“Richetto”, Tino e la “santa pattona”
Città della Spezia, 18 gennaio 2015 – Sabato 23 gennaio, a Varese Ligure, ricorderemo come ogni anno l’anniversario della costituzione del Comitato Unitario della Resistenza, avvenuta nel 1971, e il contributo della Val di Vara alla lotta di Liberazione. Sarà l’occasione per commemorare tre figure simbolo di questo contributo: Federico Salvestri “Richetto”, nativo di Caranza di Varese Ligure, comandante della Brigata “Cento Croci”, scomparso cinque anni fa, il 27 gennaio 2010; il marinaio siciliano Antonio Siligato “Nino”, eroe della “Cento Croci”, ucciso dai nazifascisti settant’anni fa, il 20 gennaio 1945; e don Giovanni Bobbio, parroco di Valletti di Varese Ligure, partigiano della Brigata “Coduri”, trucidato anch’egli settant’anni fa, il 3 gennaio 1945 (si veda, in questa rubrica “Sacerdoti e Resistenza”, 10 agosto 2014). Riflettendo su queste pagine di storia, emerge con evidenza un dato: la vittoria dei partigiani della IV Zona operativa, quella della Resistenza sui nostri monti, fu possibile grazie al contributo decisivo delle popolazioni della Val di Vara: non solo eroi come “Richetto”, “Nino” (dalla Val di Vara adottato) e don Bobbio, ma anche contadini, montanari, donne e uomini semplici con cui i ribelli vissero le lunghe giornate di attesa e affrontarono i rastrellamenti. Furono loro a sfamare i ribelli con le patate, la polenta, le gallette, la “santa pattona” fatta con la farina di castagne, in un periodo in cui di cibo da spartire ce n’era davvero poco. Furono loro a nasconderli, a curarli quando erano feriti o congelati: con semplicità, con naturalezza, a rischio della loro vita. In alcuni casi i contadini presero le armi per combattere insieme ai partigiani, come avvenne a Serò di Zignago durante la “battaglia del Gottero”: un grande esempio di “lotta di popolo”, di tutto il popolo, “civili” e “partigiani”. Come a Scogna e a Santa Maria di Sesta Godano, dove i contadini usarono i loro muli per il trasporto delle munizioni. Come poté succedere? La Val di Vara, a differenza del Golfo e della Val di Magra, non aveva conosciuto il mazzinianesimo, l’anarchismo, il socialismo e il comunismo. Non aveva mai visto nemmeno la nascita di una società di mutuo soccorso. Era una civiltà contadina, chiusa nell’autoconsumo, limitata a piccoli commerci, egemonizzata dal clero, senza una “coscienza sociale e politica”. Eppure quella popolazione fu decisiva per sconfiggere il nazifascismo. Giovanbattista Acerbi, per tutti Tino, nato a Sesta Godano, partigiano in Val di Vara, mi dà questa spiegazione: “Il lungo isolamento aveva comportato la nascita di un forte spirito di indipendenza, che non sopportava la dittatura e il dominio tedesco”, e poi “c’era stato un grande flusso migratorio dalla valle agli Stati Uniti e all’Inghilterra, chi tornava aveva conosciuto la libertà, la lotta per la democrazia”. E aggiunge: “Non fu un processo semplice, c’erano forti differenze di mentalità tra città e campagna, e le azioni partigiane provocarono spesso reazioni nazifasciste pagate dalla popolazione inerme”, che “soffrì ed ebbe paura ma non tradì mai: non ci fu mai un tradimento dei locali”. E anche “il clero, nella stragrande maggioranza dei casi, si comportò bene, si batté per la libertà”. Il miracolo dell’adesione della gente di campagna e montagna, misera e spoliticizzata, alla Resistenza fu dunque un lento processo, che partiva però da una base di simpatia umana, di solidarietà e di spirito di indipendenza che caratterizzava quella gente. E poi furono importanti anche le zone libere controllate dai partigiani per alcuni periodi: Sesta Godano, dove uno dei fratelli di Tino, Carlo, fu “comandante della Guardia Civica”, Varese Ligure ma anche Rocchetta, Brugnato e Calice. Zone in cui si sperimentava la democrazia, la discussione di tutti, il controllo dei prezzi, in qualche caso l’organizzazione delle giurie popolari. La sede del comando della IV Zona operativa, non a caso, fu sempre da quelle parti: in particolare a Porciorasco di Varese Ligure, nel palazzo della famiglia Gotelli. Varese Ligure era il centro nevralgico dell’organizzazione militare, la “Cento Croci” aveva il comando in piazza Marconi: Camillo del Maestro in “Cento Croci per la Resistenza” racconta che probabilmente passarono per Varese i tre comandanti Enrico Mattei, Ferruccio Parri e Luigi Longo, i capi della guerriglia dell’Alta Italia, ospiti a cena di “Richetto”, poi sistemati nel vicino albergo delle poste.
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TINO ACERBI E LA MEDAGLIA DI “SALVATORE”
Tino Acerbi mi racconta come la Resistenza spezzina nacque proprio in Val di Vara: “Il primo atto di insubordinazione ci fu a Torpiana di Zignago, quando i carabinieri andarono in giro a cercare i renitenti al bando della Repubblica di Salò”. Tino fu chiamato il 23 novembre 1943, non si presentò e si rifugiò presso parenti nello zerasco, fu salvato da un cugino carabiniere e si nascose nei sotterranei del seminario di Pontremoli, vestito da prete e con una carta d’identità da seminarista. Un giorno la X Mas repubblichina occupò il seminario alla ricerca di un ribelle, lui scappò alla mattina in tonaca nera incamminandosi a piedi verso Zeri, e ci arrivò grazie a una brigata nera che fermò l’auto e gli disse: “Reverendo, vuole un passaggio?”. Ai monti, indirizzato dai pontremolesi, trovò Franco Coni, e da allora fu sempre con lui. La banda faceva capo a Giustizia e Libertà. Tino conobbe l’eroe Piero Borrotzu, e racconta nel dettaglio il suo sacrificio (si veda, in questa rubrica, “Il tenente Piero e le filandine Elvira e Dora”, 4 maggio 2014). Il comandante era Vero Del Carpio “Il Boia”, Tino stava con Franco Coni alle pendici del monte Picchiara: “Mangiavamo polenta di castagna, eravamo alcune decine, facemmo i primi assalti a caserme e magazzini nello zerasco e a Sesta Godano, dove fummo per qualche tempo padroni del paese, già nel giugno del ‘44”. Tino conobbe Dante Castellucci “Facio”, la cui banda, il Battaglione “Picelli”, operava nella stessa zona: “Eravamo attendati sul monte Picchiara, in più di 600, con tende di tutti i colori, ad aspettare gli aviolanci degli Alleati… ricordo bene l’episodio del lancio, la critica a Facio, lui andò da solo, volle andare da solo all’appuntamento con la morte”. Era il luglio ’44: un momento tragico, “che turbò molto tutto il mondo della Resistenza”. Poi venne il duro agosto del rastrellamento: “C’era troppa disorganizzazione, con il mio gruppo andai prima al passo del Rastrello, poi sul monte Picchiara, dove c’erano i tedeschi, scappammo, un gruppo andò verso Sesta, furono uccisi, io e altri ci salvammo perché andammo nel bosco di Antessio, poi sul Gottero e al passo delle Cento Croci, dove trovammo “Richetto”… combattemmo con lui sul monte Scassella, nel rastrellamento di agosto l’unica resistenza la fecero “Richetto” e Daniele Bucchioni a Calice, tutto il resto sbandò”. “Richetto” gli chiese di entrare nella “Cento Croci”, ma Tino, nonostante la vicinanza di orientamento politico -erano entrambi cattolici- preferì restare con “Franco”, perché più vicino alla sua Sesta. “Richetto”, dice, “aveva grandi doti di comando, era un militare molto coraggioso… abbiamo fatto azioni insieme, ci vedevamo all’albergo Alpino”. A settembre Tino è ancora con “Franco” nella neonata Brigata “Matteotti”, organizzata dal Partito socialista, operante nelle alture di Sesta Godano. La cattura di tre alpini della “Monterosa” (11 settembre ’44) rischiò di provocare una rappresaglia nel paese, evitata solo perché i partigiani liberarono i prigionieri. Episodi analoghi si verificarono nei mesi successivi. Tino ricorda: “Un alpino mi disse ‘con voi non ci sto, non sono d’accordo con voi, piuttosto fucilatemi’, io lo liberai… altri passarono con noi, altri ancora erano delle vere e proprie belve”. Il momento più drammatico fu l’11 novembre ’44: i tedeschi assaltarono Scogna, qualcuno di un’altra brigata si sganciò, Tino e il suo gruppo rimasero e respinsero i tedeschi. Lui fu ferito a una gamba, un amico a una tempia, un ragazzo di Sesta fu ucciso da una pallottola in fronte. I tedeschi in fuga incendiarono Scogna, lui stava aiutando una donna a spegnere il fuoco quando arrivò “Salvatore” (Antonio Cabrelli, allora commissario politico della I Divisione “Liguria”, il principale responsabile della morte di Facio), che gli disse: “Ti sei comportato bene, ti proporrò per una medaglia”. Lui gli rispose, con il fuoco attaccato alle scarpe e la gamba sanguinante: “Attaccatela al c…, dovevate arrivare prima!”. Poi l’altro dramma, il 20 gennaio ’45: “la battaglia del Gottero fu un rastrellamento terribile, anche per il freddo, non ho mai visto così tanta neve… eravamo sul Gottero, molti andarono verso il passo dei Due Santi, e rimasero congelati… io scesi a Sesta di notte… ci sganciammo e ci salvammo perché conoscevamo pietra su pietra… i tedeschi avevano occupato casa mia, riuscii a nascondermi nel rifugio costruito sotto l’orto di casa, con me c’era l’altro mio fratello Lino, seminarista (poi diventò vescovo, NdR)”. Quando i tedeschi abbandonarono la casa i ribelli salirono in cucina per farsi una minestra, tra la disperazione della madre impaurita… Sentirono bussare al portone, buttarono la minestra nel gabinetto senza nemmeno assaggiarla e scapparono di nuovo, anche se poi si accorsero che non erano i tedeschi… Nel frattempo Coni aveva litigato con la “Matteotti”, e costituì la “Compagnia Arditi” con sede a Rossano di Zeri, a fianco del “Battaglione Internazionale” di Gordon Lett, sempre sotto il comando della IV Zona. Tino lo seguì: “nell’ultima fase sbarcò a Rossano una formazione di paracadutisti inglesi, ogni giorno, anche in azione, si facevano il tè alle cinque!”. In quei mesi Tino, a forza di dormire al freddo, si prese una bronchite. Umberto Capiferri (poi celebre medico spezzino, NdR), allora con Lett, gli disse di andare a casa a curarsi: la madre andò subito a fare un giro in paese per controllare che non ci fossero tedeschi, e gli preparò sapone e pennello perché si tagliasse la lunga barba, che l’avrebbe fatto subito riconoscere come partigiano. Ma lui non si sbarbò: “ancora adesso ho il rimorso per il dolore che le diedi”. Poi, finalmente, la Liberazione. L’ordine del comando della IV Zona era di concentrarsi a Riccò: “ma noi eravamo un po’ anarchici, avevamo uno di Riomaggiore e siamo andati lì e poi a Spezia tramite la galleria ferroviaria, allagata nell’ultimo tratto… siamo entrati in città per primi, eravamo un centinaio… in Corso Cavour la gente ci salutava dalle finestre… poi arrivarono tutti gli altri partigiani e sfilammo assieme”.
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PAOLO ACERBI E LA “TANA DEL TASSO”
Tino aveva quattro fratelli, il più piccolo, Paolo, non aveva l’età per fare il partigiano. Ma aveva già sedici anni, e ha raccontato quei giorni nel libro “Dalle terre di Godano”, che dà bene il senso della partecipazione della gente della Val di Vara alla Resistenza. Significativo, per esempio, è il racconto del rastrellamento del 20 gennaio ’45. Paolo, il fratello Carlo, altri ragazzi e lo zio prete, parroco di Rio di Sesta Godano, si rifugiarono per molti giorni nella “tana del tasso”, in uno dei contrafforti del Gottero. Una mattina sentirono un rumore soffocato, che aggiunse brividi di paura a quelli già serpeggianti per il freddo e la fame. Poi una voce vicino all’ingresso: “Non spaventatevi, sono u Bertu, u Bertu de Canà”.
Aveva portato la pattona. Berto abitava con la moglie e i due figli in una casa vicina, nel bosco. Così lo descrive Paolo: “Berto viveva del suo, più dei boschi (per la legna e le castagne) che della terra. Una vita dura e stenta ma che non gli aveva indurito il cuore se, senza neanche essere certo che il rifugio fosse abitato, si era mosso nel freddo, con la neve e tra i pericoli, per portare soccorso a chi neanche sapeva. Se ne andò silenzioso, come era venuto, assicurando di aver fatto in modo che le impronte volgessero in altra direzione, cancellando quelle verso la grotta. Era un solitario, di poche parole, lento nel gestire, giudicato non sempre benevolmente perché poco socievole e scontroso. Dicevamo che metteva trappole per gli animali, che pescava di frodo e andava a caccia nei periodi non ammessi; che per qualche taglio di piante si dimenticava dei suoi esatti confini. Si rivelò un uomo di cuore”. Senza migliaia di gesti come quello di Berto il sogno dell’Italia libera non si sarebbe mai realizzato.
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LE DUE BRIGATE “CENTO CROCI” E LA MORTE DI “NINO”
La Resistenza nacque in Val di Vara non solo, come ci ricorda Tino, grazie ai giellini a Torpiana, ma anche grazie ai fratelli Cacchioli, borgotaresi, appartenenti a una famiglia di emigrati in Inghilterra, che già nel febbraio ’44 fecero un’azione a Sesta: è il gruppo “Beretta”, del quale facevano parte anche alcuni spezzini, in particolare comunisti, inviati dal partito e dal Cln. Subito dopo si costituì il gruppo di “Richetto”, che aveva raccolto adesioni di giovani del valtarese e del “varesotto”. Il 4 marzo ’44 i due gruppi si fusero nella Brigata “Cento Croci”: Gino Cacchioli (“Beretta”) ne divenne il comandante, “Richetto” il vice, Aldo Costi “Lo Zio”, vecchio antifascista comunista, il commissario. Nel ’44 i Cacchioli si spostarono e “Richetto” diventò comandante, con Terzo Ballani “Benedetto”, altro comunista sperimentato, commissario. Il 4-5 agosto ’44 la “Cento Croci”, come ricorda Tino che combatté con loro in quei giorni, salvò dall’accerchiamento l’intera IV Zona operativa sconfiggendo i tedeschi sul monte Scassella. La formazione si ingrossava: ma fin dall’inizio, scrive Giulivo Ricci in “La Brigata Garibaldina Cento Croci”, “cominciano a proporsi gli elementi di una situazione sentimentalmente e politicamente complessa, la cui contraddittorietà rimase come ovattata per l’urgere di problemi pratici da risolvere”: da un lato uomini moderati, vicini alla Democrazia Cristiana e ai liberali, come i Cacchioli, o caratterizzati dall’attivismo militare come “Richetto”, dall’altro gli spezzini, i comunisti Ballani e Costi, e poi Mario Bonamini, Flavio Maggiani, Marco Perpiglia (venuto a Spezia dalla Calabria), Cesare Storietti, Adriano Vergassola. L’equilibrio precipitò con il rastrellamento del gennaio ’45. La Brigata “Coduri”, che pur operando in territorio spezzino apparteneva alla VI Zona operativa, quella dell’entroterra di Genova, si defilò verso Chiavari, e la “Cento Croci” fu messa in difficoltà. Al che si aggiunsero errori della stessa “Cento Croci”. Il ripiegamento e la salita al Gottero furono terribili, a 15-20 gradi sottozero alla notte, come ci racconta il prete partigiano don Luigi Canessa in “La strada era tortuosa”, e come ha raccontato ieri, all’iniziativa sulla “Battaglia del Gottero” al Centro Allende, Sergio Andreoni, che era con la “Cento Croci”. Al tramonto si vedeva Spezia, il mare. “Benedetto” lo mostrò a don Canessa: “Guardi, don Luigi, quanto è bello il mare, il nostro mare, ma il mare non è fatto per noi!”. Il prete fu colpito: tutti gli spezzini erano commossi, anche “Benedetto”, l’uomo indurito dal carcere e dal confino fascisti, che esprimeva con quelle parole un sentimento che era di tutti. Il 22 gennaio “Richetto” fu preso prigioniero, con “Benedetto” e altri: tutti vennero liberati con uno scambio di prigionieri, ma non “Richetto”, che però riuscì a fuggire. Tino, che gli fu vicino nel dopoguerra, mi dice: “Un tedesco gli si avvicinò e lo liberò”. In sua assenza, però, era stato eletto un nuovo comandante, il militare Alberto Perego “Wollodia”, non spezzino, ma a essi legato. Al ritorno, “Richetto” non accettò la nuova situazione e, con lui, una gran parte dei parmensi e dei valtaresi abbandonarono la IV Zona e aderirono al comando parmense. Certamente la sostituzione di “Richetto” con “Wollodia”, e non con il vicecomandante legato a “Richetto”, appare oggi come un atto non condivisibile. Eppure, come emerge dai documenti, il Cln spezzino non ebbe incertezze. Possiamo solo immaginare il grande travaglio di quei tempi durissimi. Ormai la scelta di combattere in due diverse “Cento Croci” era ineluttabile. Ma nessuno tradì il proprio impegno: e oggi dobbiamo rendere onore sia alla “Cento Croci” di “Richetto”, che contribuì alla liberazione di Parma, sia alla “Cento Croci” garibaldina, che partecipò alla liberazione di Spezia. Come si decise di fare nel gennaio 1971, costituendo proprio a Varese Ligure il Comitato Provinciale Unitario della Resistenza, alla presenza dei dirigenti nazionali di tutte le associazioni partigiane. L’amicizia che mi ha legato a tanti partigiani della “Cento Croci” garibaldina, da Varese Antoni a Bruno Brizzi, l’affetto per i partigiani spezzini che liberarono la mia città, il pensiero che va alle parole di “Benedetto” quando rivide il mare alla Foce il 25 aprile (“sulla cima del Gottero pensai che non avrei più riveduto il mare, finalmente lo rivediamo insieme alla nostra città”) non mi impedisce certo di ammirare la grandezza di “Richetto” e dei suoi, anzi: furono tutti grandi protagonisti della lotta per la libertà. Furono proprio gli uomini della “Cento Croci” parmense ad arrestare, il 29 aprile, il fascista spezzino più sadico e crudele, Aurelio Gallo. Colpisce inoltre, nella vita di “Richetto”, il rigore del militare: volle tornare a fare il carabiniere, ma le gerarchie gli negarono ogni avanzamento; lui lasciò l’arma a malincuore, fece il commerciante di legname, e conobbe anche difficoltà. Non fece mai, a differenza di alcuni suoi uomini, la scelta dell’impegno politico nella Dc. In comune le due brigate non hanno solo il nome. Hanno tante battaglie, quella del monte Scassella in primo luogo. E hanno un eroe a cui entrambe fanno riferimento: Antonio Siligato “Nino”, marinaio siciliano, dopo l’8 settembre ospite della famiglia Brizzi a Stra, poi partigiano già con la “Beretta”, autore di tante azioni coraggiosissime, per questo chiamato da Gordon Lett per una missione in Lunigiana per ritardare il rastrellamento di gennaio. L’azione ebbe successo ma, sulla via del ritorno, il 20 gennaio ’45, “Nino” fu ucciso dai nazifascisti a Codolo di Pontremoli. Cadde da eroe, verrà decorato con la Medaglia d’Oro. I suoi compagni scrissero così della sua fine: “Nino Siligato, il più famoso, il più bello, il più generoso, il più caratteristico partigiano della Cento Croci non era più! Era morto per difendere la vita dei compagni, era morto dopo dodici mesi di durissima lotta contro gli oppressori della sua Patria; sulla neve di Codolo come sul ponte di una nave…”.
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