Nuovi alleati e leader forte o il PD non ce la farà
Il Secolo XIX – 2 dicembre 2008 – La manifestazione del 25 ottobre ha dimostrato che il Pd ha un corpo vivo, un popolo che reagisce e ha energie. Ma anche che il Pd deve spiegare meglio che cosa vuole fare, per andare dove e insieme a chi.
A tal fine deve abbandonare ogni subalternità e capire fino in fondo, traendone le conseguenze, che la crisi attuale è figlia del fallimento del pensiero neoliberista della destra. Che il vento è mutato, e non naviga più contro la sinistra. Questa è la riflessione da cui partire per proporre una nuova idea del futuro del Paese.
E’ la sfida che hanno davanti i democratici americani e i socialdemocratici europei: fare i conti con la crisi e le trasformazioni del capitalismo, cercando di coniugare l’interesse generale con quello della difesa del mondo del lavoro e dei ceti più deboli. Lo sta facendo Barack Obama, sostenuto dai maggiori economisti americani, da Reich a Krugman, che ritengono che l’unica possibilità di non fallire con la globalizzazione è quella di dare più sicurezza ai lavoratori e alle classi medie: cioè una tipica politica socialdemocratica. In Europa lo sta facendo Gordon Brown, che ha saputo così togliersi di dosso l’immagine dello sconfitto. In Germania il leader della Spd Frank Walter Steinmaier ha dichiarato: “è finita un’epoca, dalla caduta del muro di Berlino non c’è mai stata così tanta domanda di socialdemocrazia”. Labour e Spd riconoscono quindi la fine del ciclo della Terza via e si pongono il problema di ricostituire un corpus di idee e di valori di sinistra.
Non si tratta di tornare alle politiche tradizionali: spesa pubblica e welfare vanno radicalmente riformati. Tuttavia il riformismo non può non rimettere al centro la questione sociale e l’uguaglianza. Il 66% degli italiani (la media europea è il 44%) ritiene che le politiche pubbliche dovrebbero contrastare le crescenti disuguaglianze sociali. Ma alle ultime elezioni oltre la metà degli otto milioni di operai italiani ha votato per il centrodestra. O il Pd ricalibra la sua politica o non avrà futuro, perché -come ha scritto Alfredo Reichlin- “le parole del riformismo non hanno più senso se non parlano dell’ingiustizia”.
Solo così il Pd potrà superare la sua debolezza, che è data dalla sua crisi di rappresentanza dentro il Paese reale, dalla sua distanza non solo dagli operai, ma dai precari, dai giovani, dai professionisti, dai ceti più dinamici. E solo così potrà intercettare la delusione verso il governo ed evitare un ulteriore distacco dei cittadini dalla politica. L’antipolitica appare oggi più silenziosa, ma non illudiamoci: ha scavato un solco profondo nella coscienza della nazione. La si può sconfiggere solo con una strategia credibile, che indichi una rotta al Paese.
Un chiarimento nel Pd, come dicono tutti, è davvero necessario. Ma non riguarda solo i rapporti tra Veltroni e D’Alema. Né serve mettere al centro il tema del “partito del Nord”. La partita è quella della cultura e del progetto del partito, del profilo di un’opposizione che deve avere un’impronta più forte e più coerente, e perciò più autorevole. Quella di un riformismo che unisce responsabilità e radicalità. La radicalità di chi si batte con chiarezza e nettezza per l’equità sociale, l’equilibrio ecologico, lo sviluppo culturale e morale, i diritti civili. E che per questo suscita identità e speranza.
Questo progetto di cambiamento radicalmente alternativo al centrodestra, identitario ma non massimalista, può consentire al Pd ciò che oggi appare difficile: rielaborare una strategia delle alleanze e essere la forza guida di un nuovo centrosinistra che unisca Idv, sinistre e Udc.
Ma per una svolta vera nel Pd servono altre tre condizioni. La prima è il carisma e l’autorevolezza della leadership. La seconda è un partito strutturato e radicato. La terza è la mobilitazione della società. Si guardi a Obama: ha vinto per la sua forza personale e per la forza del suo partito, che è stato capace di lavorare politicamente tra la gente. In America, inoltre, è stata anche la società a determinare un cambiamento della politica: si sono mossi autonomamente gli operai, i giovani, i neri, gli ispanici…Se la leadership è debole, se il partito non si sente una comunità e non è radicato nel popolo , se il conflitto sociale declina e le agitazioni sono solo corporative, il Pd non ce la farà. I problemi sono enormi: il chiarimento avrà un senso solo se li affronterà.
Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (rete città strategiche).
Popularity: 5%