L’ uomo che non credeva in Dio di Eugenio Scalfari
Con questo libro Eugenio Scalfari abbraccia l’avventura della sua esistenza: a partire dalla stagione magica dell’infanzia, passando per gli anni di formazione (la scoperta della filosofia al liceo di Sanremo, compagno di banco l’amico Italo Calvino), fino all’impegno giornalistico, che dura da oltre sessantacinque anni, per arrivare al tempo lungo della vecchiaia. Ma Scalfari non si accontenta di rammemorare, nel suo libro ogni ricordo vive e perdura in funzione di una continua tensione etica e intellettuale. Egli non entra nelle varie stanze della memoria, se prima non è certo di intravedere dalla soglia il bagliore di un fuoco razionale che possa ampliare il dato autobiografico, fino a farsi meditazione sulla vita, sui valori di ogni gesto compiuto. Ripensarsi bambino, vestito da Ballila ad ascoltare il duce da Palazzo Venezia, lo costringe a fare i conti con l’intossicazione del virus ideologico del fascismo. Poi si osserva adolescente entrare nella gabbia dell’Io, con indosso quella maschera che toglie l’innocenza; e nei due anni passati nella campagna calabrese, in fuga da Roma occupata dai tedeschi (“dopo otto mesi di pena, clandestinità e fame nera”), scopre la possibilità di un oblio di sé, imparando dal padre ad ascoltare “la voce degli alberi”. Oppure si interroga su morale e politica, ricordando la figura di Enrico Berlinguer o quella volta che in un bar della Maremma Ugo La Malfa associò il fare della politica con l’arte di giocare di sponda a biliardo.
L’UOMO CHE NON CREDEVA IN DIO – Vito Mancuso
Il titolo L’uomo che non credeva in Dio ha un sapore di eterno, nel senso che Scalfari vuole essere ricordato come l’uomo che, appunto, non credeva in Dio. Sarebbe del tutto fuorviante leggervi un’apertura tipo “ma che ora invece ci crede”. Il titolo intende scolpire il fatto che il rapporto di Scalfari con Dio è chiuso, e tale per sempre resterà.
Un ruolo decisivo nel libro lo ricopre Friedrich Nietzsche, il pensatore al quale Scalfari dedica più spazio e con cui si dichiara più in debito, più di Cartesio, Spinoza, Kant, Freud, che pure hanno giocato un ruolo di primo piano nella sua formazione. Ma mentre questi filosofi hanno contribuito a formare Scalfari che poi li ha per così dire superati, Nietzsche sembra rimanere il faro, la stella attorno a cui gravita il suo pensiero. Quale Nietzsche però? Vi sono infatti tre concetti-vertice del pensiero di Nietzsche, tra loro difficilmente componibili: la volontà di potenza, il Superuomo (o meglio l’Oltreuomo, come Vattimo traduce Übermensch), l’Eterno ritorno. A seconda che si privilegi l’uno o l’altro di questi concetti scaturisce una diversa filosofia: una visione ancora antropocentrica se si privilegia la Volontà di potenza, una visione non più antropocentrica se si assume l’Oltreuomo, infine una visione naturalistica, idealmente spinozista, alla luce dell’Eterno ritorno. Qual è il vero Nietzsche? Tutti e tre, evidentemente, e per questo il filosofo tedesco è oggetto di passioni contraddittorie, amato e odiato sia a destra sia a sinistra. Anche in teologia è così: Simone Weil scriveva nei suoi Quaderni di non riuscire a sopportarne neppure lo stile figuriamoci il pensiero, mentre Bonhoeffer non è pensabile senza Nietzsche, al quale deve il celebre concetto di Dio-tappabuchi.
Ma ben aldilà della pars construens, Nietzsche è decisivo per la sua opera demolitrice. Che cosa ha demolito? La ragione. Faceva filosofia col martello e a martellate ha distrutto la gloria dell’umanità, la ragione. La morte di Dio annunciata da Nietzsche è in realtà da interpretarsi più radicalmente come morte della ragione, nel senso ontologico di grammatica e respiro dell’essere, nel senso di Logos. Dicendo “Dio è morto” Nietzsche ha annunciato la morte della Razionalità quale grembo primordiale da cui tutto nasce e a cui tutto ritorna. Il senso di tragedia che aleggia sulle pagine del libro di Scalfari sta a mio avviso tutto qui: nell’uso spassionato e fedele della ragione all’interno di un mondo ritenuto privo di ragione. Questa scissione tra l’Io e il Mondo è il dramma del ‘900, e leggendo le pagine di Scalfari lo si tocca ancora una volta con mano.
Nel libro vi è tutta la serietà analitica di cui può essere capace un uomo del ‘900, e insieme la malattia di cui soffre questo tempo, cioè la frattura rispetto alla natura e alla sua razionalità, ciò che Hans Jonas definiva già nel 1974 “sindrome gnostica”. È a causa di ciò che la ricerca di senso è destinata al naufragio, quella ricerca che secondo Scalfari “è il tema dominante della specie”, qualcosa di cui noi esseri umani “abbiamo bisogno”. La domanda si declina ai nostri giorni come questione antropologica: chi siamo noi? che cos’è la coscienza? che cos’è il pensiero? che cos’è l’Io? siamo noi i protagonisti del nostro pensiero, oppure esso si forma indipendentemente da noi in base a una strana alchimia di geni e di influssi ambientali e poi utilizza il nostro linguaggio facendoci illudere di esserne i protagonisti, mentre siamo solo una sorta di raffinati altoparlanti? Queste domande si compendiano in quella che riguarda l’esistenza della libertà e si possono tradurre in due equazioni alternative. La prima: Io = Mondo. La seconda: Io > Mondo. Chi sostiene la prima equazione nega la libertà; chi sostiene la seconda l’afferma, nel senso che la libertà è ciò che rimane sottraendo a me stesso l’apporto biologico e sociale del Mondo. Il che si può riesprimere dicendo: Io – Mondo = x. L’incognita x è precisamente la libertà. Chi nega la libertà dice invece: Io – Mondo = 0.
In questa prospettiva capisco perché Scalfari dica che “forse è la parola anima che ci imbroglia la testa” (pag. 41), dato che il termine anima non fa che tradurre in termini ontologici il contenuto della libertà dell’uomo rispetto al mondo. L’anima dice staticamente ciò che la libertà dice dinamicamente. Entrambi i termini intendono dare un nome all’incognita che risulta sottraendo a me stesso tutto ciò che è opera del mondo. Per questo sui concetti di anima e di libertà si gioca non solo la questione antropologica, ma anche quella teologica.
Ci sono due modalità, a mio avviso entrambe deficitarie, nel pensare la natura e conseguentemente l’anima. La prima è quella che pensa la natura come governata dall’alto, direttamente guidata da un Dio personale che interviene a suo piacimento e che quindi crea, lui stesso in prima persona, le anime, lo fa al momento del concepimento nell’istante in cui l’ovulo viene fecondato dallo spermatozoo. La seconda modalità, quella assunta da Scalfari, è propria della cultura oggi dominante e pensa la natura come un principio assoluto sopra il quale non vi è nulla, che si muove producendo “soltanto forme che emergono dall’informe e ad esso ritornano quando il loro ciclo si esaurisce” (pag. 42). In realtà considerando la natura si vede a mio avviso che, se essa non è governata direttamente dall’alto da un Dio personale visto che conosce il caso e l’assurdo (a meno di non attribuire tali fenomeni al Dio personale, di cui però a questo punto non si dovrebbe parlare più in termini di Logos e ancor meno di amore), essa al contempo è governata dal basso, da una logica cieca per quanto attiene ai dettagli ma perfettamente vigile per quanto attiene alla strategia generale, la quale consiste nella costruzione secondo la logica relazionale di livelli sempre più raffinati di informazione e di organizzazione, di cui l’Io che appare nell’uomo è il livello più alto, il frutto più bello. Questa logica relazionale trova nell’amore di cui l’Io è capace il suo vertice. Desidero notare che Scalfari ha passaggi molto profondi e molto veri sull’amore, e già solo per questo il suo libro merita di essere letto. Per esempio scrive: “Bisogna dimenticarsi di sé per conoscere l’altro senza invaderlo, bisogna modificare la grammatica della psiche per passare dall’io e dal tu al noi”; e ancora afferma che occorre disporre “di un deposito di amore tale che renda possibile superare l’io e il tu declinando al loro posto il noi” (pag. 45). Si tratta di una visione dell’amore perfettamente cristiana perché si basa sulla logica relazionale, la medesima che è presente nel Dio cristiano che è trino proprio perché supera l’io e il tu e si dice come noi, e questo noi è un uno. A prescindere se esista o no nell’alto dei cieli qualcosa di simile, ciò che qui importa sottolineare è che il cristianesimo predicando dell’Assoluto tale logica relazionale ha fatto dell’amore il valore ontologico più alto. E Scalfari nelle sue pagine, parlando dell’amore, l’ha riprodotto. Non senza incoerenza però, a mio avviso, con la sua visione della natura.
L’importanza che assume l’amore appare anche dal fatto che il libro si apre e si chiude con pagine molto intense dedicate alle relazioni umane, il rapporto con la madre all’inizio e quello col nipotino alla fine. Il punto decisivo è capire che cosa significa, per la natura e per noi che ne siamo un frutto, che “l’amore dà riposo e beatitudine”, frase vera e profonda che si legge nella penultima pagina del libro. Da bambino giocando ai soldatini Scalfari racconta che faceva vincere sempre i buoni. Tutti abbiamo fatto vincere i buoni. Perché? E perché le favole dell’umanità, pur ricolme di orrore e di incubi, si concludono tutte con la vittoria del bene? Si tratta solo di un infantile e consolatorio desiderio di happy end, o c’è la manifestazione primordiale di una struttura fondamentale dell’essere? “Non so spiegarmi perché a sei anni ero convinto che chi vince è buono. Oppure che chi è buono vince” (pag. 10). Credere in Dio significa ultimamente essere convinti che chi è buono vince, che esiste cioè una corrispondenza logica tra la morale e l’essere. La fede in Dio è la fede nella razionalità dell’essere. Lo ricorda spesso anche Benedetto XVI.
La nostra però è l’epoca contrassegnata da una sorta di chiasmo maledetto, una prigione dello spirito incatena l’anima del nostro tempo. Il chiasmo lo descrivo così. Coloro che credono in Dio e pongono il Logos e la ragione all’origine del tutto, fanno poi della fede e dell’obbedienza all’autorità, e non più della ragione come vorrebbe la coerenza, il criterio-guida del vivere quotidiano. Viceversa coloro che fanno della ragione il criterio-guida del vivere quotidiano e passano al suo severo vaglio ogni situazione, pongono poi non nella ragione, come vorrebbe la coerenza, ma nel caso, cioè nell’assurdo, l’origine delle cose. Mi chiedo come uscire da questa contraddittoria prigione dello spirito che anche nel libro di Scalfari appare vistosamente.
Alla fine il problema di fondo è Dio, non a caso scelto da Scalfari come protagonista, per quanto negativo, del suo titolo. Si tratta di comprendere che cosa significa l’idea di Dio, e che cosa significa aderirvi o non aderirvi. Mi sembra che queste parole di Plotino (scelgo volutamente un autore non cristiano) possano aiutare nella risposta: “Più di una volta mi è capitato di riavermi, uscendo dal sonno del corpo, e di estraniarmi da tutto, nel profondo del mio io. In quelle occasioni godevo della visione di una bellezza tanto grande quanto affascinante che mi convinceva, allora come non mai, di fare parte di una sorte più elevata, realizzando una vita più nobile: insomma di essere equiparato al divino, costituito sullo stesso fondamento di un dio” (Enneadi IV, 8, 1). È solo la paura della morte a generare la religione, come sostiene Scalfari? Queste parole di Plotino dicono di no. C’è anche l’amore per la bellezza che possiamo ospitare, se ne diventiamo degni. Nessun dubbio che spesso la religione nella storia si sia basata per affermarsi sulla paura della morte (“ricordati che devi morire”). Ma non era questo l’annuncio di Gesù di Nazaret che parlava del Regno e portava vita e salute ovunque andava. Non era questo lo spirito di Francesco d’Assisi e del suo Cantico delle creature, né di Florenskij, Bonhoeffer, Teilhard de Chardin e di chissà quanti altri credenti. È vero ciò che scrive Scalfari, che “Dio muore nel momento in cui scopriamo d’averlo inventato per sfuggire la paura” (pag. 75). È vero, e un Dio così deve morire, perché è un idolo, è il Dio-tappabuchi. Ma vi è un modo di essere credente che non è per nulla equiparabile a un pavido calcolo alla ricerca di far sopravvivere il proprio piccolo io. C’è una modalità di credere in Dio che è celebrazione della bellezza della vita, non assicurazione contro la paura della morte.
Scalfari dice che verso i quarant’anni si liberò “della necessità, sempre incombente, di trovare un senso ultimo” (pag. 88). Prima però aveva scritto che la ricerca del senso della vita è una prerogativa della nostra specie (cf. pag. 14). Certo, rimedia alla contraddizione dicendo che vi sono anche i sensi penultimi, ma, quando si tratta dell’insieme della vita, non è così. Il senso, in questo caso, o è ultimo o non è. Un senso provvisorio della vita è semplicemente un compromesso, un adattamento, una resa. Dall’inizio della sua avventura spirituale il genere umano è stato alla ricerca del senso ultimo del vivere, da cui sono nate le molteplici religioni e le molteplici filosofie. Ma si tratta di capire perché l’uomo ha intrapreso tale ricerca. Solo paura della morte? Certamente la morte ha giocato e gioca il suo ruolo, ma non tutto è riducibile a un desiderio di campare. Nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu: se cerchiamo il senso ultimo è perché siamo generati da un’azione sensata, logica, ordinata, che è la relazione. Già il nostro consistere come organismo è il frutto di un insieme di incalcolabili relazioni, a partire dalle particelle subatomiche che formano i nostri atomi, e questi le molecole, e queste le cellule, fino al concerto degli organi che si chiama organismo. Per questo dissento profondamente dalla visione dell’organismo offerta da Scalfari: “Il corpo è interamente impregnato di volontà di potenza, gli organi che lo compongono non hanno altro fine che di preservarla e di accrescerla” (pag. 128). C’è lo sviluppo della medicina rigenerativa a mostrare la falsità di questa tesi, c’è la scoperta dei neuroni-specchio che dimostrano la natura altruistica (in senso ontologico prima ancora che etico) del nostro essere. La logica del corpo è la relazione, non la volontà di potenza (per quanto la relazione talora si esplichi anche come volontà di potenza, soprattutto nella sessualità maschile).
Da questa visione errata della logica dell’organismo discende nel pensiero di Scalfari un’aporia in ordine alla genealogia della morale. Io sono d’accordo con lui nel ritenere che la morale sia un istinto, quindi qualcosa di radicato nella natura, ben più che derivante dalla cultura, religione compresa. Solo che da questa affermazione occorre trarre le conseguenze per l’ontologia della natura, chiedendoci perché siamo fatti così e perché ospitiamo questo istinto. Sono convinto che non basta rimandare alla sopravvivenza della specie, perché a volte l’istinto morale (come ha mostrato proprio Nietzsche) va contro la sopravvivenza della specie e può essere contrassegnato come decadenza o peggio ancora nichilismo. E per molti aspetti è vero: a volte la morale fa compiere atti biologicamente non necessari, se non addirittura dannosi. Un esempio è la cura delle persone handicappate, del tutto infruttuose per il prosieguo della specie e che infatti Nietzsche, come gia Aristotele, voleva fossero abbandonate al loro destino. Io concordo pienamente sul fondamento biologico della morale individuato da Scalfari col chiamarla “istinto”, ma ritengo che l’esistenza di tale istinto contraddica l’interpretazione utilitaristica della natura che Scalfari riprende dal darwinismo, perché nell’istinto morale c’è molto più del mero interesse per la sopravvivenza della specie, c’è la passione per la giustizia, per il bene, per la verità (al cui riguardo si vedano le belle pagine dedicate da Scalfari a Ugo La Malfa e a Enrico Berlinguer). Io ritengo che l’istinto morale abbia un fondamento fisico nel senso che deriva dalla logica relazionale che ci costituisce, è l’espressione del nostro consistere come organismo in miliardi di relazioni ordinate e armoniche. Noi siamo in salute dal punto di vista fisico se tutte le componenti del nostro organismo girano armonicamente tra loro; allo stesso modo, dal punto di vista spirituale siamo in salute se riproduciamo al di fuori di noi la medesima logica relazionale che ci costituisce fisicamente e che al livello interpersonale si chiama giustizia. Il fondamento dell’etica e del diritto è inscritto nella logica del nostro organismo: c’è una verità primordiale della nostra natura alla base dell’etica e del diritto.
Desidero concludere con una parola sulla questione della fede in Dio sollevata da Scalfari. Egli scrive: “Dio non è morto: c’è finché qualcuno lo guarderà”. E poi aggiunge: “Quanto a me, non guardo Dio da moltissimi anni. Forse non l’ho mai guardato” (pag. 136-137). Mi chiedo come possa un uomo guardare Dio. E rispondo considerando che vi sono due modalità fondamentali di disporre il corpo durante la preghiera: c’è chi alza le mani verso il cielo rivolgendole verso l’esterno, e c’è chi le raccoglie sul petto quasi ritirandosi dentro di sé. La prima modalità presuppone un’idea di Dio che lo situa al di fuori di se stessi, la seconda al contrario all’interno di sé. Tale seconda modalità contrassegna l’esperienza spirituale di cui parlava Plotino e che si ritrova anche nell’Agostino neoplatonico del De vera religione secondo il quale “la verità abita nell’uomo interiore”. Un uomo può non rivolgersi per tutta la vita a Dio considerandolo esterno a se stesso, ma, se cerca il bene e la giustizia dentro di sé, può avere lo stesso molto a che fare con lui. Forse è il caso anche dell’uomo che non credeva in Dio. Io glielo auguro.
Pubblicato su Il Foglio, 18 maggio 2008.
L’uomo che non credeva in Dio (Einaudi) di Eugenio Scalfari è una singolare autobiografia. Scalfari racconta la propria infanzia, la propria giovinezza; alcuni episodi della sua vita di giornalista; i suoi rapporti con uomini politici italiani; la morte di una persona cara; e parla a lungo di Nietzsche. Ma si ha l’impressione che egli guardi da lontano una meta lontana; e che il tema che lo inquieta sia l’io di ogni essere umano e soprattutto il suo io. Il pensiero si svolge, oscilla, si contraddice, e rende mobile, caldo e vivace il suo libro. Cos’è l’io? si chiede Scalfari. Vorrei ricordare qualche persona che non possedeva un io. Alessandro Magno non volle essere se stesso – il figlio di Filippo e di Olimpiade, un uomo non alto, dai capelli biondi, che sapeva a memoria le tragedie di Euripide. Volle imitare qualcosa che era stato, e che molti credevano morto. Con tutta la forza della passione, pose davanti agli occhi della mente un gruppo di figure divine e eroiche – Dioniso, Ercole, Achille, Ciro di Persia – e cercò di resuscitarle e reincarnarle nella propria esistenza. Nessun uomo giunse mai a comprendere in se stesso tante persone diverse, distribuite attorno a un centro che continua a sfuggirci. Fu multiforme, molteplice: un nodo imprevedibile di contraddizioni; e conobbe l’ebbrezza di condurre una vita mitica. Nemmeno Shakespeare fu un io: ma un sistema solare, formato da molti pianeti che ruotavano attorno a un centro; e questo sistema solare si intrecciava a sua volta con le galassie che si perdevano nell’infinito. Il suo centro era dappertutto: nei diversi soli e negli innumerevoli pianeti che ricevevano luce dai soli. Come dice Scalfari, se era dappertutto, non era in nessun luogo. I grandi mistici cristiani ed islamici cancellarono l’io; e si perdevano nell’oceano dell’umanità, vivendo in Dio, per Dio e con Dio. Si consumavano negli splendori del volto divino e nella maestà della sua gloria. Tutte le apparizioni esteriori scomparivano davanti ai loro sguardi: il mondo smarriva le proprie forme, e il significato del bene e del male. Non sapevano se esistevano o non esistevano: se erano manifesti o nascosti; perituri o immortali. Col cuore pieno e vuoto d’amore, ignoravano di chi erano innamorati. Ignoravano perfino il proprio amore. Alla fine, dimenticavano la loro conoscenza di Dio, o la coscienza di conoscerlo. Come loro, un grande poeta moderno, Pessoa, evase dal carcere del proprio io: con un folle desiderio di fuga, lasciò tutti i luoghi, le prigioni, le limitazioni, i principi e le fini, le prigioni, le soluzioni, le barriere, i paesi ed i mondi. Se vedeva altri uomini, provava lo stesso orrore. Così, per evitarli, li fece rinascere in sé: i suoi sentimenti diventarono i sentimenti di molti individui: il suo animo, il suo cuore e il suo sguardo appartennero a persone diverse fra loro; indossava sempre nuove maschere, ognuna delle quali era più ambigua della precedente. Scriveva: “Dio non ha unità, come potrei averla io?”. Negli anni della giovinezza e della maturità, Eugenio Scalfari visse secondo la tradizione dell’io borghese. Pensava che esso fosse robustamente fondato sulla ragione e sulla volontà, e dominato da loro. Sapeva dai libri di avere un inconscio, ma immaginava di conoscerlo e di tenerlo sotto controllo. Il suo io coincideva con i pensieri coscienti e l’attività quotidiana, con la quale si identificava completamente. Così passo dopo passo, esperienza dopo esperienza, sensazione dopo sensazione, evento dopo evento, saliva la scala della sua persona, che egli stesso aveva costruito. Al culmine della maturità, Scalfari cominciò ad avere dubbi sulla costruzione che aveva fondato. Gli sembrava che fosse una crosta esilissima, nella quale non poteva avere fiducia. L’inconscio, che credeva di dominare, veniva improvvisamente alla luce, lo folgorava, portandolo in luoghi dove non avrebbe mai immaginato di giungere. In parte con angoscia in parte con gioia, gli parve che il suo io scomparisse e si dissolvesse. Si sentiva lacerato e diviso. Poi, poco a poco, cominciò ad amare questa condizione inquietante. Si accorse di non avere un solo occhio. Qualsiasi cosa facesse, possedeva sempre un altro occhio, con il quale guardava dal di fuori e contemplava gli altri con una rinnovata attenzione. Vedeva attorno a sé mille casi: non li guardava più con ansia; ma con infinita simpatia verso la selva pittoresca della vita. Forse lui stesso – il suo antico io – era diventato una collana colorata di casi. Lesse e rilesse Montaigne, Diderot e Nietzsche. Soprattutto Montaigne lo attrasse. Avrebbe dato chissà cosa per abitare la sua biblioteca, lassù in alto, nella torre, guardando le cinquantasette sentenze che Montaigne aveva fatto incidere sulle travi del soffitto. ‘Tutte queste cose, con il cielo e la terra e il mare, non sono nulla a paragone della somma totale di tutte le cose’, aveva detto Lucrezio. ‘Non comprendo’ aveva detto Sesto Empirico. La biblioteca aveva tre grandi finestre dalle quali entravano il soffio dei venti, i raggi del sole, i riflessi delle nuvole, gli odori degli alberi e, due volte al giorno, il suono dell’Ave Maria. Se si affacciava alla finestra vedeva il castello, la corte, il pollaio, e più lontano le colline del Périgord, dove lo sguardo si perdeva. Così Scalfari comprese che la sua crisi lo aveva portato indietro, nel cuore della tradizione psicologica dell’Occidente, e insieme avanti, in un futuro di cui non intravedeva i lineamenti. La vita era quella che aveva immaginato Montaigne: una metamorfosi incessante, piena di incidenti effimeri, tracce di un destino sconosciuto, libri, contraddizioni, imprevisti, misteri. Come le api, Montaigne assimilava tutti i fiori, i colori e le ombre nel miele del suo spirito. Amava la natura che gioca. Amava la fantasia, il capriccio, la sorpresa. Amava il vento e l’oscillazione. Amava tutto ciò che è mescolato, confuso, rappezzato, screziato. Amava le fugaci, dorate apparenze, che ci portano lontano da ogni certezza. Così, immerso nella metamorfosi di Montaigne, Scalfari comprese il suo nuovo rapporto con se stesso e con gli altri: cercava di capire gli altri, e di farli diventare se stessi, estraendo da loro la piccola musica che ciascuno possedeva. Diventò più mobile, volubile e affettuoso, come nelle pagine del suo libro, dove tutte le sue tendenze vivono l’una accanto all’altra, in una specie di guerra pacifica. […]” (da Pietro Citati, Il romanzo dell’uomo che non credeva in Dio, “La Repubblica”, 01/05/’08)
Popularity: 15%