Il caso Facio e le domande ancora senza risposta
Città della Spezia, 5 aprile 2015 – Sabato scorso, a Sarzana, si è discusso ancora dell’episodio più scabroso della Resistenza spezzina: la morte del comandante partigiano Dante Castellucci “Facio” per mano dei suoi compagni. Lo si è fatto nel convegno “Il caso Facio alla luce delle ricerche recenti”, promosso dal Museo Audiovisivo della Resistenza e dalle Province di Massa Carrara e La Spezia, che ha evidenziato come su questa vicenda ci siano ancora domande senza risposta, e anche visuali diverse tra storici e ricercatori. Sul caso “Facio” ho scritto più volte in questa rubrica: cito solamente il recente articolo in due puntate “Il giovane William e il tragico duello tra Facio e Salvatore” (22 febbraio e 1° marzo 2015), a cui rimando per il racconto dei fatti accaduti. Oggi cercherò, facendo riferimento ad alcuni interventi del convegno sarzanese, di enucleare i punti più controversi, su cui la ricerca dovrebbe fare passi in avanti. Passi in avanti possibili solo se si supererà l’attuale grave mancanza di fonti, che o sono andate distrutte o sono custodite privatamente: ci sono probabilmente dei documenti che potrebbero aiutarci a dare almeno alcune delle risposte che mancano.
Citerò gli interventi di tre amici: lo storico Maurizio Fiorillo, il ricercatore Cesare Cattani e Gianni Neri, Direttore del Museo, che ha studiato e approfondito il caso “Facio” quando divenne, nel 2007, consigliere provinciale del Pd e lesse il libro di Spartaco Capogreco (2006) -che ricostruiva una vicenda in gran parte già nota grazie al libro di Giulivo Ricci del 1978- e rimase scosso da quella che ha sempre definito “omertà” del suo partito. “Vengo da questa storia e ne sento la responsabilità politica”, ha detto Gianni al convegno, usando parole che sono da tempo anche le mie, e che mi hanno portato in questi anni a impegnarmi, insieme a lui e a tanti altri, perché emergesse tutta la verità.
Per Fiorillo le ragioni del processo e della morte di “Facio” sono legate alle vicende del mondo partigiano spezzino, e non alla storia precedente, emiliana, di Dante Castellucci (su questa tesi, come vedremo, non concorda Neri). E, all’interno della Resistenza spezzina, c’è un intreccio tra motivi personali e motivi politico-militari: non può essere ricondotto tutto, secondo Fiorillo, alle ambizioni di Antonio Cabrelli “Salvatore”. In sostanza la questione è questa: a Spezia combattono due forze organizzate, Giustizia e Libertà e il Pci, ma mentre la prima ha una grande formazione partigiana in Val di Vara, il Pci, che pure è il partito più attivo, non ha fino al maggio ’44 una presenza stabile nei nostri monti (suoi partigiani sono nel parmense e nella “Cento Croci”, che però è una brigata autonoma; nel maggio ’44 arriva nello spezzino il “Battaglione Picelli” comandato da “Facio”, che è sì garibaldino ma dipende da Parma). Il Comitato di Liberazione Nazionale di Spezia, composto da tutti i partiti, si dà l’obbiettivo, dal giugno ’44, di formare un comando unico della IV zona operativa, e incarica di ciò il proprio comando militare, formato da Mario Fontana, socialista, che diventerà poi il comandante della IV zona, e dai comunisti Renato Jacopini e Luciano Scotti, che saranno presenti al processo a “Facio”. Lo scontro con “Facio” avviene sulle modalità della costituzione del comando unico. Ecco la tesi di Fiorillo: “Gli uomini che processano ‘Facio’ sono comunisti di altissimo livello: Jacopini, Scotti e Giovanni Albertini. Sono persone che si conoscono bene, anche se non si stimano molto. Sono sui trent’anni, hanno tutte esperienza politica e militare. Vogliono sostituire ‘Facio’ perché il comando partigiano va riorganizzato, deve essere unico; e perché il Pci, all’interno del comando unico, vuole formare una sua brigata garibaldina. Ricci nel ’78 scrisse già l’essenziale. La formazione garibaldina di ‘Facio’ doveva passare al comando unico spezzino, anche perché altrimenti la ‘Colonna Giustizia e Libertà’ e la ‘Brigata Cento Croci’ sarebbero state in maggioranza. In una situazione di questo genere possiamo pensare che il processo e l’esecuzione siano dipesi solo da Cabrelli? La sua ambizione smisurata è un elemento importante di spiegazione della vicenda, ma le motivazioni principali furono politico-militari”. E’ una ricostruzione che mi convince, e che si porta dietro domande a cui, in assenza di fonti, non è possibile dare risposta: Mario Fontana sapeva? Che ruolo ha avuto? Perché non ne parla mai? Nessun documento ci dice qualcosa su questo. Vale anche per il ruolo di Anelito Barontini e di Giulio Bertonelli, i veri “capi” del Pci e del Partito d’Azione, che a fine luglio ’44 avrebbero dovuto “supervisionare” tutto ciò che avveniva ai monti: hanno avuto un ruolo, e quale? Nessun documento ci aiuta. Ancora: Jacopini, Scotti e Albertini sono il Partito Comunista? Sono persone, dice Fiorillo, non il Partito: “è un gruppo di comunisti autorevoli, ma quando si dice il Partito si esagera, più che il Partito sono gli uomini del comando militare del Cln”. Ma allora perché la sentenza fu emessa a nome del Partito Comunista?
Diversa, invece, la visuale di Neri, convinto “che non sarà mai possibile risolvere il caso senza rispondere al tremendo dubbio sull’esistenza o meno di un legame tra le due condanne a morte ricevute da ‘Facio’, quella pronunciata dai responsabili comunisti reggiani della zona in cui operava la Banda Cervi -Ottavio Morgotti, Didimo Ferrari e Gismondo Veroni- nel gennaio ’44, e quella portata avanti da Cabrelli nel luglio ’44 con la complicità di dirigenti comunisti spezzini del calibro di Renato Jacopini e Giovanni Albertini”. Dante Castellucci fu infatti compagno dei Cervi, anche nella triste notte del 25 novembre ’43, quando i repubblichini circondarono casa Cervi ai Campi Rossi di Campegine e arrestarono tutti e sette i fratelli, il padre Alcide, Dante e altri sei membri della banda. Dante si salvò perché sapeva il francese e si finse un soldato straniero: così, da prigioniero di guerra e non da ribelle, venne condotto nella Fortezza della Cittadella di Parma, dalla quale riuscì poi a fuggire in modo rocambolesco. Ritornò ai Campi Rossi, e cercò vanamente di liberare i Cervi dal carcere, fino alla fucilazione dei sette fratelli il 28 dicembre. Il Pci reggiano, o una parte di esso, emise allora una direttiva di cattura e di condanna a morte su Dante Castellucci, considerato una spia. Dante a Reggio non morì solo perché i dirigenti comunisti incaricarono della sua eliminazione due suoi grandi amici: Otello Sarzi, attore e burattinaio, e Victor Pigorov “Danilo”, poi “Modena”. Otello e Dante, tra l’altro, avevano fatto di tutto per organizzare la fuga dei Cervi dal carcere. Mentre Otello rallentava le ricerche per non trovarlo, Lucia Sarzi, con i suoi buoni contatti politici, indirizzava Dante verso l’unica via di salvezza, Luigi Porcari, dirigente comunista di Parma, che credette al suo racconto e lo mandò in quarantena ai monti, sotto la guida di quella persona straordinaria che fu Fermo Ognibene “Alberto”, primo comandante del “Picelli”. Morto “Alberto”, “Facio” divenne comandante, ma senza dimenticare i Cervi e Reggio. Spiega Neri: “L’ispettore di brigata Enrico Gatti ‘Musiari’ il 7 maggio va a fare un rapporto al centro sulla situazione del ‘Picelli’ e tra le altre cose chiede conto a ‘Facio’ dei fatti di Reggio. E evidente che quel caso non era chiuso. ‘Facio’ risponde che su quelle questioni aveva appena mandato un memoriale al partito. ‘Musiari’ insiste e ottiene da ‘Facio’ altre note personali che allega alla relazione stessa. Sono spariti entrambi i documenti: non si sono mai trovati né il memoriale di ‘Facio’, né le note personali allegate da Gatti alla relazione. A qualsiasi persona può venire il dubbio che ‘Facio’, rilanciando quella questione delicata, può aver riattivato anche la preoccupazione e il risentimento di Veroni e di chi altro lo voleva morto nei primi giorni del ’44. I dubbi sono più che leciti e sono consolidati dall’arrivo di Cabrelli al ‘Picelli’ la settimana successiva, dopo una fuga che chiamarla misteriosa è dire poco. Quel Cabrelli così compromesso agli occhi del partito che non cercava altro che l’occasione giusta per essere riabilitato. Perché mancano proprio questi documenti? E perché se si cercano dati, documenti, oppure una semplice memoria su Enrico Gatti non si trova niente? Eppure dopo aver fatto l’ispettore di brigata ‘Musiari’ divenne commissario politico del ‘Picelli’ con il nome di ‘El Gato’. Come è possibile questo altro vuoto?”. Sono interrogativi a cui la ricerca storica dovrebbe dare una risposta. Anche se si è convinti, come lo è Fiorillo, che le ragioni del caso “Facio” sono tutte interne alla IV zona operativa, e che la vicenda emiliana è importante solo perché incide profondamente sulla psicologia e sui comportamenti successivi di “Facio”.
C’è, poi, la domanda di Cesare Cattani, che ha il merito di essere l’unico ricercatore che ha ripercorso le tappe della formazione di Dante Castellucci e che sta studiando “Facio” come persona. La domanda è: “Nel dopoguerra la vicenda ‘Facio’ è stata rimossa o no?”. Per Cattani non ci sono dubbi: “Il Pci non volle Cabrelli nel partito ma non lo denunciò mai come omicida di ‘Facio’”. E’ l’”omertà” di cui parla Neri. La medaglia a “Facio”, con la falsa motivazione, è del 1963. Ma Pietro Secchia, nella sua monumentale enciclopedia della Resistenza del 1968, non cita Castellucci ma Cabrelli. Ancora nel 1998, in occasione della consegna della Medaglia d’Oro al Valor Militare alla Provincia della Spezia, l’ente commissiona un volume sulla Resistenza spezzina in cui non c’è alcuna traccia di “Facio”. Ricordo che i dirigenti del Pci che avevano fatto la Resistenza non amavano parlare di “Facio”. E se è comprensibile -ma non giustificabile- l’imbarazzo, nell’epoca della “guerra fredda” e degli attacchi alla Resistenza e alla Costituzione, a riconoscere le “macchie” dell’esperienza partigiana, molto meno comprensibile -e ingiustificabile- è il silenzio successivo: per “proteggere i responsabili che sono ancora in vita”, si diceva. Ma così non si rispettava “Facio”, e nemmeno la Resistenza.
Infine l’ultima domanda, che mi sono sempre posto: perché “Facio” si reca ad Adelano, dai suoi assassini, senza uomini? Perché di fronte alle accuse non si difende o quasi? Lo storico Giovanni Contini, a Sarzana, ha risposto così: “’Facio’ è schiacciato dall’idea che, se il partito lo condanna, il partito ha ragione: il non volere ‘scappare ai compagni’ è un atto di fiducia straordinaria verso il Partito Comunista”. E’ vero che “Facio” si era formato alla scuola dei Cervi: era cioè capitato in una famiglia e in un gruppo partigiano che parlavano il linguaggio comunista e ne seguivano l’ideale, ma che rifuggivano dalla ferrea disciplina di partito. Ma alla fine il partito era pur sempre il Partito.
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