La scienza chiede che il clima “non si faccia da sé”
Il Secolo XIX – 8 gennaio 2009 – Carlo Stagnaro ha replicato al mio intervento su un New Deal verde che contrasti la crisi climatica e quella economica, criticandomi -così sintetizza il titolo- per “molta ideologia e poca conoscenza”.
In realtà la mia tesi è basata sulla conoscenza e la ricerca scientifica. La politica italiana si è sostanzialmente disinteressata del clima, e forse questo è dovuto proprio a un generale scetticismo per il valore della conoscenza e della ricerca scientifica, che purtroppo sembra essere imperante.
Ma veniamo al merito: nonostante la complessità del problema dei cambiamenti climatici esistono alcuni punti fermi su cui la comunità scientifica, rappresentata dal suo organismo internazionale più autorevole, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) dell’Onu, Premio Nobel 2007, è largamente concorde. E le interpretazioni più “tranquillizzanti” di cui parla Stagnaro, così come quelle più “radicali”, hanno minor rilievo.
Quali sono i punti fermi? Le concentrazioni dei gas serra sono aumentate dall’inizio dell’era industriale a livelli molto maggiori di quelli riscontrati negli ultimi 650.000 anni: è un aumento dovuto per lo più all’uso di combustibili fossili e alle attività umane. L’effetto è il riscaldamento del clima: innalzamento della temperatura di 0,74 gradi centigradi negli ultimi 100 anni, scioglimento dei ghiacciai (ai poli l’aumento è stato di 4 gradi), riscaldamento degli oceani e aumento del livello del mare (cresciuto di circa 20 cm negli ultimi 120 anni), aumento delle ondate di calore e della siccità, precipitazioni e tempeste tropicali più intense. “La scienza non ha sciolto tutte le sue incertezze sul riscaldamento del pianeta -scrive Filippo Giorgi dell’Ipcc- ma i dubbi non invalidano i punti base”.
Dobbiamo quindi preoccuparci: l’innalzamento del livello del mare mette a rischio l’abitabilità delle zone costiere, l’aumento della siccità colpisce la produttività agricola e le risorse idriche, l’intensità delle precipitazioni aumenta frequenza e gravità degli uragani e delle alluvioni. Milioni di persone potrebbero essere costrette a lasciare Asia e Africa: dove andranno questi “profughi climatici”?
Winston Churchill, di fronte alla minaccia di Hitler, mise in guardia dicendo: “Se non si farà qualcosa, qualcosa si farà da sé, e in modo tale che nessuno gradirà”. Bisogna impedire che il clima “si faccia da sé”, minando la sicurezza di miliardi di persone. Abbiamo bisogno, di fronte alla minaccia comune, di una solida unione per una grande rivoluzione energetica. Attualmente la media mondiale di emissioni pro capite è di 1,2 tonnellate di carbonio l’anno, con differenze assai significative tra i Paesi (ad esempio 0,3 per l’India e 6 per gli Usa). “Dovremmo cercare di abbassare questa cifra -spiega Giorgio Carraro dell’Ipcc- fino a 0,3 tonnellate entro la fine del secolo”. Il piano dell’Unione europea ha fissato la soglia di sostenibilità, che non va superata per non mettere a rischio il pianeta, a un valore di riscaldamento globale di circa 1,25 gradi al di sopra di quelli attuali.
Stagnaro fa tre obiezioni al piano europeo, sostanzialmente simili a quelle dei Paesi dell’ex Europa dell’Est (non a caso cita il Capo di Stato ceco Vaclav Klaus, secondo cui la battaglia climatica è uno “stupido prodotto di lusso”). La prima: c’è la crisi economica, la spinta a ridurre i gas serra va rallentata. Ma abbattere le emissioni vuol dire mettere in pratica programmi per un consumo efficiente di energia e per sviluppare nuove fonti: iniziative che daranno impulso a nuovi settori del mercato. Se non è giusto varare queste misure in una fase di crisi economica e di elevato costo dell’energia (è vero che il prezzo del petrolio sta scendendo, ma continua a rimanere troppo alto: 72 dollari al barile il prezzo medio del 2007), quando lo sarà?
La seconda: le emissioni sono globali, non europee, e qualunque sforzo unilaterale è destinato al fallimento. E’ vero, serve un accordo internazionale sulle decisioni da prendere. L’appuntamento è già fissato: Copenaghen, novembre 2009. Forse l’ultima speranza dopo il fallimento, in quanto a risultati tangibili, di Kyoto. Per fortuna si sta cercando di affrontare la crisi economica attraverso un coordinamento internazionale: un percorso che era stato completamente abbandonato negli ultimi anni, e che è essenziale anche per la questione climatica. E’ vero che dobbiamo preoccuparci dei gas serra di Cina e India, ma anche ricordarci che più della metà delle emissioni dall’inizio dell’industrializzazione sono a carico dell’Europa e degli Usa, Paesi che sono ben lontani dal ridurle (con l’eccezione della Germania). Europa e Usa hanno quindi il dovere di fare da apripista a un “contratto globale”, e anche Obama è pronto a segnare questo cambio di prospettiva. Il clima richiede l’assunzione di un rischio politico da parte di una leadership mondiale che si dimostri capace di occuparsi di politiche di lungo periodo, non avvertite da tutti come urgenti. L’Italia, che quest’anno presiederà il G8, deve essere una componente di questa leadership.
La terza obiezione: le fonti rinnovabili sono un fiasco, sono più costose delle tradizionali, hanno bisogno di investimenti pubblici e di tasse più alte. Ma se la crisi climatica c’è (e c’è) e se vogliamo sconfiggerla, dobbiamo decarbonizzare il settore energetico, e cioè utilizzare le fonti alternative, limitare il consumo delle fonti fossili e, laddove queste si continuano a utilizzare, adottare adeguati sistemi di cattura delle emissioni. Non abbiamo altra strada. E’ soprattutto l’energia solare la vera, grande speranza: le prospettive di miglioramento delle tecnologie sono incoraggianti. Come scrive Alessandro Ovi, direttore dell’edizione italiana della rivista del MIT, “stiamo facendo passi tali che tra non molto tempo le rinnovabili saranno economicamente convenienti rispetto alle fonti tradizionali: siamo nel bel mezzo di un passaggio che non si arresterà più”. Due anni fa le celle fotovoltaiche costavano 6 euro a watt, oggi 3 euro, tra 5 anni un euro. Certo, le rinnovabili sono nate e possono svilupparsi solo grazie agli incentivi dei governi. Se si cerca di raggiungere due beni pubblici come la sicurezza energetica e quella climatica, il mercato all’inizio non basta perché non è adatto. Ciò vale anche per le altre scelte possibili, la cattura delle emissioni delle fonti fossili e l’energia nucleare. Se si vorrà percorrerle, lo si potrà fare solo grazie a massicci investimenti dei governi (che, per il nucleare, dovrebbero contribuire alle enormi spese per lo smaltimento delle scorie radioattive e il rischio assicurativo). Non va poi dimenticata l’efficienza energetica: oggi il 60% dell’energia prodotta viene sprecata o nella fase di produzione o di trasporto o di utilizzazione. Il contributo dell’efficienza energetica può essere davvero rilevante, come in California: il consumo è sceso, così le bollette. Comunque un prezzo da pagare ci sarà: l’Ipcc stima un costo tra il 2 e il 5% del prodotto nazionale lordo (Pnl) globale entro il 2050. Se teniamo conto che il Pnl cresce di 2-3 punti l’anno, è un costo accettabile.
Su una cosa sono d’accordo con Stagnaro: bisognerebbe aprire un grande dibattito. Coinvolgere l’opinione pubblica, dare tutte le informazioni scientifiche e chiedere ai cittadini: “quali sacrifici siete disposti a fare per ridurre i rischi del global warming”? Una discussione politica ma anche etica: sugli obblighi che abbiamo verso le generazioni successive. Un prezzo non è troppo alto, a condizione che chi lo deve pagare ne sia convinto.
Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche)
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