No al petrolio, dall’Ecuador all’Italia
Città della Spezia – 19 Agosto 2012 – Qualche giorno fa ero a Savona, per partecipare, come portavoce del network ligure Januaforum, che riunisce molte persone impegnate nella nostra regione in attività di cooperazione e solidarietà internazionale, all’incontro sul tema “L’Ecuador nel Mediterraneo”, organizzato dagli amici dell’USEI (Unione di Solidarietà degli Ecuadoriani in Italia) nell’ambito della Settimana culturale ecuadoriana. Tra i relatori c’era anche il viceconsole dell’Ecuador a Genova Christian Cruz, che ha presentato il progetto “Yasuni-ITT”, simbolo dell’impegno dell’Ecuador per la conservazione della biodiversità, la mitigazione del cambiamento climatico e lo sviluppo sociale con giustizia ambientale. E’ un progetto di grandissima importanza, frutto dell’impegno della popolazione della zona e poi del Governo ecuadoriano. Non a caso la nuova Costituzione, approvata nel referendum nel 2008, celebra la Natura e la Pacha Mama, la Madre Terra, come parte vitale dell’esistenza umana, alla quale vengono riconosciuti specifici diritti e con la quale si propone di vivere in armonia, nel rispetto del principio del “bien vivir-buon vivere”. Alla Natura, per la prima volta nella storia, una carta costituzionale conferisce lo stato di entità giuridica, avente diritti. Ma che cos’è lo Yasuni? E’ uno dei luoghi di maggiore biodiversità del pianeta, diventato nel 1979 Parco nazionale e dal 1989, per volontà dell’Unesco, Riserva Mondiale della Biosfera: 982.000 ettari di foresta amazzonica vergine, con 2274 specie di alberi e 593 di uccelli. Un luogo quasi magico, che ospita gli ultimi due popoli indigeni che vivono in isolamento volontario dalla supposta civilizzazione, i Tagaeri e i Taromenane. Lo Yasuni è ricco di petrolio, ma l’Ecuador si è impegnato a mantenere nel sottosuolo a tempo indeterminato le riserve di “oro nero” (846 milioni di barili di petrolio) nel campo ITT (Ishpingo, Tambococha, Tiputini), proponendo in cambio che la comunità internazionale contribuisca con un finanziamento di almeno 3.600 milioni di dollari, equivalenti al 50% delle risorse che percepirebbe lo Stato nel caso in cui optasse per lo sfruttamento petrolifero. In questo modo si eviterebbe l’emissione di 407 milioni di tonnellate di Co2, una riduzione maggiore dell’emissione annuale di Paesi come il Brasile e la Francia, oltre a salvaguardare uno dei luoghi più biodiversi del mondo e a sostenere popoli che altrimenti si estinguerebbero. Si sceglierebbe cioè la vera ricchezza dell’Ecuador e del pianeta: l’”oro verde”. L’assunto da cui parte il progetto è che siamo tutti in debito con la natura e gli ecosistemi e soprattutto lo siamo noi occidentali (con la recente aggiunta della Cina), che consumiamo gran parte delle risorse e inquiniamo. E’ stato creato un fondo di capitale, gestito da Nazioni Unite, Stato dell’Ecuador, società civile ecuadoriana, rappresentanti dei contribuenti. Sono già stati raccolti circa 100 milioni di dollari, grazie all’impegno di Cile, Spagna, Belgio, Italia, Colombia, Perù, Australia e si aspettano i contributi di altri Stati, organizzazioni internazionali, Ong, aziende con responsabilità sociale e ambientale, singoli cittadini. Il capitale del fondo verrà investito esclusivamente nello sviluppo di fonti rinnovabili, nel risparmio e nel miglioramento dell’efficienza energetica, nella riforestazione di suoli macchiati dal degrado, nello sviluppo sociale della zona con programmi di educazione, salute, formazione di impiego produttivo in attività sostenibili come l’ecoturismo e l’”agroforesteria”.
In controtendenza con questa impostazione, nei giorni scorsi il Governo Monti ha lanciato un programma a favore della “crescita” che prevede, sulla questione centrale dell’energia, di estendere e rilanciare le trivellazioni, in terra e in mare, per aumentare la quota di produzione di idrocarburi, portandola dal 10 al 20 % del fabbisogno nazionale. E’ un’idea del passato, che ha lasciato ferite ambientali profonde nel Paese, e che ora viene lanciata contemporaneamente a un’altra idea che va contro il futuro, cioè la stretta e i tagli agli incentivi alle fonti rinnovabili. Certo, esiste un’emergenza Italia, un problema gravissimo dell’industria italiana, che va finalmente affrontato. Ma non con ricette vecchie e inefficaci. Serve un piano energetico imperniato non su petrolio e carbone, ma sulle rinnovabili e sul gas (il che significa fare sì i rigassificatori, ma con una programmazione organica, quindi non dappertutto). Serve lo sviluppo sostenibile, cioè la valorizzazione del saper fare italiano, che è la nostra carta da giocare nella globalizzazione. Bisogna ridare centralità all’economia reale e alla produzione e ripensare a un ruolo sia dello Stato che della finanza a favore dell’impresa, sviluppando una politica industriale “integralmente ecologica”, che crei prodotti e servizi innovativi che conquistino un mercato globale sempre più attento all’ambiente. Le priorità sono, come sostiene giustamente la Carta d’intenti presentata dal Pd per costruire il “Patto dei democratici e dei progressisti”, la qualità e le tipicità, la mobilità sostenibile, le fonti rinnovabili, il risparmio e l’efficienza energetica, le scienze della vita e le tecnologie per la salute, le tecnologie legate alla cultura, l’agenda digitale, le alte tecnologie della nostra tradizione. Proprio per questo il Pd deve opporsi a questo pacchetto di misure del Governo Monti. In questo caso non conta l’emergenza spread, ma è in gioco una visione del futuro del nostro Paese. E una forza di sinistra non può farsi corresponsabile di scelte drasticamente sbagliate.
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