Franceschini ovvero la futura sinistra riformista
Il Secolo XIX – 23 marzo 2009 – Dario Franceschini è stato eletto segretario del Pd il 20 febbraio, da un’assemblea di 1200 persone su 2800: una classe dirigente piegata dalle sue tante sconfitte, appesantita dalla consapevolezza della propria precarietà, cioè del limite della durata del proprio potere. Pochi giorni dopo i sondaggi segnalavano ciò che nel Paese era chiaro da tempo: un partito sceso al 22%, con 10 punti in percentuale in meno. Elettori passati a Di Pietro o alle sinistre, ma soprattutto astensionisti, sfiduciati, senza alternative. Ilvo Diamanti li ha definiti “gli ex-voto del Pd esuli in Italia”.
A un mese di distanza il Pd ha iniziato, pur tra tante difficoltà, un cammino nuovo. Si sta “riposizionando” di fronte alla realtà della grande crisi, gettandosi con slancio su questioni identitarie: la Costituzione, la laicità, la lotta alle disuguaglianze e la valorizzazione del lavoro. Franceschini ha iniziato il suo mandato con proposte semplici, concrete, nette. Che fanno discutere il Paese e si impongono all’attenzione del Governo, mettendolo spesso in difficoltà. E i sondaggi lo registrano: cresce la fiducia nel Pd e Franceschini piace al 76% del suo elettorato, mentre il 48% della popolazione lo giudica già un vero leader.
Il Pd non imploderà e avrà una funzione nella storia nazionale solo se riuscirà a definire che cosa deve essere il riformismo italiano oggi, come deve affrontare il tema delle ingiustizie del nostro tempo e quello del ruolo dell’Italia nel mondo totalmente diverso che emergerà dalla grande crisi: cioè se si darà un’identità. Ho sempre pensato, e scritto, che il Pd sia nato male, e cresciuto peggio: il suo deficit è stato certamente di leadership, ma a monte è stato ed è politico e prima ancora culturale. I nodi più spinosi sono stati accantonati, in una sorta di ecumenismo molle, privo di baricentro sociale e valoriale. Ma un grande partito che rivendica per sé una funzione storica può esistere solo se ha un’identità. Si guardi alla forza del messaggio riformista di Obama, che sta nella proposta di un modello economico-sociale alternativo a quello neoliberista, con chiari contenuti identitari. Il suo profilo programmatico è chiaro perché sono chiari la sua piattaforma valoriale e la sua struttura ideale.
L’intervista di Franceschini a Edmondo Berselli sull’Espresso va nella stessa direzione: “Il riformismo ha avuto il torto di proporre solo correttivi timidi. Io dico adesso che la crisi offre possibilità ingenti, in primo luogo per riscrivere la gerarchia di valori…il nostro disegno generale non è timido, deve rovesciare l’idea che la società è costretta ad accettare le disuguaglianze esasperate…siamo alla rottura di una fase, dobbiamo proporre un mondo in cui la società è più forte del mercato, e la regola non è soltanto quella del profitto”. Non è poco per un partito che fino a pochi mesi fa aveva come principio portante del suo programma l’idea che la giustizia seguisse naturalmente la deregolamentazione.
Certo, il centrosinistra deve risalire una china difficile. Riconquistare il suo blocco sociale di riferimento e riusare parole antiche come giustizia sociale, democrazia, operai. E insieme ( non “ma anche”!) rivolgersi ai ceti più lontani adoperando parole nuove, non in contraddizione ma compenetrate con quelle antiche, come merito e riduzione della spesa pubblica. Le difficoltà del Paese sono destinate ad aumentare: l’Italia è l’unico, tra i Paesi europei, a registrare la perdita di un punto del Pil. E il Governo non se la vedrà bene se l’opposizione identificherà, dentro un nuovo sistema di idee, poche e chiare questioni fondamentali su cui dare battaglia. Come, con Franceschini, ha cominciato a fare.
Il successo si misurerà ad urne chiuse. Poi, in ogni caso, bisognerà andare avanti su questa linea, dandole il respiro, la coerenza e l’autorevolezza che ora non può avere. Andrà finalmente aperto un confronto limpido e combattuto: solo così potrà avvenire il ricambio del gruppo dirigente, cioè attraverso una lotta politica sulle scelte da fare, su quale riformismo e non su quale assetto di potere interno. Walter Veltroni è stato l’ultimo sussulto possibile della storia dei gruppi dirigenti ristretti Ds-Margherita. Una storia che ha esaurito la sua spinta propulsiva. Siamo già oltre, e bisogna andare ancora oltre. Aprendo a persone che non vengono dai due vecchi partiti e mettendo alla prova giovani liberi di pensare, che non siano già giovani cacicchi che vogliono il potere senza dire per quale politica, ma solo, come scrive Gustavo Zagrebelsky, ”come fine, puro potere per il potere”. Franceschini potrebbe essere capace, più di altri, di aprire la fase del confronto vero e delle scelte chiare: per la costruzione di un grande partito della sinistra riformista, e non di un partito a prevalenza centrista, e per il ricambio, attraverso la lotta politica e ideale e non la guerriglia per il potere, del gruppo dirigente. Barbara Spinelli ha giustamente ricordato Mitterrand: anche la Sfio era un accumulo di clan ma lui la trasformò in un grande partito. Con un progetto riformista che parlò al Paese e si misurò con l’avversario, non con questo o quel clan. La sfida del Pd è simile, ed è dunque una sfida di lunga lena. Ma solo così si costruiscono le forze politiche vere.
Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs ( Rete città strategiche).
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