Elezioni in Liguria, che cosa ci insegna l’Emilia
Città della Spezia, 30 novembre 2014 – L’astensionismo in Emilia non è un dato secondario, come dice Renzi, ma drammatico, perché evidenzia quanto sia grave la crisi della democrazia rappresentativa. Lo stesso Pd non può rallegrarsi: è vero, ha doppiato gli avversari, ma ha preso 500.000 voti, 700.000 in meno rispetto alle europee di maggio!
E’ stato un brutto giorno per la democrazia italiana, che potrebbe ripetersi tra qualche mese in Liguria. Per evitarlo ne vanno comprese le cause. Alcune vengono da lontano: la crisi dei partiti, che hanno smesso di fare i partiti e di rappresentare parti di società per trasformarsi in comitati elettorali di questo o quell’oligarca; e la crisi delle Regioni, che hanno smesso di fare le Regioni, svilendo il loro ruolo programmatorio e legislativo, per diventare strumenti spesso utili solo ai famigli e ai clientes. Cause che richiedono rimedi radicali, di media-lunga durata. Ci sono poi cause più ravvicinate, come la rottura del Pd con il mondo del lavoro, che ha allontanato dal voto larga parte dei ceti popolari.
Un fenomeno che potrebbe accadere anche in Liguria. Un’altra causa del risultato emiliano è la crisi del modello di sviluppo e del modo di governare la regione, un fenomeno che riguarda, in forme diverse, anche la Liguria. In Emilia, come in Liguria, l’esercizio del potere ha condotto alla sclerotizzazione di alcuni meccanismi, con la conseguente creazione di clientelismi e privilegi: le indagini giudiziarie su tanti consiglieri e assessori sono state soltanto la punta dell’iceberg. Ancora: in Emilia, come in Liguria, il decantato pragmatismo si è involuto fino a diventare prassi di mediazione, spesso al ribasso, su questioni fondamentali come l’assetto del territorio, dove non si è saputo porre un limite all’espansione cementificatrice.
Il distacco dei cittadini, innanzitutto progressisti e di sinistra, dalla politica si può superare solo se, prima alle primarie, poi alle elezioni, si presenta una proposta di svolta netta. Così non è stato in Emilia. Così può essere invece in Liguria, per le caratteristiche assunte dalla candidatura di Sergio Cofferati. Se vige l’omologazione i cittadini non partecipano. La democrazia, al contrario, si rinvigorisce se ci sono proposte tra loro alternative. Cofferati rappresenta di per sé, senza nemmeno bisogno che lui ne parli, un’alternativa alle politiche di Renzi sul lavoro; ma rappresenta anche e soprattutto, come ha ribadito nel suo intervento a Genova alla sala Sivori, un’alternativa al sistema che ha governato la Liguria in questi anni. La situazione politica ligure sta diventando, in questo modo, appassionante: nulla a che fare con la melassa senza alternative che c’era in Emilia.
La svolta deve avvenire soprattutto sull’ambiente. E deve basarsi non solo su un’opera fondamentale come lo scolmatore sul Bisagno, che nei giorni scorsi è stata finalmente finanziata, ma su un complesso di obbiettivi, che ho già richiamato in questa rubrica (“Liguria, usciamo dal fango”, 16 novembre 2014). Insisto sui due obbiettivi chiave:
1) Un “grande cantiere di manutenzione e di prevenzione del territorio, che non può non fare leva sul ripristino delle pratiche agricole e anche su molteplici produzioni di qualità che hanno diverse ma sicure potenzialità economiche” (Massimo Quaini, Il Secolo XIX). Per le risorse, anche se finora la Regione ci ha pensato assai poco, sono fondamentali i fondi europei 2014-2020.
2) Un Piano Territoriale Regionale che contrasti il consumo di suolo. Cito Erasmo D’Angelis, il capo della struttura di missione contro il dissesto idrogeologico del Governo: “La prima prevenzione è dire stop al consumo di suolo: si può votare entro l’anno il disegno di legge ma le Regioni possono anticiparlo, fotocopiando la legge della Toscana” (la Repubblica). Aggiungo che in tutte le aree definite esondabili dai Piani di bacino (non solo quelle rosse) occorrerebbe vietare la costruzione di impianti a forte polarizzazione di utenza, dalle scuole agli stadi, dalle caserme ai centri commerciali.
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