Lavoro, cercare strade nuove
Città della Spezia – 2 marzo 2014 – Il dramma del lavoro non si ferma, anzi il 2013 è stato l’anno peggiore dallo scoppio della crisi. Negli ultimi dodici mesi quasi mezzo milione di posti sono andati perduti, e l’esercito dei disoccupati ha raggiunto quota 3 milioni e 300 mila, una cifra raddoppiata dal 2007. Il tasso di disoccupazione sfiora il 13% e tra i giovani arriva al 42,3%. La Liguria e Spezia, come sappiamo, sono dentro questa emergenza fino al collo: basti citare i dati sulla crisi dell’artigianato pubblicati nei giorni scorsi.
Per uscire dal dramma serve un ripensamento radicale. Perché quando disoccupazione, diseguaglianza e povertà esplodono come mai prima d’ora e azzerano diritti sociali e di libertà e prospettive di vita, si impone alla politica un atto che giunga alla radice della politica stessa. Un pensiero nuovo, ancora prima delle singole “politiche”, che sia alternativo a quello del neoliberismo del rigore e dell’austerity, che ci ha portato nel baratro. Che dia il senso di un’altra Italia e di un’altra Europa.
Per costruire questo pensiero nuovo è da tempo in campo una tesi, che condivido ma che non considero sufficiente. Questa tesi sostiene che l’Italia ha scelto, negli scorsi decenni, di seguire una strada verso lo sviluppo diversa da quelle di tutti gli altri Paesi di antica (e anche nuova) industrializzazione: un modello di sviluppo senza ricerca, senza conoscenza. Dopo la transizione dalla società agricola a quella industriale, non c’è stata la transizione dalla società industriale a quella della conoscenza, e ci siamo ritagliati una nicchia isolata nell’ambito dei prodotti a bassa innovazione tecnologica. Ma, ecco il punto, nell’era della nuova globalizzazione non c’è più posto per la vecchia specializzazione produttiva dell’Italia. E quindi, conclude questa tesi, per evitare il declino dobbiamo produrre beni diversi, ad alto valore tecnologico aggiunto. Centrali diventano allora i luoghi di produzione di nuova conoscenza, per avere prodotti hi tech. Ripeto, condivido a pieno. Il ripiegamento del nostro capitalismo ha impedito al nostro Paese l’aggancio con la globalizzazione: le classi dirigenti sono ricadute nel vizio dell’8 settembre, abbandonando l’Italia a se stessa per salvare i propri interessi, senza preoccuparsi del futuro. Basti pensare a cosa sono state le privatizzazioni: la sostituzione dei monopoli pubblici con quelli privati. Oggi, quindi, ci serve un potente investimento in ricerca e conoscenza, che contrasti lo smantellamento in atto in questi settori. Non ho dubbi. Se, per fare un esempio, ho lavorato caparbiamente per l’Università spezzina, è perché sono sempre stato guidato da questa tesi. E tuttavia: per i prodotti ad alto valore aggiunto occorre non solo rivalutare la formazione e la ricerca, occorre anche trovare un mercato, che è per lo più già occupato da qualcun altro. Ce la può fare la Fiat, giunta a questo punto, a sottrarre quote di mercato di fascia alta a Mercedes, Bmw o Audi? E potrei fare tante altre domande analoghe.
Alla prima tesi, allora, occorre intrecciarne un’altra. Questa seconda tesi sostiene che c’è un ambito in cui l’Italia (e l’Europa) mantengono ancora qualche vantaggio competitivo, anche se anch’esso in via di smantellamento, sempre per via delle teorie neoliberiste che riducono tutto a denaro: quest’ambito è la complessità sociale, l’abitudine alla vita associata, la socialità, la tradizione del patrimonio culturale. Ecco, quindi, l’intreccio di cui c’è bisogno: considerare l’innovazione non solo una questione di tecnologie ma anche di creatività sociale, concepirla cioè come un vettore composto sia dal salto cognitivo (le tecnologie) sia dalla qualità della cittadinanza (la solidarietà). Rimando, su questo, a “Tecnologia e solidarietà per ripartire” (La Repubblica – Il Lavoro, 24 novembre 2011, ora in www.associazioneculturalemediterraneo.com) e, in questa rubrica, a “Qualche proposta per l’economia provinciale”, 26 agosto 2013. L’intreccio di queste due tesi conduce a un’altra agenda, a mio parere più convincente, per uscire dalla crisi: mobilità sostenibile, recupero urbanistico, valorizzazione del territorio, riconversione ecologica degli edifici, energie rinnovabili, recupero e valorizzazione dei rifiuti, agricoltura di qualità e industria alimentare a chilometro zero, comunicazione digitale, turismo responsabile, cura delle persone, cultura, formazione e ricerca. L’agenda di un’economia sostenibile e solidale, di una cultura economica di comunità, basata sulla coesione sociale, sul radicamento territoriale, sulla forza produttiva del legame sociale. L’agenda di un nuovo modello di sviluppo basato su un cambiamento della specializzazione produttiva in settori sia ad alta intensità di ricerca sia a maggiore sostenibilità e socialità: ecco l’intreccio delle due tesi, che può condurre a quel ripensamento radicale di cui parlavo all’inizio.
E’ dentro questa nuova cornice di pensiero che va collocata la ricerca “I fabbisogni formativi e informativi della rete di economia solidale della Spezia”, curata dall’ISSIRFA CNR in partenariato con Solidarius Italia, Consorzio Il Cigno e Associazione Culturale Mediterraneo, presentata nei giorni scorsi. La ricerca è una miniera di indicazioni e proposte, ma innanzitutto di conoscenza di una realtà che in gran parte sfugge alle associazioni di categoria e alle istituzioni: una pluralità di reti, non sempre connesse tra loro, nei settori dell’agricoltura, del territorio e del paesaggio, ma anche del turismo, dell’artigianato e del welfare. Reti che hanno tre tratti comuni: l’importanza delle relazioni tra le persone, la logica del dono in luogo di quella dello scambio, il riconoscersi nel “bene comune” dell’ambiente. Esperienze che esprimono bisogni formativi e informativi, dal campo relazionale e manageriale a quello delle competenze informatiche e linguistiche, dal campo delle competenze agronomiche e di valorizzazione, vendita e trasformazione dei prodotti agricoli a quello della conoscenza degli aspetti normativi e burocratici e della capacità di intercettare finanziamenti nazionali ed europei. Bisogni non di una formazione qualsiasi, ma di una formazione finalizzata a un nuovo sviluppo locale, che richiede nei formatori competenze capaci di mettersi in gioco, di condividere gli stessi principi dei protagonisti di questa nuova economia e di sperimentare forme innovative, che sappiano rispondere alla particolarità, anche etica, della domanda formativa. Sono strade nuove, ma ormai non più di tanto: si pensi al programma europeo Horizon 2020, presente nella programmazione dei fondi 2014-2020, che persegue innovazioni che corrispondano alla logica delle tre sostenibilità, economica, ambientale e sociale.
Ciò che irrompe sullo sfondo è dunque una realtà magmatica e disordinata. Il problema, ora, appartiene alla politica, alle istituzioni, alle organizzazioni sociali, che insieme alle persone impegnate in questa realtà dovrebbero cercare di cogliere la nuova configurazione sociale, economica e culturale emergente. Cominciando dalla risposta ai bisogni formativi e informativi, che è la condizione per incentivare e sostenere nuove esperienze sul piano delle microimprese, del lavoro associato e di quello cooperativo. Queste strade nuove vanno esplorate: il lavoro del futuro sarà soprattutto questo. Certo, l’ortodossia neoliberista è estranea a tutto ciò, al paese reale. Semplicemente non lo capisce. Un giorno sarà chiaro che la forzata applicazione dell’egemonia anglosassone ha contribuito enormemente a deprimere le energie creative del nostro Paese. Piantiamola di guardare a Margaret Thatcher e a Tony Blair: l’agenda economica neoliberista garantisce il dieci per cento più ricco del Paese, ma non gli italiani senza lavoro (uno su sei) e quelli che il lavoro ce l’hanno, ma precario (uno su quattro). Il saper fare italiano non si esprime nell’individualismo sgomitante ma nelle nervature sociali della nostra civiltà. Non nell’economia dell’io ma nell’economia del noi.
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