Il coraggio della libertà e la buona politica
Il Secolo XIX – 11 aprile 2010 – Ieri ero a Valmozzola, nel Parmense, a commemorare uno degli episodi più tragici della storia delle terre di Spezia, Parma e Massa: l’eccidio del 17 marzo 1944. Era l’inizio della Resistenza, nelle montagne si costituivano le bande dei ribelli: operai e studenti -molti gli spezzini- e contadini di quelle valli. Il 13 marzo un gruppo di partigiani assaltò alla stazione di Valmozzola il treno Parma-Spezia, facendo prigionieri alcuni militari tedeschi e repubblichini. Il giorno dopo i partigiani del gruppo del Monte Barca, nel Bagnonese, vennero sorpresi dai repubblichini. Due furono uccisi, uno riuscì a fuggire. Gli altri vennero tradotti a Pontremoli, uno morì per le ferite. Poi gli interrogatori e le sevizie, e l’ultimo viaggio per la fucilazione: a Valmozzola, perché i fascisti volevano far credere che quei partigiani fossero gli stessi dell’assalto al treno. Uno di loro fu graziato perché, mentirono i compagni, era stato costretto a salire ai monti. Otto partigiani furono fucilati. Morirono gridando “Viva l’Italia”. Il Vescovo di Pontremoli, che tentò di salvarli e pregò fino alla fine con loro, così scrisse ai genitori: “Sono morti sorridendo, la loro morte ha sapore di martirio”. La rappresaglia voleva essere esemplare, per impedire che altri giovani salissero ai monti e che la gente di montagna fosse solidale con loro. Ma ottenne il risultato opposto. La Resistenza si radicò sempre più e diventò un grande fatto di popolo, fino alla vittoria del 25 aprile 1945. Prima degli alleati, a Spezia e in tante altre città del Nord, arrivarono i partigiani. Furono loro a salvare la dignità dell’Italia agli occhi del mondo.
Gli spezzini erano la maggioranza sia a Valmozzola – c’erano i comunisti Paolino Ranieri e Ezio Bassano, futuri sindaci di Sarzana e Arcola- sia sul Monte Barca: il loro capo spirituale era Ubaldo Cheirasco, studente socialista. La serenità e la fierezza dei suoi ultimi giorni simboleggia l’esperienza di tanti ragazzi che decisero di pensare alla vita non come a una chiusura in se stessi ma come a un cammino di libertà da compiere insieme agli altri.
Ho grande affetto per la sorella Teresa, straordinaria novantenne. E’ ancora vivo in lei il ricordo del primo grande dolore: era il 1933, suo padre aveva perso il lavoro perché non iscritto al partito fascista. La morte di Ubaldo comportò per Teresa la prigionia per tre mesi. Resistette agli interrogatori, fino alla libertà in attesa di processo. “Entrai ragazza e uscii donna”, racconta. Fuggì per non essere nuovamente arrestata e per aiutare i partigiani. Insegnante, impegnata nell’Anpi, fu consigliere comunale indipendente del Pci e poi assessore con Varese Antoni. Si ritrova poco nel mondo di oggi, mi confessa, ma ha fiducia: “Bisogna educare i ragazzi ad avere degli ideali”. La storia va fatta conoscere a tutti i giovani, a quelli che hanno gli accendini con l’immagine di Mussolini e i telefonini con la suoneria di “Faccetta nera”. Non dobbiamo dimenticare la tragedia del fascismo: 50.000 italiani ebrei consegnati a Hitler, centinaia di migliaia di soldati mandati a morire, decine di migliaia di sloveni, etiopi, greci ammazzati a casa loro perché il fascismo voleva far rinascere Roma imperiale, oppositori in galera o uccisi… Non dobbiamo dimenticare i ragazzi come Ubaldo. Nella loro scelta c’è la nobiltà della buona politica: dare un senso al presente pensando al futuro, pensare a se stessi in relazione agli altri. C’è il coraggio della libertà.
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