Per uscire dalla crisi bisogna passare dall’Io al Noi
Città della Spezia – 30 Giugno 2013 – L’anno in corso sarà ricordato come uno dei peggiori per l’economia del nostro Paese. Ecco la drammatica radiografia economico-sociale fornita nei giorni scorsi dal Governatore della Banca d’Italia: “La recessione sta segnando profondamente il potenziale produttivo e rischia di ripercuotersi sulla coesione sociale. Il Pil del 2012 è stato inferiore del 7% a quello del 2007, il reddito disponibile delle famiglie di oltre il 9%, la produzione industriale di oltre un quarto. Le ore lavorate sono state il 5,5% in meno, la riduzione del numero di persone occupate superiore al mezzo milione. Il tasso di disoccupazione, pressoché raddoppiato rispetto al 2007 e pari all’11,5% lo scorso marzo, si è avvicinato al 40 tra i più giovani”. L’entità del disastro è ancora più chiara se si guarda al precariato diffuso, all’aumento della povertà o ai tagli alla ricerca che si riverberano nell’assenza di innovazione e producono una nuova emigrazione intellettuale il cui saldo è addirittura in attivo rispetto all’immigrazione. Una catastrofe che non ha impedito al 10% della popolazione di arricchirsi ulteriormente, attraverso la speculazione finanziaria, il circuito dell’illegalità, l’evasione fiscale. E a Spezia? La Camera di Commercio ha appena presentato alcuni dati: diminuiscono le imprese, aumentano i fallimenti, aumenta il tasso di disoccupazione al 10,8%, il reddito delle famiglie e il valore medio del patrimonio sono i più bassi della Liguria, e ben 10.152 famiglie vivono in condizioni di povertà.
Cosa possiamo fare per salvarci? Da qualche tempo non partecipavo ai convegni che si tengono periodicamente in città sulla materia. Ho fatto un’eccezione, giorni fa, per la Conferenza programmatica della Lega delle Cooperative: sia per amicizia e stima verso il neopresidente Paolo Garbini, sia perché forse dall’esperienza del mondo cooperativo può venire qualche risposta nuova. E’ una realtà rilevante: nella nostra provincia le cooperative sono 105, con oltre 2500 lavoratori e 9500 soci, senza calcolare i consumatori. Garbini ha giustamente insistito sul “valore della mutualità, che è la centralità della nostra missione: la difesa del lavoro e del reddito per il socio ma soprattutto la condivisione di un processo di produzione di valore per l’impresa”. Le cooperative nacquero da operai che, a un certo punto, decisero di mettersi insieme, di collaborare perché avevano capito che quella era l’unica maniera per non morire di fame. Per questa strada era ed è possibile arrivare a un “io” che si responsabilizza e trova nella cooperazione un “noi” in grado di soddisfare una parte dei suoi bisogni. Una comunità con la quale fare una parte del percorso, senza limiti alle peculiarità personali. Questi principi alla base del mutualismo sono validi ancora oggi, e fa bene il movimento cooperativo a riscoprirli e a riproporli, come equilibrio alto tra aspirazioni dell’io e salvaguardia degli interessi comuni. Perché la riscoperta del senso di comunità, della dimensione sociale, della condivisione ci serve per combattere la crisi.
Ascoltiamo il teologo cattolico Vito Mancuso: “La vera natura della crisi che stiamo vivendo, prima ancora che economica e finanziaria, è di tipo filosofico-spirituale. Dopo decenni di fede cieca nella liberà dell’io come motore della crescita, oggi l’Occidente comincia ad interrogarsi sui limiti di questo approccio… Il termine societas sta ad indicare un insieme di soci, ma noi abbiamo smesso da tempo di guardare all’interesse d’insieme. Cambiare in maniera netta non è certo facile, ma non abbiamo alternative”. Quindi la cooperazione e il mutualismo hanno molto da dirci. Così come l’economia solidale, intesa come approccio trasversale che tocca tutti i settori economici, i servizi e l’agricoltura in primis, e che mette al centro del proprio operare le persone, la qualità della vita, le relazioni sociali e l’ambiente (risultati molto interessanti stanno scaturendo dalla ricerca in corso sull’economia solidale nell’area spezzina, a cura di CNR, Solidarius Italia, Associazione Culturale Mediterraneo e Consorzio “Il Cigno”).
A una riflessione simile sono giunto dopo una chiacchierata con un altro amico, Francesco Cicillini, imprenditore, amministratore delegato di Elsel e consigliere di Elettronica Melara, società consortile attiva nell’elettronica e nell’elettromeccanica che aggrega Lunielettronik di Fivizzano, Celin di Follo e Elsel della Spezia. In tutto 48 milioni di fatturato e 160 dipendenti: merito di un’operazione che è davvero un “simbolo” della capacità di fare rete tra le imprese e di concentrare alcune funzioni per risparmiare sui costi e migliorare la qualità. Francesco è ben consapevole che l’impresa deve puntare sull’efficienza per la competizione nei mercati esteri, e non ha mancato di ricordarmi i problemi derivanti dalla burocrazia della macchina pubblica e dall’oppressione fiscale verso chi le tasse le paga. E tuttavia anche lui non ha dubbi: “Al di là di tutto, il vero problema è che manca una motivazione ideale: la politica deve soprattutto avere una visione di dove va il Paese nell’epoca della globalizzazione, e coinvolgerci”. Sembra di sentire il vecchio Alfredo Reichlin, che non smette di pensare al fatto che la nostra sinistra smarrita dovrebbe avere proprio questa funzione: “La crisi italiana non è solo una crisi economica. E’ di identità. E’ crisi della rappresentanza politica democratica. E’ il distacco della società civile dallo Stato. Non dobbiamo stupirci se il disprezzo della politica è arrivato a questo punto. E’ finita una storia, e anche la decadenza economica si spiega con ragioni geo-economiche e geo-politiche. L’Italia non sa più chi è. Non vede il suo futuro. In sostanza non ha una classe dirigente che sia in grado di pensare l’interesse generale e di dare al Paese una missione”.
Ecco l’enorme responsabilità della politica. Che deve ricominciare dal delineare un futuro per il Paese e un modello di società. Per me, uomo di sinistra, significa un modello più giusto, che parta dagli ultimi, dai ceti popolari, dal lavoro, dall’idea di eguaglianza. Un modello che passi dall’”io” al “noi”. E significa una politica economica trainata dagli investimenti pubblici, sulla base della lezione di John Maynard Keynes oggi seguita da Barack Obama. La ripresa americana dura ormai da tre anni e genera posti di lavoro a un ritmo medio di 200.000 assunzioni al mese. Obama non ha certo curato tutti i mali dell’America: resta l’eredità di diseguaglianze abnormi e di un gran numero di disoccupati giovani e sottoqualificati, nonché il peso temibile della lobby di Wall Street. Ma, come ci spiega ogni giorno Federico Rampini sulle pagine di Repubblica, l’America dimostra che divincolarsi dal pensiero unico neoliberista è il passaggio obbligato per iniziare a riparare l’enorme disastro sociale: “Obama ha aggiornato la lezione di Keynes: prima bisogna rilanciare la crescita, ad ogni costo (il “costo” di Obama: un deficit/Pil oltre il 10% durante il periodo più buio della recessione, 2009-2010). Quando l’economia torna a generare lavoro, il risanamento dei conti pubblici è più facile: lo dimostra il calo del debito pubblico Usa, in atto per la prima volta dal 2007, trainato dall’aumento del gettito fiscale. Lo Stato è, nella dottrina Obama, il catalizzatore di una nuova stagione di innovazioni: dalla green economy alla rifondazione dei sistemi educativi”. Il modello California, il più grosso degli Stati Usa ad avere raggiunto il pareggio di bilancio aumentando le tasse sui ricchi, dimostra questo anti-dogma, l’antidoto al neoliberismo: lo sviluppo riparte solo se il potere d’acquisto viene diffuso nei ceti più numerosi, classi lavoratrici e ceto medio, la cui sofferenza è la prova di un fallimento storico del neoliberismo e dell’austerity. Emerge, finalmente, una risposta radicalmente riformista: il fattore che impedisce la ripresa è la diseguaglianza, occorre quindi ridistribuire reddito e ricchezza; e servono investimenti pubblici ad alta intensità di lavoro, i quali creino le basi di un nuovo modello di sviluppo basato sui beni ambientali e sociali. “Il mondo ha fame di beni pubblici”, scrive Martin Wolf dalle pagine del certo non bolscevico Financial Times. Sconcerta, da noi, l’esitazione e la timidezza del Pd a ricorrere a queste parole, che sono proprie delle grandi tradizioni riformiste e possono davvero illuminare il futuro. Rinunciare agli F35 e proporre una patrimoniale per finanziare un grande Piano per il lavoro dovrebbe essere nel dna della sinistra. In realtà si va formando al centro, tra Governo e partiti, un punto di vista ideologico e culturale che mette assieme uomini del centrosinistra e del centrodestra su posizioni molto diverse, estranee a quel dna. Come se bastasse, per creare lavoro, qualche riduzione d’imposta o qualche incentivo alle imprese che assumono. In realtà serve un piano, come si fece nel New Deal e come appunto sta provando a fare Obama, che ha presentato un piano fiscale insieme allo stanziamento di 140 miliardi di dollari con i quali tra l’altro ha ristrutturato 35.000 scuole e ha garantito l’impiego a oltre 200.000 insegnanti.
Ecco, questi sono spunti per una “visione di dove va il Paese”, su cui costruire una grande alleanza tra le forze che rappresentano il lavoro. Così come sono spunti quelli suggeriti dall’esperienza cooperativa e mutualistica. In questa “visione” occorrerebbe proporsi di superare ogni forma di lavoro servile e precario. I fattori di conflitto lavoratori-imprenditori certamente resterebbero, ma ci sarebbero anche interessi comuni. Il mondo del lavoro, riacquisita un’identità “di parte”, saprebbe poi fare i patti necessari per l’interesse del Paese. Ma la domanda con cui concludere il discorso è la più importante: l’azione politica, ridotta sempre di più a spettacolo, gioco di potere, carriera da difendere, saprà ritrovare un orizzonte progettuale e la capacità di “visione”?
Una delle due fotografie di oggi è un ritratto del comandante partigiano Daniele Bucchioni, scomparso lunedì scorso. Al combattente valoroso ho dedicato, su questa rubrica, l’articolo “Il comandante Dani e il rastrellamento del 3 agosto 1944”. Bucchioni è stato un uomo di grande rigore e moralità: fu il segno che gli lasciò la Resistenza, l’esperienza più importante della sua vita.
L’altra fotografia ritrae il Pizzo d’Uccello, una delle montagne che amo di più. Il terremoto del 21 giugno ha ferito la sua vetta. Il Pizzo d’Uccello, come tutte le Alpi Apuane, è a rischio non solo per la minaccia della natura ma anche per quella dell’uomo: l’escavazione del marmo lo sta sgretolando. Da questa seconda minaccia possiamo e dobbiamo salvarlo.
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