L’importanza di Gramsci nel pensiero democratico e popolare italiano
Intervento di Giorgio Pagano alla presentazione del libro
“La storia di una famiglia rivoluzionaria: Antonio Gramsci e gli Schucht tra la Russia e l’Italia”
di Antonio Gramsci jr
Venerdì 10 aprile 2015 Genova, Chiesa di San Torpete
Ringrazio gli organizzatori per l’invito e saluto con calore Antonio Gramsci jr, autore di uno straordinario affresco sulla Russia pre e post rivoluzionaria e sulla famiglia Schucht, costruito in gran parte sulla base di quel “grosso baule di famiglia portato da Tatiana in Italia quando è tornata in Russia”. Un libro molto importante anche solo se lo si esamina come storia di una famiglia interessante di per sé come gli Schucht; e poi anche perché aiuta a capire meglio la vicenda di Gramsci, del suo rapporto con i vari membri della famiglia Schucht e con l’Urss in generale. Ora Antonio jr ha davanti un nuovo grande compito: fare più luce, grazie al carteggio tra loro, sul rapporto tra il nonno e la moglie Giulia, sull’intreccio indissolubile tra dimensione privata e dimensione politica che caratterizzò l’intera vicenda sentimentale e coniugale di Gramsci.
Vengo subito al compito che mi è stato assegnato. All’opera di Gramsci ho dedicato la mia tesi di laurea, e tante riflessioni successive. Per questo intervento ho fatto tesoro di molte letture; in particolare dell’introduzione di Giuseppe Vacca, uno dei maggiori studiosi di Gramsci, all’antologia di scritti gramsciani “Nel mondo grande e terribile” (Einaudi, 2007), che riprende la voce “Gramsci” scritta per il “Dizionario biografico degli italiani”: un profilo biografico ricco e convincente, di cui suggerisco vivamente la lettura.
L’importanza di Gramsci sta certamente nella grande lezione di idee che ci ha lasciato. Ma la sua è stata anche un’esemplare lezione di vita. Una vita breve -morì a soli 46 anni, gli ultimi 11 passati in carcere- ma densissima. Gramsci sta saldo nella memoria nostra a testimoniare come anche una vita non risparmiata da difficoltà materiali, da sofferenze fisiche e psichiche, dall’isolamento e dalle umiliazioni della prigione, da bisogni inappagati di affetto, e dall’incomprensione del suo partito, possa essere vissuta senza passività e cedimenti, con spirito libero, con fedeltà ai valori collettivi, con straordinaria e lucida creatività. Gramsci è uno che non molla mai: è diventato, in carcere, un “eretico” nel suo partito, ma cerca sempre di mantenere un rapporto, di influenzarlo. Con l’elaborazione teorica, fino all’ultimo biglietto del 1937 all’amico Piero Sraffa perché lo consegni a Palmiro Togliatti. E fino all’ultima intenzione di andare in Urss, una volta libero -come testimonia la minuta, manoscritta da Piero Sraffa, datata 18 aprile 1937,nove giorni prima della morte- per ricongiungersi con la moglie e i figli e riprendere da lì la sua battaglia politica e culturale all’interno del movimento comunista, utilizzando i Quaderni scritti in carcere. E’ “l’eroico Gramsci”, come lo definiva il filosofo Galvano Della Volpe.
Circa la sua lezione di idee, va precisato subito che Gramsci non era un pensatore “disinteressato”. Nella famosa frase di Romain Rolland ripresa da Gramsci -“pessimismo della ragione e ottimismo della volontà”- si riassume la convinzione gramsciana che la fredda e rigorosa ragione debba farsi passione e opera e che questa passione raziocinante debba essere usata per trasformare la vita individuale in uno “strumento” per sviluppare e annodare tra loro “esperienze civili”. Come scrive Marcello Montanari nel suo “Americanismo, democrazia e teoria della storia nei Quaderni del carcere” (Pensa Multimedia, 2002), “Gramsci sa bene che, nel mondo moderno, solo l’opera può salvare gli individui. E sa che solo l’opera può impedire il frantumarsi delle vite individuali, il loro sbriciolarsi e disseccarsi: l’opera che si compie per riprodurre e “salvare” la propria vita legandola a quella altrui”. Leggiamo Gramsci nei Quaderni: “L’anima non si salva per solo dire. Ci vogliono le “opere”, e come!”.
Le “opere” servono a Gramsci per trasformare il mondo. Ma come è possibile trasformare il mondo? Come si può vincere la passività che ci schiaccia all’esistente? E chi ha la forza di trasformare? E’ la forza spontanea e oggettiva della storia? Il tema sta al centro, sempre, del pensiero antideterministico di Gramsci. La storia è trasformabile perché non è un mondo di necessità. E’ la soggettività consapevole e libera che ha capacità trasformativa, è la prassi che è protagonista della storia. Per Gramsci la soggettività che trasforma la storia è la classe operaia. Leggiamo Palmiro Togliatti, che fu amico di Gramsci a Torino, quando erano entrambi giovani studenti: “Vi era un’altra realtà, che colpì Gramsci e altri di noi, allora, profondamente. Nel 1912, nel 1913, a certe ore del mattino, quando abbandonavamo l’aula e dal cortile uscivamo nei portici avviandoci verso il Po, incontravamo frotte di uomini diversi da noi, che pure seguivano quella strada. Tutta una folla si dirigeva verso il fiume e i parchi delle sue rive, dove in quei tempi venivano confinati i comizi dei lavoratori in sciopero o in festa. E lì andavamo anche noi, accompagnandoci a questi uomini: sentivamo i loro discorsi; parlavamo con loro, ci interessavamo della loro lotta. Sembravano, a prima vista, diversi da noi studenti; sembrava un’altra umanità. Ma un’altra umanità non era. Era, anzi, l’umanità vera, fatta di esseri che vivono del proprio lavoro e che, lottando per modificare le condizioni di questo lavoro, modificano in pari tempo se stessi e creano nuove condizioni per la loro esistenza e la loro società” (“Scritti su Gramsci”, Editori Riuniti, 2001). Ecco allora il Gramsci dell’”Ordine Nuovo”, settimanale di “cultura socialista” fondato nell’aprile del 1919, che diventa protagonista dell’esperienza dei Consigli di fabbrica: nella sua visione della “rivoluzione proletaria” il nucleo essenziale è il nesso tra produzione e politica, è la realizzazione, nei Consigli, dell’autonomia industriale e produttiva e quindi politica della classe operaia. Ci sono altri soggetti da coinvolgere nella fase dell’”attualità della rivoluzione”: i Consigli devono organizzare anche i piccoli artigiani e i contadini poveri, riuniti in consigli territoriali. Ma i protagonisti, per Gramsci, restano gli operai delle grandi fabbriche. In seguito Gramsci, in carcere, supererà l’operaismo: la sfida diventerà per lui quella di ricercare e immaginare un governo dell’economia-mondo che assuma come fondamento non il capitale finanziario, ma il lavoro “nel suo insieme”.
Gramsci vive il dramma e la sconfitta della sinistra italiana. Il fascismo prende il potere nell’ottobre del 1922. Nell’agosto del 1924 Gramsci diventa Segretario generale del Partito comunista d’Italia, di cui era stato tra i fondatori nel 1921. A Lione, nel 1926, è protagonista del III congresso del partito, che rifonda l’organizzazione politica, emancipandola, specialmente, dalle ipoteche estremistiche, ma anche da quelle moderate. Nel novembre del 1926 Gramsci viene arrestato. Aveva appena steso il saggio su “Alcuni temi della quistione meridionale”. In questo testo, al di là di ogni operaismo, prospettava, per la trasformazione, un sistema di alleanze sociali che coagulasse la “maggioranza della popolazione lavoratrice”: operai, contadini, intellettuali. Il proletariato italiano doveva “disgregare il blocco intellettuale che è l’armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario”. Veniva così impostato il tema centrale del “programma di ricerca” dei Quaderni: quello della politica come egemonia. L’egemonia è la capacità di fondare una direzione politica o statale sulla più ampia capacità di comprensione storica e quindi di consenso.
In carcere Gramsci critica la politica dell’Urss e del Pcd’I, che si era adeguato a Stalin abbandonando la politica impostata da Gramsci tra il 1924 e il 1926. Dal 1928 Stalin sceglie la “rivoluzione dall’alto” (industrializzazione forzata e collettivizzazione delle campagne) e l’isolazionismo dell’Urss. Internazionalmente, a questa scelta corrisponde la scelta “classe contro classe”: la socialdemocrazia, con la teoria del “socialfascismo”, viene considerata il nemico principale da combattere. Gramsci da allora fu considerato un “eretico”, e tale rimase anche quando, nel 1935, l’Internazionale cambiò rotta lanciando la politica dei “fronti popolari”. Come scrive Vacca: “E’ impossibile comprendere i Quaderni senza tenere conto della coeva involuzione dell’Urss e del movimento comunista: una eclisse di cui Gramsci si propose di indagare le ragioni storiche e le origini teoriche, e a cui pensò di ovviare elaborando un nuovo pensiero e un nuovo programma per reagire così anche alla propria sconfitta”. Lo schema leniniano classe-organizzazione-rivoluzione appare a Gramsci inattuale se non inutile: il problema diventa quello della costruzione di una soggettività democratica in grado di comprendere e governare l’economia-mondo. Non c’è un movimento spontaneo verso la “crisi finale” del capitalismo, ed è impraticabile la via dello scontro frontale tra le “classi fondamentali”. Il passaggio epocale è quello dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione”. E la parola d’ordine diventa quella dell’”assemblea costituente”.
Gramsci critica sia la pianificazione economica che il “marxismo sovietico” (quello del “Manuale” di Bucharin) ed elabora la categoria di “rivoluzione passiva”: un criterio di interpretazione dei rivolgimenti storici valido a tratteggiare un mutamento in cui le forze che dovrebbero rappresentare l’antitesi storica non sono in grado di assolvere al proprio compito, e quindi i cambiamenti si verificano sotto la direzione delle vecchie classi dominanti. L’attore principale della “rivoluzione passiva”, a livello mondiale, sono gli Stati Uniti d’America. Il nuovo industrialismo americano rappresenta secondo Gramsci un fatto progressivo, destinato a espandersi mondialmente. L’”americanismo” e il “fordismo” sono i fenomeni che fanno epoca e disegnano le alternative del futuro. Si passa dall’”individualismo economico” a una ”economia programmatica”, del massimo interesse per le classi subalterne. Esse si mostrano però incapaci di “iniziativa storica” su questo terreno e sono quindi gli Stati Uniti d’America a promuovere una trasformazione storicamente necessaria. Si tratta di una “rivoluzione passiva” perché il mutamento avviene sotto la direzione di nuovi gruppi capitalistici: la forza dell’industrialismo americano sta nella capacità di rivoluzionare se stesso e di passivizzare l’avversario. L’alternativa, dunque, non è tra fascismo e bolscevismo. Secondo Gramsci rispetto all’”economia di comando” dell’Urss staliniana l’”economia programmatica” è una forma superiore di economia di piano poiché non sopprime il mercato, ma lo regola politicamente sulla base di un “compromesso” tra le classi fondamentali. In quest’ottica il fascismo appare l’agente della “rivoluzione passiva” in Europa poiché sceglie anch’esso l’”economia programmatica” ma evita il compromesso con la classe operaia, che anzi vuole stroncare. Il corporativismo fascista manca il suo obbiettivo, non sa cioè essere all’altezza dell’americanismo, non solo perché è una dittatura antidemocratica ma anche perché non sa andare oltre lo Stato-Nazione. Il tema che Gramsci pone è quello di un “nuovo cosmopolitismo”.
Il passaggio dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione”, per Gramsci “la sola possibile in Occidente”, richiede quindi una visione diversa della “via al potere”: prima di conquistare lo Stato il proletariato deve aver creato una sua egemonia nella società civile. Leggiamo i Quaderni: “In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa; nell’Occidente tra Stato e società civile c’era un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte”. Gramsci pensa che l’Italia e l’Europa possano uscire dai fascismi solo accettando la sfida americana e adattando la “regolazione fordista”, riorganizzandola su basi democratiche; e che ciò sia possibile solo con la “guerra di posizione” e con l’egemonia.
Ne è protagonista il partito comunista. Se intende trasformare la realtà il partito politico deve poter analizzare ogni suo aspetto e avere un indirizzo filosofico. Nel caso del partito comunista questo non può essere che la filosofia della praxis. Leggiamo Vacca: “L’ufficio della filosofia della praxis è quello di risolvere la frattura tra intellettuali e semplici, e quindi il suo sviluppo non può essere che ‘teorico-pratico’. E’ il tema della ‘riforma intellettuale e morale’, che dovrebbe preparare l’avvento mondiale del socialismo con un movimento storico culturale paragonabile a quello che in Europa fu per la Rivoluzione francese l’Illuminismo, ma che deve avere il carattere nazionale e popolare della Riforma protestante… Gramsci giunge alla conclusione che nella lotta tra capitalismo e comunismo il terreno filosofico è quello decisivo. La mancanza di autonomia filosofica del marxismo esistente riflette la subalternità del movimento operaio a livello mondiale, malgrado l’evento epocale della Rivoluzione d’ottobre e l’esistenza dell’Urss. La filosofia della praxis sviluppata nei Quaderni attraverso l’elaborazione degli elementi basilari di una ‘scienza della politica e della storia’ mira quindi a porre le basi di un programma futuro”.
Il tema della ‘riforma intellettuale e morale’ è decisivo. Per Gramsci il socialismo si definisce in termini morali. Scrive Aldo Zanardo: “Il socialismo è, come Gramsci scrive nel 1926, porsi ‘dal punto di vista di massa’; è puntare prioritariamente sulle masse e non su una certa direzione politica o su una certa organizzazione economica. Il socialismo è, per le masse, dunque per l’umanità tutta, per ogni individuo, ‘pienezza di vita e di libertà’. Se il soggetto del trasformare è dato dai molti individui consapevoli e liberi, la finalità è data da tutti gli individui consapevoli e liberi. E’ questa idea dell’attività consapevole e libera delle masse, è questa immagine liberatoria o libertaria, ‘morale’, del socialismo che agisce nel profondo del pensiero di Gramsci” (“Per la cultura della sinistra”, in “Oltre Gramsci con Gramsci”, “Critica marxista”, n. 2-2, marzo-giugno 1987). E’ un’immagine del socialismo che spiega lo spazio che trovano nella riflessione gramsciana tematiche come quella del consenso, quella di una rivoluzione democratica, quella del superamento della separazione di governanti e governati, quella del popolo e della sua elevazione culturale… Scrive Gramsci nei Quaderni: “La politica è concepita come un processo che sboccherà nella morale, cioè come tendente a sboccare in una forma di convivenza in cui politica e quindi morale saranno superate entrambe”. La politica, quindi, tende a divenire lo strumento perché la morale non sia più un inoperante e saccente ‘dover essere’, ma forza attiva e interna alla stessa vita politica. Non c’è nulla di più eticamente alto del lavorare a costruire la res-publica: rendere gli individui signori di se stessi e capaci di autogovernarsi, renderli cittadini, metterli in relazione tra loro.
Qui sta la differenza profonda con la “religione della libertà” di Benedetto Croce, con cui Gramsci si confronta nei Quaderni. Per Croce il volgo non potrà mai divenire classe dirigente, non potrà mai uscire dalla sua minorità e acquisire i saperi di governo. La distinzione tra società civile e società politica da metodica diventa in questo modo organica: il liberalismo, scrive Gramsci, “isola il volgo nella sfera dell’economico-vitale e gli impedisce di accedere al ‘cielo della politica’”. Il programma scientifico della filosofia della praxis è antitetico a questa distinzione organica tra società civile e società politica, perché in essa, scrive Montanari, “vede dissolversi l’idea costitutiva della democrazia dei moderni: l’idea che a tutti (non solo a chi ha una investitura dall’alto) è data la possibilità di apprendere il mestiere del governo della ‘cosa comune’ (o res-publica); vede riemergere i tratti di un agire politico ridotto all’azione degli ‘ottimati’ o dei capi-partito”. La filosofia della praxis implica invece l’affermarsi di una forma della politica che renda possibile un progresso intellettuale di massa. La direzione è quella che tende a superare la separazione tra sociale e politico, tra umili e sapienti, tra diretti e dirigenti. I partiti (Gramsci adopera il plurale) devono educare alla democrazia, organizzare saperi e produrre cultura, per organizzare e produrre democrazia. I partiti mancano il loro obbiettivo quando, divenendo un fine a se stesso, non si preoccupano di organizzare quei nessi tra gruppi sociali, saperi e istituzioni atti a favorire la crescita civile e l’allargamento della cittadinanza.
Concludo con un riferimento all’oggi: sarebbe ovviamente del tutto sbagliato pretendere di andare a cercare in Gramsci indicazioni e proposte che corrispondono alle nuove questioni che sono maturate nel nostro tempo. Ma una rilettura di Gramsci, in particolare su alcuni punti decisivi che riguardano il rapporto tra politica e società e la ‘riforma intellettuale e morale’, fornisce spunti e sollecitazioni di grandissimo interesse. Gramsci è certamente un uomo del suo tempo, ma il suo pensiero e la sua azione possono aiutare ancora a concepire una politica che non si esaurisce nella capacità di occupare un palcoscenico, ma che sia anche espressione di apertura alla società, di moralità, di sforzo progettuale.
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