La solitudine di Marcello
Città della Spezia, 17 maggio 2015 – Nel tardo pomeriggio dell’8 settembre 1943 giunse improvvisa attraverso la radio la notizia che l’Italia aveva firmato l’armistizio con gli Alleati. I nostri militari, con i comandi senza ordini e disorientati, si sbandarono, mentre i tedeschi, quasi indisturbati, occuparono il Nord del Paese, Spezia compresa. Il 9 settembre ci furono alcuni brevi, disperati tentativi di resistere ai tedeschi. Tra i protagonisti c’era Renato Jacopini, ufficiale di fanteria, spezzino. Quel giorno era ad Arcola. Leggiamo il suo racconto, tratto dal libro “Canta il gallo”, pubblicato nel 1960: “Cominciai a provare un certo panico, come se un vento di folle terrore fosse passato su tutti. Incerto se andare a Spezia o a Sarzana, mi diressi verso quest’ultima, dove almeno avevo un letto. Poco oltre il ponte sul Magra, incontrai un tenente e un sottotenente medico, gli unici ufficiali alpini rimasti… Di colpo vedemmo di là dal fiume una pattuglia di tedeschi venire avanti… A due passi da noi era in postazione una mitragliatrice Fiat pesante: la sua sola presenza era un invito: mirai, più o meno bene, sulla pattuglia che avanzava allo scoperto, certa di non trovare resistenza, e lasciai partire tutto un caricatore. Seguirono subito il mio esempio i due ufficiali e due o tre civili che si trovavano nel nostro gruppo. Uno dei tedeschi cadde, colpito, e gli altri si gettarono a terra ai lati della strada rispondendo fiaccamente al fuoco. Appena dietro di essi comparve un carro armato, sparando verso di noi. Il sottotenente medico, un bolognese, cadde ferito a morte. E’ stato il primo partigiano caduto nella nostra provincia, e mi dispiace di non aver saputo il suo nome. Contro i carri armati non avevamo difesa efficace da opporre, e così ci disperdemmo subito nella campagna”.
Jacopini divenne poi membro del Comando militare del Cln provinciale come rappresentante del Pci, fu coordinatore militare della Brigata Garibaldi “Liguria” in Val di Vara, e in seguito uno dei fondatori, in Lunigiana e Garfagnana, della Divisione Garibaldi “Lunense”. Fu un valoroso partigiano, tanto da essere nominato Questore dopo la Liberazione e da meritare la Medaglia d’Argento. Eppure leggiamo che cosa scrisse nel suo ultimo libro, “L’isola dell’ultima solitudine”, scritto nel 1979: “Sono solo, terribilmente solo. Gli uomini mi hanno fatto il male e non mi sono vendicato: mi hanno fatto fare male agli uomini che non conoscevo, e che non mi avevano fatto niente. Gli uomini hanno fatto la guerra e ne vogliono fare ancora. Gli uomini amano la guerra perché si può uccidere senza andare in galera. Gli uomini mi hanno fatto male e mi hanno fatto uccidere chi non volevo uccidere. Mi hanno insegnato infinite fole cui ho avuto la dabbenaggine di credere. Mi hanno insegnato l’amicizia, l’amore, l’onore… E non erano altro che inganni per farmi debole davanti al loro spregiudicato egoismo. Mi hanno invischiato in una ragnatela di sentimenti per strozzarmi nel sogno. Poi quando mi hanno vinto con l’inganno, quando mi hanno fatto un sentimentale hanno sputato sul mio sentimento e sul sole rosso della mia anima. E io odio gli uomini. Per questo son solo, terribilmente solo”. Come poté un eroe della Resistenza arrivare, alla fine della sua vita, a conclusioni così amare? E’ una domanda che spinge a studiare meglio la biografia e la complessa personalità di uno dei protagonisti della storia spezzina del secolo scorso.
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PRIMA REPUBBLICANO POI COMUNISTA
Jacopini nacque a Spezia nel 1904. Giovanissimo, sotto l’influenza dei cugini della madre Zelmira e Pasquale Binazzi, dirigenti dell’anarchismo italiano, divenne repubblicano-anarchico. A quindici anni era segretario del circolo giovanile repubblicano Nathan. Scriveva poesie sul “Libertario”, partecipò ai moti del luglio 1919, poi in seconda liceo organizzò uno sciopero e fu espulso da tutti i licei del Regno. Fuggì da Spezia per partecipare all’impresa fiumana di Gabriele D’Annunzio, quando rientrò riprese ad andare a scuola, all’Istituto tecnico. Del liceo gli rimase senz’altro la bella scrittura, come dimostrano tutti i suoi libri (oltre ai due citati scrisse anche “Al di sopra della mischia” nel 1972 e “Lunense” nel 1975). Il 21 luglio 1921, nelle file degli Arditi del Popolo, partecipò alla difesa di Sarzana dagli squadristi fascisti. Profondamente irrequieto, leggeva molto: “Divoravo libri su libri, senza, in fondo, trarne gran profitto. Non avevo un metodo, leggevo tutto, alla rinfusa, da Gorki a Rousseau, da Kant a Schopenhauer, da Sinclair a Marx e Engels; quello che mi colpì di più fu Nietzsche col suo Zarathustra, conflitto tra luci e tenebre, bene e male, l’idea del Superuomo, libero dalle strettoie della morale e del costume e forte solo della propria volontà” (dal suo ultimo libro). Diplomatosi ragioniere, frequentò il Corso allievi ufficiali a Roma, fu assunto dal Credito Italiano di Milano ma lasciò presto la banca per tornare nella sua città, dove vinse, nel 1926, un concorso in Arsenale. Con l’avvento del fascismo dovette interrompere per anni l’attività politica, fino al 1936, quando aderì all’organizzazione clandestina comunista, entrando a far parte dell’attivissima cellula di piazza Garibaldi, caduta nelle grinfie dell’Ovra, la polizia segreta fascista. Jacopini riuscì a sfuggire all’arresto, un amico gerarca fascista lo tolse dai guai definendolo “anarchico idealista, non pericoloso”: lui ritrovò questa frase nel suo fascicolo personale, quando, dopo il 25 aprile 1945, fu nominato Questore.
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L’ORGANIZZATORE CLANDESTINO
Con la seconda guerra mondiale fu richiamato e inviato in Francia e in Jugoslavia, con il grado di capitano di fanteria. Dopo l’8 settembre e l’episodio del primo attacco ai tedeschi a Spezia, divenne uno dei primi organizzatori della Resistenza sui nostri monti, con il nome di battaglia di “Marcello Moroni”. Faceva la spola tra la città, dove operavano gli organi politici clandestini, e la montagna, su e giù per i sentieri, fin dall’ottobre 1943, quando nacquero le prime bande, quella di Primo Battistini “Tullio” a Montegrosso e quella di “Giustizia e Libertà” a Torpiana. Entrò nel Cln militare, diventando uno dei principali collaboratori del colonnello Mario Fontana, con il quale, scrisse in “Canta il gallo”, ebbe “sempre buoni rapporti, nonostante la mentalità diversa”. Nel gennaio 1944 contribuì alla formazione della banda “Beretta” dei fratelli Cacchioli, nel parmense, e della prima banda in alta Lunigiana, quella di Sassalbo, comandata dallo spezzino Renzo Ferrari. Fu in prima linea nella battaglia politica contro la corrente “attesista”, per fare assumere caratteri offensivi diretti all’attività partigiana. L’esperienza in Jugoslavia contro i partigiani titini gli aveva insegnato le tattiche della guerriglia, che fece conoscere a Fontana. Era a Mommio di Fivizzano nei giorni del terribile rastrellamento e della rappresaglia che colpì il paese, che provocò la distruzione di tutte le case e molte vittime: “Marcello” si salvò perché incontrò due fuggiaschi, con i quali si nascose in una capanna per carbonai. Ma Jacopini rischiava la vita anche a Spezia, dove viveva, perché i bombardamenti degli Alleati si accanivano su una città per metà distrutta: “Non capivo il perché della guerra del crollo, degli allarmi, delle macerie, dei bombardamenti. Ma quando, cessato l’allarme, uscivo e rivedevo tra la gente intontita le grinte della sbirraglia fascista e i musi dei tedeschi o scorgevo, tra centinaia di volti innocui, addolorati e sbigottiti, la livida faccia di qualche spia, allora mi dicevo che anche la guerra in città era necessaria, pur se molte volte pagavano gli innocenti invece dei malvagi”. Nel giugno 1944 fu arrestato insieme ad altri membri del Cln, che vennero deportati in Germania e non tornarono più. La fortuna di “Marcello” fu un bombardamento davvero tempestivo: l’allarme suonò proprio mentre lo stavano portando al comando tedesco, vicino al rifugio di via Spallanzani, lui corse via e raggiunse Marinasco, al bivio per la Valdurasca, punto di passaggio obbligato per raggiungere i partigiani.
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LA PIASTRA DI MORTAIO E LA VOGLIA DI FARLA FINITA
Finita l’attività di organizzatore clandestino, cominciava per “Marcello” l’attività di partigiano nella costituenda Divisione Garibaldi “Liguria”. A luglio Jacopini fu uno dei responsabili del processo a “Facio”, anche se sappiamo che era molto scosso e sofferente (ho scritto più volte sulla vicenda in questa rubrica). La compagna di “Facio”, Laura Seghettini, ha raccontato che, dopo l’uccisione di “Facio”, mentre era diretta verso il parmense, Antonio Cabrelli “Salvatore” e “Marcello” proposero a lei e a due suoi compagni di far saltare un treno carico di armi di passaggio a Pontremoli: “Accettai a patto che Cabrelli mi ridesse le armi che mi erano state tolte; allora mi consegnò una rivoltella, io volevo quella di ‘Facio’, ma non fu possibile in quanto nel frattempo era stata data a ‘Marcello’”( in “Al vento del Nord”). Jacopini in “Canta il gallo” difende la “versione ufficiale” del processo e dell’uccisione, anche se giudica l’episodio “doloroso” e scrive che “per molti giorni l’amarezza ci pesò addosso”. “Facio”, secondo Jacopini, “era stato un partigiano valoroso”, ma si era reso responsabile del furto di materiali lanciati dagli Alleati che spettavano ad altre formazioni, in particolare una piastra di mortaio. “Facio” stesso, prosegue, ammise la sua responsabilità. Jacopini cita a questo proposito lettere di “Facio” al Pci e ai familiari che, secondo gli storici, sono da considerarsi dei falsi (si veda, per esempio, Maurizio Fiorillo in “Uomini alla macchia”). Pochi giorni dopo questo tragico episodio ci fu il grande rastrellamento del 3 agosto 1944 con la sconfitta delle formazioni partigiane. Qui c’è una svolta nella vita partigiana di “Marcello” che non è ben spiegata: decide di tornare in Alta Lunigiana, dai compagni di Fivizzano, senza nemmeno l’autorizzazione del Cln di Spezia, che lo aveva destinato alla Divisione Garibaldi “Liguria”. Lo fa con un viaggio molto rischioso, insieme a due alpini disertori: “Non era coraggio. Era stanchezza di scappare, di nascondersi, voglia di farla finita”, scrive in “Canta il gallo”. Perché Jacopini non completa il lavoro appena iniziato nella IV Zona operativa e si dedica, in un’altra Zona, alla costituzione della Divisione Garibaldi “Lunense”?
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LA DIVISIONE “LUNENSE”
“Marcello”, d’intesa con l’azionista Roberto Battaglia e con l’ufficiale inglese Anthony Oldham, collegò le due Brigate garibaldine operanti in Lunigiana alle Brigate gielliste attive in Garfagnana, costituendo la “Lunense”: la zona, vasta e impervia, era compresa tra i passi del Lagastrello, del Cerreto e di Pradarena, il fiume Tavarone, le Alpi Apuane e la valle del Serchio. A novembre ci fu il grande rastrellamento di quell’area: gran parte della formazione fu costretta a passare la Linea Gotica e a raggiungere gli Alleati; “Marcello” rimase nel territorio occupato dai tedeschi, raccolse le forze superstiti e creò le basi della seconda Divisione “Lunense”, che fu attiva fino alla Liberazione. I rapporti con il Cln e con il Pci spezzino ripresero comunque quasi subito, pur operando Jacopini in un’altra Zona operativa. E’ molto interessante la lettura del carteggio tra Marcello e Antonio Borgatti “Silvio”, segretario della Federazione spezzina del Pci, che si tenne in tutti quei mesi: secondo lo storico Giulivo Ricci Jacopini ne emerge come un “elemento incline a un’applicazione un poco settaria delle direttive del partito, e poco convinto, probabilmente, della svolta togliattiana” (in “Storia della Brigata garibaldina Ugo Muccini”).
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IL DOPOGUERRA E IL SOLE ROSSO CHE NON SI AFFERRA MAI
Jacopini, nominato Questore, fu uno dei protagonisti della vicenda di “Exodus”: prese i primi accordi per fare emigrare gli ebrei scampati ai lager, che raggiunsero Spezia nel maggio 1946 e salparono con le navi “Fede” e “Fenice” verso Israele. Per le sue idee, sgradite agli Alleati, fu ben presto esonerato. Riprese il posto di lavoro in Arsenale, e divenne segretario della commissione sindacale interna. Fu trasferito per motivi politici alla base navale della Maddalena, in Sardegna, fino al licenziamento nel 1955, a soli 51 anni. Ebbe incarichi pubblici: consigliere provinciale, presidente dell’Eca, l’ente di assistenza, consigliere dell’Amga, l’azienda di acqua e gas, fino alla direzione del “Mazzini”, l’istituto per gli anziani. Fu vicino alle posizioni di Secchia, e quindi critico della linea “ufficiale” del partito. Posizione che mantenne sempre, fino alla critica a Berlinguer e alla decisione di non prendere più la tessera del Pci nei primi anni Settanta. Leggiamo da “L’isola dell’ultima solitudine”: “Avevo delle illusioni che oggi non ho più. Eravamo partiti per demolire un mondo, per rifarne un altro; più schietto, più libero… Molti miei compagni di lassù, appena scesi, invece di spazzare le macerie con la dinamite, si sono dati a puntellare l’edificio puntellante della borghesia decrepita”. Ma l’amarezza di “Marcello” non è solo politica, la sua è una tragicità esistenziale. Dopo la disfatta della “Lunense”, nel gennaio 1945 visita tutti i distaccamenti, non mancavano le donne. Scrive: “Vedevo fiorire l’amore. Ed era naturale: giovinezza chiama amore. E per me sarebbe tornato l’amore? Se avessi chiesto l’amore a una di loro, certo qualcuna mi avrebbe offerto la bocca piena di baci, ma non era quello che cercavo. Non potevo più amare, avevo ucciso, avevo fatto uccidere, avevo ucciso anche l’amore”. Da qui la scelta della solitudine: “E’ grande solo colui che è solo. E la mia solitudine è terribile e io amo la mia solitudine. Ma nella mia solitudine io sono libero. Sono libero da divise e fedi. Da ogni commercio con gli uomini. Dalle religioni e dal clero. Da tutte le tirannie e da tutti i pregiudizi. Anche dalla tirannia del denaro. Anche dalla tirannia della morte perché so che devo morire. Sono libero dai partiti ai quali non credo. Dagli amici che non ho. Dalla gloria che non voglio”. Renato Jacopini sembra quasi tornare l’anarchico idealista, amante di Nietzsche, che era in gioventù. Con in più l’amarezza per il fallimento: “C’è nella cuna del mio pensiero un grande sole rosso. Se risalgo i ricordi della mia vita mi sembra di essere nato con quel gran sole rosso nell’anima. E un poco sempre di sangue d’orizzonte mi è rimasto nel cuore attraverso la mia tormentata esistenza. Non era che un sogno. Il mio sogno infantile che s’era trasformato, nel cuore, in un ritornello di speranza. So che alla vita del pensiero, nacqui correndo trafelato, ansando, per afferrare quel sole rosso che calava lento, quel sole grande che si faceva, morendo, più grande. Così trafelato, disperato fin quando non caddi; anche il sole era caduto, era morto, ravvolto nelle stracciate bandiere delle nuvole nere. Nascendo al pensiero volli afferrare il sole. E caddi. E sempre, anche più tardi, nella vita, quando ho voluto afferrare il sole, sono caduto affranto, estenuato. E mi è rimasto soltanto un po’ di sangue d’orizzonte nel cuore. Perché il sole rosso moriva lontano, tra le stracciate bandiere delle nuvole nere”.
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