É il mondo del lavoro la sfida della sinistra
Il Secolo XIX – 9 gennaio 2008 – La strage senza fine dell’acciaieria Thyssen-Krupp rappresenta il culmine di una storia di decadenza, marginalizzazione, perdita di dignità sociale e umana della classe operaia italiana. Una classe che tutti hanno dato e danno per scomparsa, salvo ricordarsene quando la tragedia delle “morti bianche”desta la nostra attenzione. Di fronte alle vittime innocenti abbiamo certamente il dovere di rendere il lavoro più sicuro, con nuove leggi e soprattutto con la capacità di applicarle, che è il nostro vero punto debole e presuppone un impegno permanente, concreto e rigoroso delle istituzioni e delle forze sociali. Ma abbiamo anche il dovere di far sì che il valore del lavoro sia centrale nel nostro Paese.
Ciò significa saper rispondere a due domande chiave. La prima: la classe operaia esiste ancora o, come sostengono i fautori della società immateriale, è solo un pallido ricordo? La risposta sta nel fatto che la produzione industriale rappresenta tuttora l’asse portante della nostra economia, i cui beni non possono prescindere dalla fabbrica. Nemmeno tutto quello di avveniristico che ci proporrà la modernità potrà mai prescinderne del tutto. In Europa sono l’Italia e la Germania i Paesi a più forte composizione operaia. Se guardiamo fuori dall’Europa e dagli Usa, ci accorgiamo che nel resto del mondo la globalizzazione ha creato, negli ultimi vent’anni, una massa globale di nuovi salariati e operai: un miliardo e mezzo, un fenomeno senza precedenti nella storia. Si pensi che la formazione del proletariato in Europa e negli Usa con la rivoluzione industriale si estese per oltre un secolo, tra Ottocento e Novecento, e coinvolse 100 milioni di persone. I loro discendenti sono oggi circa mezzo miliardo: operai che le imprese europee e americane contribuiscono a porre in concorrenza con quel miliardo e mezzo di lavoratori degli altri Paesi del mondo, che hanno diritti molto minori e salari molto più bassi. Ed è evidente che il problema della sicurezza dei nostri operai ha a che fare anche con questa concorrenza.
La seconda domanda è la seguente: se la cultura liberista ha relegato ai margini il lavoro operaio, che pure esiste e non è scomparso, rendendolo “invisibile”, come invertire la rotta? Come e dove si pone la questione sociale oggi? E’questo il tema cruciale del riformismo e della sinistra a livello nazionale, europeo, mondiale. Vedremo, nelle prossime settimane, come i partiti che stanno nascendo in Italia nel campo del riformismo e della sinistra affronteranno il problema.
Non mi sfugge che oggi il mondo del lavoro è cambiato, e che se è vero che gli operai ci sono ancora, è anche vero che non ci sono solo loro. E so bene che il riformismo e la sinistra non possono risolvere questo tema cruciale con lo sguardo rivolto al passato. Non basta il classismo marxista, bisogna capire che al centro oggi c’è l’individuo con la sua spinta alla libertà e all’autonomia. Le domande degli operai non sono solo quelle delle tutele e dei diritti in fabbrica. A determinare la condizione sociale concorrono tante altre cose: essere uomo o donna, in quale famiglia si vive, cosa si fa nel tempo libero, il fattore cultura-conoscenza, le relazioni sociali della persona… Ma le domande relative alla sicurezza sul luogo di lavoro e al salario restano fondamentali, non sono scomparse.
La questione, per me, è questa: l’asse politico-ideale e il programma del riformismo e della sinistra devono esprimere una visione della società in cui questo nuovo mondo del lavoro ha una collocazione ben delineata. Insomma, senza gli operai e i lavoratori, senza i ceti più deboli, il riformismo e la sinistra non esistono. Ma il riformismo e la sinistra devono essere capaci di collocare il ruolo del mondo del lavoro in un contesto in cui le sue rivendicazioni coincidono con un progetto di sviluppo della libertà e di crescita dell’economia, con l’interesse generale del Paese.
Se è così, sicuramente non servono l’antagonismo e l’estremismo, ma nemmeno potrà servire rifare la DC, cioè un partito che tende a identificarsi indistintamente con tutta la società.
Giorgio Pagano
Presidente di ANCI Liguria
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