All’epoca vinse il localismo con la “veduta corta”
Città della Spezia – 2 Aprile 2013 – Su Città della Spezia del 26 marzo il segretario della Uil Walter Andreetti, intervenendo su Acam, ha distribuito accuse un po’ a tutti. A me ha imputato “cecità”, per “aver impedito 15 anni fa l’accordo tra Acam e Termomeccanica”. Nel mio “Diario” del 2010 ho riepilogato in ogni dettaglio la vicenda, ma vedo che le leggende su questo matrimonio mancato ogni tanto riemergono. E’ bene allora fare chiarezza e richiamare i fatti, anche perché può venirne una lezione utile per l’oggi.
Già nel gennaio 2000 dichiarai che, al momento della costituzione di Acam in Spa e della sua apertura ai privati, “andrà attentamente studiata la possibilità di un’intesa tra Acam e Tme, la nuova società nel settore ambientale di Termomeccanica. Lo studio dovrà verificare se tale intesa porterà o no a una valorizzazione di entrambe le società. E’ questo l’unico modo serio per evitare che la discussione sul rapporto con Tme sia solo <ideologica>”. Non a caso il Sole 24 Ore, il 12 gennaio, titolava “La Spezia punta sul polo Acam-Tme”. La questione fu ripresa a luglio 2000 da Enzo Papi che, a nome dell’azienda di via del Molo, propose la fusione. Risposi dicendo la verità: “la fusione non è possibile per legge: un consorzio pubblico non può fondersi con un privato”, ma confermai l’interesse del Comune alla collaborazione già da subito, invitando le aziende a incontrarsi, e poi in futuro, quando Acam avrebbe potuto aprirsi ai privati. Acam si trasformò da consorzio pubblico in Spa nel giugno 2001. Il momento dell’apertura ai privati era arrivato. A giugno l’advisor Rothschild contattò Termomeccanica, che comunicò “un interesse preliminare a strutturare un’operazione di aggregazione-partnership con Acam”. Lo scrisse l’advisor in un documento del marzo 2002, che continuava così: “all’inizio del mese di dicembre Termomeccanica ci ha comunicato che l’interesse in precedenza manifestato era diminuito e che si sarebbe riservata di approfondire l’argomento successivamente alla fine del 2001”, cosa che non ebbe seguito. Nel giro di pochi mesi l’azienda aveva cambiato opinione, proprio quando si doveva “vedere” il gioco. Va detto, a completare il quadro, che il vertice di Acam non condivideva molto il mio interesse e le mie aperture, anzi. In sostanza: se non si è mai andati a “vedere”, cioè a fare studi industriali e valutazioni economiche, e se si è rimasti a discutere del tema solo in termini generici, spesso in “politichese”, la responsabilità è di tanti. Io mi prendo la mia parte, ma onestà vorrebbe che tutti ci riflettessero un po’. Sempre onestà vorrebbe che si ricordasse che alcuni anni fa Tme costituì una società con la francese Veolia, che acquisì il 75% delle quote, e che, dopo le vicissitudini giudiziarie degli impianti di Brindisi e Viareggio, la nuova società chiese il concordato preventivo e licenziò i dipendenti. C’è da chiedersi: come sarebbe andata per Acam se il matrimonio fosse andato in porto? Gli effetti sarebbero stati migliori di quelli attuali?
Serve, dunque, una riflessione onesta, seria e argomentata sul perché della crisi di Acam. L’azienda aveva fatto bene a crescere. Ma a un certo punto, nel 2001-2002, bisognava fermarsi. Si doveva cominciare a ridurre investimenti e indebitamento. E si doveva dare valore a quanto fatto, compresi i limiti, mettendosi in gioco in un’alleanza più grande, in un contesto più forte che, con la necessaria ricapitalizzazione, avrebbe assicurato all’azienda sicurezza e sviluppo. E’ quello che il mio Comune voleva, ma non riuscì a fare. Il lavoro di Rothschild si concluse nel 2003-2004: fu esclusa l’alleanza con le ex municipalizzate (erano interessate Amga di Genova e Acea di Roma), verso cui il mio Comune spingeva. Prevalse la scelta di continuare in un isolamento fuori dai tempi e di cedere il 49% del gas, il settore più remunerativo, a un privato, Italgas. Fu questa la volontà del consiglio di amministrazione e del management dell’azienda, e della maggioranza degli azionisti, con un ampio consenso sociale. Vinse il localismo con la “veduta corta”, la scelta di stare da soli per paura di “perdere il radicamento territoriale”e di “trasferire la testa dell’azienda altrove”. Preoccupazioni nobili ma sbagliate, e che in qualche caso nascondevano preoccupazioni molto meno nobili e più “di bottega”. Ovviamente la responsabilità di quanto successe è di tutti, anche di chi la pensava diversamente: quando si è sconfitti bisogna sempre interrogarsi sul perché. Io sbagliai a non aprire una discussione pubblica sul tema: non lo feci non per mancanza di coraggio ma per un malinteso senso di responsabilità (e anche perché fino all’ultimo fui illuso sulla possibilità che la soluzione fosse diversa). Non sarebbe stato semplice, sarebbe scoppiato un putiferio e avrei probabilmente perduto comunque: ma avrei dovuto provarci.
Alla radice del tracollo successivo c’è innanzitutto la scelta fatta allora. Io potrei cercare di cavarmela dicendo che il debito dell’ultimo bilancio che approvai, quello del 2005, era di 162 milioni di euro, e che il debito è triplicato dopo: ma non sarei onesto, perché ciò che è successo dopo in buona parte dipese dalla scelta del 2004. Certo, anche dopo sono stati fatti errori, come ha riconosciuto, con la medesima onestà, il Sindaco Federici, riferendosi alla mancata riorganizzazione aziendale durante la gestione dell’amministratore delegato Strozzi e ai ritardi nella chiusura del ciclo dei rifiuti. Ma il primo, decisivo appuntamento mancato fu quello di inizio millennio.
Ora la città deve stringersi attorno alla proprietà, all’azienda e ai lavoratori perché vada in porto la soluzione della ristrutturazione del debito con le banche e sia evitato il commissariamento, per le conseguenze amare che esso comporterebbe sul piano sociale. Per un accordo con le banche servono un piano di riorganizzazione aziendale e un piano di rilancio industriale, a cui si è lavorato e si sta lavorando. Ripercorrere il passato ci è di insegnamento, in particolare sul piano industriale: bisogna infatti guardarsi sempre dal localismo con la “veduta corta”. Sia che si parli di piano dei rifiuti o di un piano industriale basato anche sulle energie rinnovabili, torna sempre l’esigenza di operare in ambiti più vasti di quello provinciale e di aprirsi ad alleanze ed aggregazioni. Il “guardare fuori di sé” dell’azienda, troppo a lungo rinviato, resta preziosa indicazione per il futuro.
Giorgio Pagano
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