Se Merkel e Sarkozy vogliono tasse di sinistra
Il Secolo XIX 29 settembre 2009 – Il G20 di Pittsburgh non è stato l’appuntamento con la riforma del capitalismo globale entrato in crisi un anno fa. Non che il vertice sia stato inutile: si è deciso di sostituire definitivamente il G8 con il G20, coinvolgendo giustamente i Paesi emergenti, e sono state varate prime misure sugli stipendi dei banchieri e dei supermanager. Ma il tema delle regole e della riforma dei mercati è passato in secondo piano, osteggiato da quei poteri forti della finanza che hanno riacquistato il potere perduto. Come ha scritto Massimo Baldini sul Secolo XIX, c’è un “rallentamento delle spinte riformiste”, e “la tentazione di riprendere come se nulla fosse successo è molto forte”.
C’è stata una sola mossa ad effetto: il G20 ha affidato al Fondo monetario internazionale lo studio di fattibilità della Tobin Tax. Sta riprendendo quota, infatti, l’idea di una tassa internazionale sulle transazioni finanziarie: un segnale preciso contro la speculazione e per la stabilizzazione finanziaria, oltre che per il reperimento di risorse da destinare ai Paesi più poveri. A lanciare l’idea è stato il cancelliere tedesco Angela Merkel, con l’appoggio del presidente francese Nicolas Sarkozy, durante il vertice Ue svoltosi nei giorni scorsi a Bruxelles in vista del G20. A dimostrazione che qualcosa si muove sono arrivate le prese di posizione favorevoli del presidente della Commissione Ue Josè Manuel Barroso e del Commissario agli Affari monetari Joaquin Almunia (“purché si applichi a livello mondiale, per non compromettere la competitività dell’Europa”). E, a Pittsburgh, i leader sindacali di tutto il mondo hanno rilanciato la proposta incontrando i big del G20.
Ma l’Europa è divisa: la Gran Bretagna è contraria, l’Italia, come sempre, è assente. Gli Usa, per ora, non si sono pronunciati. I Grandi del mondo, con tutta probabilità, scarteranno questa idea. Ma quali altre idee verranno fuori per dare nuove regole al mondo della finanza e delle banche? Purtroppo non se ne vede traccia.
Naturalmente la Tobin Tax non è la panacea di i tutti i mali. Non è nemmeno un’idea nuova: ma il fatto che ciclicamente si riaffacci è la dimostrazione della sua validità. Venne proposta per la prima volta nel 1972 da James Tobin, discepolo di John Maynard Keynes e premio Nobel per l’economia nel 1982. L’idea consiste in una piccola imposta applicata al valore di ogni transazione finanziaria che implichi conversioni da una valuta all’altra. Per esempio, se una imposta dello 0,1% venisse istituita in Europa, un operatore che decidesse di cambiare 100.000 euro in dollari dovrebbe pagare 100 dollari per effettuare la conversione. Essendo molto piccola, la tassa agisce principalmente su coloro che effettuano molti scambi nel corso di un anno, e in particolare su chi effettua operazioni speculative, che implicano continue conversioni da una valuta all’altra. Riccardo Bellofiore e Emiliano Brancaccio la definirono giustamente “il granello di sabbia”, in un libro del 2002 con questo titolo. Il granello che, come spiegò Tobin nell’intervista a Der Spiegel del 2 settembre 2001, pochi mesi prima della morte, può limitare le oscillazioni dei tassi di cambio e dare la possibilità di liberarsi dalla tirannia dei mercati finanziari, ripristinando un certo grado di controllo politico sui tassi di interesse. Il primo tassello di una politica economica alternativa al neoliberismo, di cui si avverte ancora la mancanza. E la garanzia di poter cominciare finalmente a sradicare la povertà estrema: a un tasso dello 0,1% la Tobin Tax reperirebbe ogni anno 166 miliardi di dollari, il doppio della somma annuale necessaria, dalla quale siamo lontanissimi.
L’idea fu ripresa nel 1997 da Ignacio Ramonet, redattore di Le Monde diplomatique, in un editoriale intitolato “Disarmare i mercati”. Ramonet fu tra i fondatori dell’associazione ATTAC, grazie alla quale la Tobin Tax diventò, con un certo disappunto del suo ideatore, uno degli obbiettivi dei movimenti critici verso la globalizzazione.
Nel gennaio 2002 ero a Porto Alegre, al Forum sociale mondiale. Ricordo le discussioni sui pro e i contro della Tobin Tax, con Noam Chomsky, Naomi Klein, Susan George, Joseph Stiglitz e tanti altri. Alla fine la tassa entrò negli obbiettivi del documento conclusivo del Forum. Quel movimento, che denunciava i drammi prodotti dal neoliberismo, era un segno premonitore, che la sinistra riformista non capì. Chiusa in se stessa, non tese l’orecchio a sufficienza verso una generazione di giovani portatrice di una rivolta etica sincera, che fu lasciata sola. Certo, la ricchezza di quel movimento stava più nella parte “destruens” che in quella “construens”. Ma anche in questa c’erano spunti di grande interesse, come la Tobin Tax. Si tratta di una misura che oggi dovrebbe essere “tipica” per un riformismo della giustizia sociale: far sì che il sistema finanziario ripaghi quello che è stato speso per sostenerlo nella crisi, e destinare le risorse ai Paesi più poveri, che non devono essere penalizzati da una crisi della quale non hanno responsabilità. Il fatto che sia rilanciata da due leader conservatori come Merkel e Sarkozy la dice lunga sulla subalternità di una sinistra che è andata troppo verso la cultura liberista e ha trascurato ogni intervento di correzione dell’economia globale.
Giorgio Pagano
L’autore, già sindaco della Spezia, si occupa di cooperazione internazionale nell’Anci (Associazione nazionale comuni italiani) e di politiche urbane nella Recs (Rete città strategiche).
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