Il federalismo va fatto, ma ci dicano quanto costa
Il Secolo XIX – 11 marzo 2009 – La crisi finanziaria ed economica ha provocato una reazione istintiva, tipica dei momenti di sconquasso inatteso: la spinta verso il centralismo, la richiesta alle autorità sopranazionali e ai governi di risolvere i problemi delle imprese in difficoltà. Tutto ciò è indispensabile, ma conviene interrogarsi, come ha fatto il Censis nel recente forum “L’Italia dei territori”, se non sia un errore non fare riferimento anche al modo in cui la realtà locale vive e contrasta la crisi. Il localismo, sia pure virtuoso e non egoista, non può bastare per superare la grande turbolenza che stiamo attraversando. Ma ne abbiamo bisogno, scrive il presidente del Censis Giuseppe De Rita, perché “non abbiamo da anni uno sviluppo e un sistema di vertice, ma uno sviluppo molecolare, a tanti soggetti, e siamo, quindi, un sistema articolato e complesso”. Nel territorio risiede uno dei fattori dell’ultima vincente trasformazione nazionale, la modernizzazione industriale degli anni ’60 e ’70. Ed oggi, sostiene il sociologo Aldo Bonomi, “ci si sfida non solo e non tanto attraverso le imprese quanto attraverso i territori e la loro capacità di essere competitivi”. E’ finita la fase del disordine creativo, scrive Bonomi: ” adesso è il momento dell’organizzazione e del fare piani”. L’economia è diventata sempre più relazionale e l’innovazione una costruzione sociale, che dipende sempre meno dalle singole imprese e sempre più dalla capacità del territorio di offrire un ambiente favorevole, beni collettivi come la cultura, l’università e i sistemi bancari e finanziari, e una visione d’insieme condivisa, come quella costruita con i piani strategici.
Al forum il Censis ha presentato la mappa dell’Italia che tira: 161 comprensori di eccellenza, cioè la più compiuta evoluzione dei distretti e dei sistemi locali, che, pur non essendo al riparo dalla crisi, sono in grado di guidare la reazione per superarla. 71 sono i territori produttivi industriali (tra cui, in posizione di coda, lo spezzino), 65 le aree dell’accoglienza e del turismo (Portofino e Cinque Terre in testa), 25 i poli dell’innovazione, con la Liguria unica assente tra le regioni del nord. Questi territori rappresentano un’evoluzione del localismo, perché sono aree vaste, con un’organizzazione efficiente, una cultura collettiva orientata agli interessi generali, un’apertura alle relazioni globali, una bassa conflittualità tra i soggetti guida, leader in grado di coinvolgere. I territori più forti, “le aristocrazie”, come le chiama il Censis, sono quelle caratterizzate dalla multisettorialità dell’economia: industria tecnologica, turismo, ambiente.
Quest’ultima indicazione, che spinge all’”economia della varietà”, è preziosa per la Liguria. Se ne è discusso sul Secolo XIX in queste settimane. Se non vogliamo diventare quella “regione condannata a vivacchiare” temuta da Alessandro Cassinis dobbiamo rilanciare l’industria tecnologica, “un motore capace ancora di buone accelerazioni”, e quindi dire stop ad ogni speculazione immobiliare sulle aree; e fare leva su un patrimonio culturale e naturale unico, e quindi dire stop al consumo indiscriminato di territorio. Queste due vocazioni di eccellenza sono collegate, come ha notato Carlo Beltrametti, ai bisogni di una società che, come quella ligure, invecchia: si pensi al settore biomedicale per innovare i servizi sanitari o alla robotica per migliorare l’assistenza ai non autosufficienti, e al fatto che gli anziani sono sempre più consumatori evoluti di beni culturali e ambientali. E probabilmente hanno ragione sia Claudio Burlando, quando scrive che ”il mutamento che oggi è necessario costruire è in parte già emerso”, sia Carlo Castellano quando pone la necessità di una maggiore “capacità di lavorare assieme per obbiettivi comuni e di fare sistema”.
La voglia di non “vivacchiare” e di rilanciare deve essere la scelta dei liguri. Va affiancata , a livello nazionale, da una politica di promozione e sostegno di quelle spinte del localismo virtuoso che sono, come da noi, già in essere. Non ripetiamo le ambizioni centralistiche, c’è bisogno del federalismo. Ma il federalismo non deve essere uno slogan per la campagna elettorale. Bisogna realizzarlo perché l’Italia dei territori possa ripartire e uscire dalla crisi, ma nello stesso tempo bisogna sapere quello che non si è mai saputo, cioè quanto costa. Sarà possibile attuare il federalismo negli anni di crisi che ci attendono? E’ un problema complesso, che va finalmente affrontato. Come diceva Thomas Mann, “le difficoltà sono spesso formidabili occasioni”. E le occasioni oggi certo non mancano.
Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche).
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