In Val Di Vara sventola la bandiera verde
Città Della Spezia – 20 Gennaio 2013 – In questi giorni preelettorali si parla molto di candidature e di alleanze. Ma c’è bisogno di concentrarsi sulle idee e sui programmi: idee e programmi innovativi, che rispondano alle crescenti domande di “ripartenza”, di “conversione”, di cambiamento vero, diffuse nella società. Complice una crisi di portata storica che coinvolge tutto e tutti: l’economia, l’ambiente, la politica, la vita quotidiana delle persone.
Tra le tante domande per “ripartire” e “convertirci” ce n’è una di particolare importanza: come far tornare i giovani alla terra e al mestiere di contadino? Ancor prima facciamoci un’altra domanda: cosa fa un contadino? Produce grano, frutta, latte ma intanto si prende cura del paesaggio, della salubrità delle acque, della fertilità del suolo, della salute della sua comunità, del patrimonio di culture e saperi -la memoria- che la comunità ha nel tempo accumulato. Ritorniamo quindi alla prima domanda: come “ringraziamo”, in termini di remunerazione, quel contadino per gli effetti positivi che il suo modo “sostenibile” di lavorare produce?
In una Val di Vara aggredita dalla tragedia del dissesto idrogeologico sta venendo una piccola ma significativa, perché simbolica, risposta a queste domande. Il protagonista è il Comune di Rocchetta Vara: il Sindaco Riccardo Barotti, l’assessore Oriana Drovandi, i contadini più anziani, i giovani che ritrovano la voglia e l’orgoglio di coltivare la terra. Il Comune ha individuato la piaga peggiore della Val di Vara -l’abbandono dell’agricoltura e il conseguente fenomeno delle terre incolte- e si è dotato di una politica nuova, in radicale controtendenza rispetto a un passato recente. Nelle valli di Suvero già nel ‘500, con i marchesi Malaspina, si coltivava il grano. Le famiglie più antiche di agricoltori si sono sempre scambiati i semi originari tra loro e li hanno coltivati, fino a quando è stato conveniente farlo: a un certo punto non lo è più stato, perché non c’era mercato, al di là degli agriturismi. Ecco, allora, l’intervento del Comune: “abbiamo acquistato noi, come Comune, le sementi e le abbiamo distribuite agli agricoltori”, raccontano Sindaco e assessore. L’esperienza sta funzionando: dal 2009 ad oggi ci sono 8 produttori, molti terreni abbandonati sono stati recuperati, dal luglio 2010 si tiene con grande successo la Festa del grano e della trebbiatura, dove si vende la farina. Ora il Comune punta a chiudere il ciclo produttivo riattivando un mulino e un forno. L’esperienza si sta diffondendo in altri Comuni: Beverino, Calice al Cornoviglio e Zignago. Il 26 gennaio verrà formalmente riconosciuta la “comunità del cibo” con la partecipazione di Slow Food, che ha assistito il Comune nel progetto, e verrà costituito il Monte frumentario, antica istituzione che nel ‘600 vedeva i contadini costituirsi in associazione. I semi, come allora, verranno consegnati ai contadini, che si impegneranno ad adoperare i metodi di coltivazione fissati secondo le antiche regole, senza l’uso di anticrittogamici o fertilizzanti chimici. Il progetto, spiegano Riccardo e Oriana, “ha raccolto l’adesione entusiasta di vecchi e giovani, ha fatto crescere il numero dei giovani impegnati nelle aziende agricole e ha cambiato il paesaggio, con il ritorno dei colori dei campi al posto dell’assedio dei rovi”. E’ un’esperienza di costruzione di in nuovo modello di sviluppo che recupera il passato. Non a caso ha avuto molti riconoscimenti nazionali, e ricevuto premi dal WWF, dall’associazione dei piccoli Comuni, dalla Confederazione Italiana Agricoltori e il premio “Città per il verde”. Ora il Comune sta partendo con un progetto analogo per le piante da frutta: fico fiorone, melo, ciliegio. Si punta allo sviluppo della produzione agricola locale e a recuperare terreni incolti, promuovendo la vendita di Buoni fruttiferi per dare l’occasione a coloro che non dispongono di risorse da investire di poter impiantare un frutteto senza eccessivi impegni economici e con la garanzia di poter rivendere la produzione realizzata. I soggetti interessati a investire almeno 100 euro in Buoni fruttiferi potranno acquistare 100 euro di buoni in frutta, cioè si garantiranno versando 100 euro la fornitura dell’equivalente in frutta, di qualità e coltivata naturalmente, per cinque anni. Al consorzio di agricoltori che verrà costituito sono così garantite piccole somme da investire per l’avvio della produzione, e un mercato iniziale. In pieno svolgimento è poi il progetto “L’orto da asporto”: un disabile e una disoccupata, grazie a un finanziamento regionale, curano orti la cui produzione verrà immessa nel mercato, consentendo al progetto di autofinanziarsi -l’obbiettivo è la costituzione di una cooperativa- quando verrà meno il sostegno della Regione.
L’esperienza di Rocchetta Vara è un modello perché consente di intravvedere la risposta alla domanda iniziale: sono le politiche pubbliche che possono aiutare e sostenere il ritorno alla terra. Naturalmente non bastano i Comuni: fondamentale è il ruolo delle Regioni e del Governo nazionale. La Regione Liguria, che governa un territorio in cui l’ecosistema è a forte rischio, ha finalmente deciso di predisporre un disegno di legge per rilanciare l’agricoltura: ma è decisivo, chiedono giustamente gli amministratori di Rocchetta, “uscire dalla logica secondo cui l’agricoltura è solo la grande agricoltura produttiva, e capire che il recupero delle terre incolte è fatto soprattutto di piccoli interventi”. Il Governo ha finalmente approvato un disegno di legge per porre fine, con imperdonabile ritardo, alla dissipazione del suolo agricolo e alla cementificazione che ha devastato il territorio. Come ha detto Carlin Petrini di Slow Food occorre chiedere a tutti i candidati alle politiche che “si impegnino perché quel disegno di legge diventi al più presto una legge nazionale”. E poi servono interventi formativi, incentivi economici e possibilità di accedere a crediti ragionevoli.
Le riflessioni suggerite dall’esperienza di Rocchetta Vara sono molte. Colpisce, intanto, l’impegno volontario o quasi degli amministratori dei piccoli Comuni: eppure quando si è pensato a ridurre i costi della politica si è partiti da loro, anzi ci si è quasi fermati a loro. Non vanno lasciati soli: bisogna lavorare a Unioni di Comuni o quantomeno a accorpamenti di funzioni, e evitare che il passaggio delle competenze delle disciolte Comunità Montane e in parte delle Province alle Regioni si tramuti in lontananza dal territorio. C’è poi il ragionamento delle risorse pubbliche: il pensiero unico liberista e rigorista dice che non ce n’è. Ma questo pensiero è un po’ meno unico di una volta. Il 25 e 26 gennaio a Roma la Cgil presenterà un grande “Piano per il lavoro”: 80 miliardi di euro, finanziati da una patrimoniale, dall’aumento dell’imposizione sulle transazioni finanziarie, dall’introduzione di tasse ambientali (“chi inquina paga”), da un piano strutturale di lotta all’evasione e all’elusione fiscale e dalla riduzione selettiva della spesa pubblica, per creare un milione di posti di lavoro. In quali settori? Il più grande sindacato italiano ha idee chiare e del tutto condivisibili: green economy, efficienza energetica, prevenzione antisismica, messa in sicurezza dell’edilizia scolastica, piani dei rifiuti, agenda digitale e diffusione della banda larga, turismo, trasporti pubblici, conservazione del patrimonio culturale, parchi, riqualificazione urbana e, appunto, sviluppo dell’agricoltura. Ancora: bonifica dei siti industriali inquinati, di cui ho scritto due domeniche fa. Ecco allora che piccole cose come quelle di Rocchetta diventano grandi, perché si inseriscono in un quadro d’insieme, in una prospettiva che fa intravvedere orizzonti più larghi, mete plausibili di cambiamento generale. Questa prospettiva è la conversione ecologica dell’apparato produttivo, cioè un nuovo rapporto tra economia e territorio. La sfida di porci nel mercato globale con la specifica forza economica di un’Italia che conservi saperi e bellezze, che tuteli il suolo e gli abitati e nello stesso tempo offra ai suoi giovani un lavoro produttivo e di manutenzione è una partita di grande respiro. Che è già oggi giocata da quelle che il grande studioso Edgar Morin chiama “le comunità di destino”, una realtà vera e crescente, fatta di persone che sentono il peso della responsabilità verso gli altri e verso la natura. E’ lì che dovrebbe stare la mia amata sinistra. Il fatto che la Cgil, alla presenza di Pierluigi Bersani e di Nichi Vendola, ma anche del ministro Fabrizio Barca, di gran lunga il migliore tra i ministri e a mio parere colui che ha il profilo per poter guidare il processo di rinnovamento e di unità della sinistra italiana, voglia giocare questa partita fa ben sperare. Forse la Primavera sta arrivando. Che il rigore dei liberisti abbia depresso l’economia lo ha riconosciuto ormai anche il Fondo Monetario Internazionale. In America il nuovo Obama keynesiano è stato chiaro: “non si esce dalla crisi a colpi di tagli” e “tassiamo i più ricchi per creare lavoro”: è la “rivincita sul neoliberismo”, ha scritto un attento osservatore come Federico Rampini. Anche in Europa ci sono i margini per uscire dalla spirale debito-austerity-disoccupazione e per imboccare la strada della crescita sostenibile. Costruire un’Europa diversa è oggi la principale discriminante tra liberisti e progressisti, tra destra e sinistra.
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