Un nuovo laburismo per gli orfani della sinistra
Il Secolo XIX – 4 maggio 2011 – Lo sciopero della Cgil invita a riflettere sulla questione del lavoro oggi, e su domande come “esiste ancora la classe operaia?” o “la lotta di classe si è conclusa con il Novecento?”. Forse non ci sono risposte univoche, ma per tentare di darle serve, come ha detto Pippo Del Bono presentando qualche tempo a Genova fa il suo lavoro teatrale sulla tragedia della Thyssen Krupp, “<stare lì>, conoscere la fabbrica, comprendere il dolore dei lavoratori”. Un sindacalista di un tempo direbbe: “serve l’inchiesta”. E’ questo il valore di alcune pubblicazioni recenti: il libro di Antonio Sciotto “Sempre più blu. Operai nell’Italia della grande crisi”, la ricerca “Nuova Panda schiavi in mano” della Fondazione Centro per la Riforma dello Stato, dedicata alla ristrutturazione del sito produttivo della Fiat a Pomigliano, e l’indagine “Come cambia il lavoro. Insicurezze diffuse e rappresentanza difficile”, promossa dal Pd. Certo è che gli operai in Italia sono ancora tanti: ma sono cambiate le loro culture e stili di vita, ed attendono una proposta politica capace di fornire loro, per come sono ora, il riconoscimento di cui hanno goduto fino agli anni ’80 del secolo scorso. Sciotto ci racconta i cambiamenti del modo di lottare, dalla protesta dei lavoratori della Innse di Milano, i primi ad arrampicarsi su un carroponte, all’autoreclusione nell’isola dell’Asinara dei dipendenti della Vinyls di Porto Torres. Ma anche i tanti suicidi dovuti alle difficoltà economiche e alla solitudine, e la via di fuga nella droga; e poi i conflitti tra operai italiani e immigrati, e i problemi delle donne in fabbrica. A volte la sensazione è quella di assistere a qualcosa di molto lontano dalla “lotta di classe”: viene meno l’idea della trasformazione sociale, sostituita dalla concretezza delle preoccupazioni individuali per il posto di lavoro e per arrivare a fine mese. Il racconto della conflittualità operaia a Pomigliano e a Mirafiori su condizioni di lavoro, salario e diritti ci fa capire, però, che ci sono anche i segni di una resistenza e di un nuovo protagonismo.
Che il conflitto non sia cancellato emerge anche dalla ricerca su Pomigliano: “Sono un numero di matricola, sono un carcerato che marca il tesserino e sta otto ore agli arresti domiciliari”, dice un operaio campano. Lo stress mentale lo si intuisce dalle parole di un altro operaio: “Il mio non è un lavoro, è la ripetizione di un gesto fisico, cinquecento volte al giorno, senza potermi muovere o parlare con un collega”. Sono le conseguenze del metodo di Sergio Marchionne, che lui stesso non esita a definire come ispirato a quella “flessibilità bestiale” che è all’origine della rimercificazione del lavoro e del suo depotenziamento politico. Di questo metodo fa parte anche la diffusione del precariato nell’industria: i precari di Pomigliano sono oggi molto più simili di quanto si creda ai lavoratori atipici del terziario, perché i meccanismi di sfruttamento sono analoghi.
Impressiona, infine, anche l’indagine del Pd: due terzi dei lavoratori dipendenti guadagnano meno di 1500 euro mensili e più di un quarto meno di 1000 euro, mentre diminuiscono i redditi familiari disponibili; l’incertezza del futuro e il timore di peggioramenti, inoltre, pervadono tutte le fasce di lavoratori e non solo i precari.
Tutte le ricerche individuano il problema di fondo: la corrente di pensiero che sostiene che il lavoro è oggi un tratto marginale e non più centrale è stata introiettata anche da una parte delle forze che dovrebbero essere alternative a quelle dominanti. In particolare da quella sinistra che negli anni ’90 governava dieci Paesi su tredici in Europa. I lavoratori hanno capito e l’hanno abbandonata. Un operaio della Innse lo dice così: “Destra o sinistra poco conta, e comunque l’opposizione sembra scomparsa. I politici sono venuti qui solo quando hanno visto che c’erano le tv e i giornali”. Ecco perché oggi, come scrive Mario Tronti, “le solitudini sono due: la solitudine del lavoro e quella della politica”.
Quel che serve è certamente un ampliamento della capacità di rappresentanza del sindacato e una sua nuova unità, perché divisi si è più deboli. Ma ancor prima c’è una precondizione: una sinistra che ritrovi nel lavoro la sua soggettività politica. La costruzione, come scrive Emanuele Macaluso nel suo primo editoriale da direttore del Riformista, di “un grande partito della sinistra”, capace di proporre un’alternativa che promuova sviluppo e giustizia sociale. Altrimenti la sinistra si confinerà ad un ruolo minoritario, rassegnandosi ad una realtà che vede progressivamente spostarsi a destra la rappresentanza dei lavoratori: non si vincono le elezioni, come dimostra l’evidenza, senza il consenso dei lavoratori. Tra il “vetero-laburismo” che è morto e la strada “alaburista” prevalsa nell’ultimo ventennio, non più praticabile perché portatrice di una sconfitta storica, c’è la via nuova di un “neolaburismo” che parli alle forme tradizionali e moderne del mondo del lavoro. Che non ricostruisca il movimento operaio, esperienza irripetibile, ma ne sia comunque erede. Come scrive Mimmo Carrieri su Italianieuropei presentando la ricerca del Pd questa strada “non passa solo attraverso provvedimenti economico-corporativi” ma ha bisogno di “una visione del mondo e di una prospettiva di cambiamento”, di una ”nuova, grande narrazione”. Ironia della sorte, proprio nella rivista diretta da Massimo D’Alema irrompono il linguaggio di Nichi Vendola, e l’esigenza di sanare l’anomalia del nostro Paese: la scomparsa di una grande sinistra laburista. Le leve da cui ripartire sono tante. Le casematte di resistenza di Pomigliano e Mirafiori: “Io sono la classe operaia perché mi alzo la mattina alle cinque e vado a lavorare -dice un operaio di Pomigliano- e se dovessi dimenticarlo c’è la busta paga da 850 euro al mese che me lo fa ricordare”; ma anche il lavoro intellettuale sempre più sfruttato e le nuove figure di lavoratore autonomo. Sono cose che non si vedono da sole. Lo sciopero della Cgil, intanto, è un modo per farle emergere. Ma non basta perché soltanto una nuova sinistra politica può comprenderle, organizzarle e “narrarle”.
Giorgio Pagano
L’autore è presidente di Funzionari senza Frontiere e segretario generale della Rete delle Città Strategiche; alla Spezia presiede l’associazione Culturale Mediterraneo.
Popularity: 2%