne, frutti di bosco, bacche di ginepro, erbe aromatiche… Del Gottero c’è anche una gastronomia, che sopravvive ancora. L’archivio della famiglia De Paoli di Porciorasco (si veda sempre l’articolo di domenica scorsa) conserva un foglietto con due ricette del Settecento: il sanguinaccio e il pane natalizio. Io mi limiterò ad alcuni piatti, di cui mi hanno più volte parlato i vecchi paesani e che ho assaggiato in varie occasioni. Le ricette che vi fornirò sono riprese dal libro “Le antiche ricette del monte Gottero”, edito dall’associazione Buto Cultura (i proventi vanno ai restauri delle Chiese di Buto e di Teviggio).
Innanzitutto il sugo dei giorni importanti: il tocco, u tuccu. Ecco gli ingredienti per sei persone: una cipolla tagliata finemente, un rametto di rosmarino tritato, tre foglie di alloro intere e una manciata di prezzemolo tritato; quattro cucchiai di olio d’oliva e 30 grammi di burro; mezzo bicchiere di bianco; una grossa fetta di lardo (ora olio o burro); conserva di pomodoro; una bella manciata di funghi secchi rinvenuti nell’acqua tiepida e poi tritati; due o tre salsicce (o mortadella) tagliate grossolanamente; un pizzico di spezie macinate.
In una casseruola di terracotta rosolate il trito con il lardo (o olio e burro), appena la cipolla è dorata versate tutto il resto, salate con sale grosso e cuocete con acqua a fuoco moderato per oltre due ore coprendo la casseruola con il coperchio, senza aggiungere acqua durante la cottura. Mi raccomando, consumate nel giorno della preparazione perché se riscaldati i sughi si alteravano: pigeivan u scuttizzu (prendevano il bruciore).
A base di farina di castagne suggerisco, tra i tanti piatti possibili, la fainà cu recottu (farinata con ricotta). Questi gli ingredienti: 600 grammi di farina di castagna finemente macinata; ricotta morbida; una manciata di foglie fresche di menta tagliate grossolanamente; un cucchiaio di olio d’oliva; un cucchiaio di formaggio grattugiato; un cucchiaio di farina di granoturco, un uovo. Fate un impasto morbido con la farina di castagne e 700 grammi d’acqua e versatelo (un centimetro di spessore) in una teglia di “lama nera” ben oleata. Amalgamate bene tutti gli ingredienti in un piatto capiente e spalmateli sopra l’impasto con un grosso cucchiaio di legno. Cuocete per 30 minuti nel forno fino a che la ricotta divenga dorata. Appena tolta dal forno lasciate intiepidire la farinata e poi tagliatela a quadrati di 10 centimetri.
Per i dolci aspettate domenica prossima. E ricordatevi sempre della vera funzione del cibo: “Besogne mangià pè vive, nu vive pè mangià” (Si deve mangiare per vivere, non vivere per mangiare”).
TERRE ALTE, TERRE PARTIGIANE
Il Diario si svolge interamente, fin dalla prima puntata, in terre partigiane, di Resistenza armata e di Resistenza civile e sociale: senza quest’ultima, senza il sostegno dei contadini e in particolare delle donne delle campagne e delle montagne, i partigiani non ce l’avrebbero mai fatta. Tutto quello di cui ho scritto finora nel Diario è memoria che serve al futuro: ma lo è soprattutto la memoria di coloro che fecero allora la “scelta morale”, la scelta di rifondare se stessi e la società in cui vivevano.
Viene in mente, camminando per l’alta Val di Vara, ciò che scrisse Italo Calvino nella prefazione del 1964 a “Il sentiero dei nidi di ragno”: la Resistenza rappresentò “la fusione tra paesaggio e persone”, una storia sola di boschi, di sentieri, di uomini, di donne. Di uomini e di donne che inseguono, si nascondono, sparano, muoiono, nei boschi e nei sentieri.
Questa storia non va dimenticata. Camminando per l’alta Val di Vara ho pensato all’importanza dei monumenti, delle targhe, dei cippi. Nomi, cognomi, vite incastonate nelle pietre e nei muri. Visibili e presenti, leggibili. Vite che ognuno di noi può ricordare, evocandone i nomi, semplicemente guardando le pietre e i muri. Una sorta di “museo diffuso” della Resistenza.
Certo, non basta. L’oblio può disgregare anche le pietre, se non si ricorda. Ma le pietre sono importanti perché servono a ricordare.
Nelle zone di Maissana e in quelle di Varese verso lo Zatta operò la Brigata garibaldina Coduri, che faceva parte della Resistenza genovese. Don Giovanni Bobbio, Parroco di Valletti, ne era il cappellano. Fu vittima del feroce rastrellamento del gennaio 1945. Il 29 dicembre 1944 un distaccamento tedesco fece molte vittime tra i civili di Valletti, il giorno dopo stavano per arrivare gli alpini della Monterosa assetati di sangue. All’invito pressante a lasciare Valletti ormai circondata dagli alpini, don Bobbio rispose calmo e deciso: “Ho questi morti e in casa la mamma che non sta bene: non voglio abbandonare né l’una, né gli altri”. Fu catturato il 30 dicembre, sopportò le vessazioni di una lunga via crucis, fino a Chiavari, dove fu fucilato il 3 gennaio 1945. Una targa lo ricorda a Valletti, un monumento a Chiavari. A Comuneglia una via è dedicata alla Coduri. A Maissana le vie ricordano la Repubblica partigiana della Val di Vara, straordinario esperimento di autogoverno dal basso, e Aldo Vallerio “Riccio”, della Coduri. Un monumento, l’ho ricordato nel primo articolo del Diario, è al Passo del Biscia. Servirebbe un riconoscimento alle donne contadine, da quelle di Torza, che convinsero una parte degli alpini a disertare, a quelle di Valletti, che diedero un supporto fondamentale alla lotta…
Nelle zone di Varese Ligure e di Sesta Godano verso il Gottero, invece, operò innanzitutto la Brigata Centocroci, al comando di Federico Salvestri “Richetto”, che è onorato con un monumento a Varese Ligure (e con l’intitolazione di una via a Borgotaro, perché dopo il gennaio 1945 e la divisione nella Centocroci “Richetto” operò nel parmense). La Centocroci è ricordata in un monumento al Passo da cui prese il nome, ma anche in cippi o targhe a Caranza, a Teviggio, a Costola, a Buto. A Buto una targa rende onore ai sacerdoti resistenti. Don Raffaele Galindo era il Parroco di Costola: fu accusato di prestare aiuto ai partigiani, la sua canonica fu bruciata. Inseguito dai tedeschi si salvò dalle pallottole gettandosi in un torrente e nascondendosi sotto un ponte. Dal 20 gennaio 1945 alla Liberazione fu cappellano della Centocroci, il suo nome di battaglia era “Nibbio”.
Circa le donne, Angela Gotelli ha una piazza a lei intitolata a Varese Ligure, e una via ad Albareto, nel parmense. Ma non basta per tutte le altre donne, per le contadine.
Nelle zone del Gottero operò anche il Battaglione garibaldino Matteotti-Picelli, al comando di Nello Quartieri “Italiano”. E, a inizio 1944, una banda di Giustizia e Libertà, con Piero Borrotzu. Il 3 aprile 1944 il “tenente Piero” era a Chiusola. Ci fu un rastrellamento, lui non venne scoperto. Avrebbe potuto sicuramente salvarsi, se lo avesse voluto, saltando dalla finestra sul retro della casa che lo ospitava, facendosi strada con una mitraglietta francese che aveva con sé per eliminare i due-tre tedeschi vicini all’abitazione, fuggendo poi nel bosco. Invece si vestì e, per evitare il massacro di persone innocenti, si presentò spontaneamente ai nemici. Spinto dentro una casa, dove venne percosso duramente, fu poi condotto, sanguinante e con il volto tumefatto, sul piazzale della chiesa di San Michele: qui l’ufficiale tedesco responsabile dell’azione liberò gran parte dei settanta prigionieri, fuori che cinque uomini i quali, portati via, solo per un caso riuscirono a loro volta a salvarsi, e diede l’ordine, eseguito da un plotone della GNR, di fucilare Borrotzu. Fu in questo frangente che, secondo i testimoni, nonostante la precaria condizione fisica per le percosse subite, egli scattò sull’attenti e gridò “Viva l’Italia libera”. Colpito al petto, si accasciò a terra e un ufficiale delle SS lo finì con un colpo di pistola alla nuca. Un monumento e una targa onorano Piero Borrotzu nella “sua” Chiusola.
Sul Gottero un cippo vicino a Ca’ Menage ricorda i caduti del grande rastrellamento dell’agosto 1944, un cippo sulla vetta ricorda i caduti dell’altro grande rastrellamento, quello del gennaio 1945 (la “Battaglia del Gottero”). Al Passo del Rastrello c’è un bellissimo monumento alla Resistenza delle tre province: La Spezia, Massa Carrara, Parma.
Ad Antessio una targa ricorda che il Comando partigiano della IV Zona Operativa ebbe sede nel paese. La sede fu anche a Porciorasco, come ho ricordato domenica scorsa: c’era una targa nella piazza, ora non c’è più. Va ritrovata e ricollocata.
E poi, nemmeno le vie di Sesta Godano onorano le donne contadine. A Boschetto, sopra Antessio, viveva Carmela Lurpini. Per i partigiani del Battaglione Matteotti-Picelli fu sempre “la Mamma”. La sua casa divenne la casa di centinaia di giovani che avevano bisogno di lei. Vedeva in quei ragazzi il proprio figlio che aveva perso in Russia. Dopo la Liberazione, in quella casa, fu posta un’epigrafe. Quando fu venduta, il nuovo proprietario la distrusse. La Carmela ora riposa nel cimitero di Antessio. Lì c’è ancora una lapide per lei.
Giorgio Pagano
Popularity: 5%