La strage di Punta Bianca e il rapporto tra partigiani e alleati
Ameglia Informa 1°marzo 2024
“Ameglia informa” ha pubblicato, negli anni, molti articoli sulla strage dei quindici soldati americani del 26 marzo 1944. Io stesso ho dedicato alla vicenda un articolo in due puntate, “L’eccidio di Punta Bianca e le nuove scoperte sulle menzogne di Kesselring” (“Ameglia Informa”, maggio e giugno 2022).
Tra gli storici della Resistenza in Liguria uno dei primi a scriverne fu Franco Gimelli nel 2005, nell’edizione aggiornata dell’opera del fratello Giorgio, che era stata scritta nel 1965. Ecco il testo:
“Il 22 marzo era sbarcata sulla costa ligure, 25 km a nord-ovest della Spezia, una missione americana composta da due ufficiali e tredici uomini del 267° Battaglione di ricognizione statunitense, molti dei quali di origine italiana. Scopo della missione preparata dal capitano Albert Matarazzi, uno dei principali capi dell’OSS, denominata Ginny, era di far saltare la galleria che unisce Framura e Bonassola per interrompere le comunicazioni tra Liguria e Toscana. A causa delle condizioni del mare il gruppo sbarcò in un punto lontano dall’obiettivo assegnato. I tedeschi e i fascisti, che due giorni dopo avevano ritrovato i gommoni serviti allo sbarco, iniziarono la caccia all’uomo che portò all’individuazione e, dopo una breve scaramuccia, alla cattura degli americani che furono tradotti al Comando della 135a Festungsbrigade (Brigata da fortezza). Benché si trovassero in regolare uniforme e quindi da considerarsi prigionieri di guerra, due giorni dopo, in barba alla Convenzione di Ginevra, vennero fucilati in località Punta Bianca.
Sebbene i tedeschi avessero tentato di far sparire ogni traccia del massacro, alla fine della guerra l’OSS riuscì a individuare la fossa comune dov’erano sepolti i quindici soldati americani e a recuperare le loro salme. Il generale Anton Dostler, comandante del LXXIII Corpo d’armata germanico, riconosciuto responsabile dell’eccidio, fu condannato a morte e giustiziato come criminale di guerra”.[1]
Il nome “Ginny” fu ispirato, sembra, alla fidanzata di uno dei quindici soldati del commando. Un primo blitz, nella notte tra il 27 e il 28 febbraio, non era riuscito perché il commando era sbarcato in un punto sbagliato. L’operazione “Ginny II” fu ritentata il mese successivo. La terraferma fu raggiunta nella notte tra il 22 e il 23 marzo. Ci furono ancora errori, e altre complicazioni. I quindici si nascosero tra le rocce della spiaggia di “Scà”, poi raggiunsero una stalla abbandonata a Carpeneggio, dove un giovane contadino, Franco Lagaxio, diede loro del cibo e fornì informazioni sulla galleria. Ma non ebbero fortuna: la mattina del 24 un pescatore scoprì i gommoni e avvisò il Fascio di Bonassola. Lagaxio cercò di avvertire gli italo-americani, ma era ormai troppo tardi. I fascisti e i nazisti avevano già catturato il commando.
Ottant’anni dopo omaggiamo le vittime ricordando i loro nomi. Erano militari dell’OSS, il corpo dell’esercito statunitense che veniva impiegato in operazioni speciali. I componenti dei commandos venivano generalmente scelti tra i soldati con origini familiari nei Paesi obiettivo delle missioni. In questo caso due nati in Italia e tredici figli di emigrati italiani in America: Santoro Calcara, Angelo Sirico, Alfred L. De Flumeri, Salvatore Di Sclafani, Joseph M. Farrell (la madre era italiana), John J. Leone, Joseph A. Libardi, Dominick C. Mauro, Joseph Noia, Vincent J. Russo, Thomas N. Savino, Rosario F. Squatrito, Paul J. Traficante, Liberty J. Tremonte, Livio Vieceli.
Nell’articolo del maggio-giugno 2022 mi sono soffermato sui crimini dei tedeschi, su chi di loro nel dopoguerra pagò – Anton Dostler – e su chi invece ebbe salva la pelle, pur portando le maggiori responsabilità – Albert Kesselring. Questa volta mi soffermo sugli alleati americani, sulle difficoltà e le incomprensioni così come sulle condivisioni che caratterizzarono il rapporto tra partigiani e alleati. Il più importante storico della Resistenza spezzina e lunigianese, Giulivo Ricci, scrisse:
“Una convivenza compiutamente idilliaca non era possibile, se non con l’abdicazione della propria dignità, ma una convivenza ‘dialettica’ lo era, con una comprensione, che non significava accettazione, delle esigenze altrui e, se vogliamo, di una funzione altrui, non condivisa ma reale con la quale fare i conti, giorno per giorno, senza un eccessivo drammatizzare[2]”.
Un rapporto complicato, a volte tempestoso, ma infine positivo. Più complicato con gli inglesi che con gli americani, spesso in contrasto tra loro. Certamente sia gli inglesi che gli americani avevano inizialmente assegnato alla Resistenza un ruolo limitato: avrebbero voluto dei piccoli gruppi militari sotto il loro controllo, senza vera partecipazione popolare. Anche per poter meglio condizionare – più di quanto poi riuscirono comunque a fare – le sorti politiche dell’Italia del dopoguerra.
Ma a poco a poco, a partire dalla primavera del 1944, il rapporto crebbe in stima e collaborazione. Gli alleati cominciarono a capire che il ruolo dei partigiani era decisivo negli Appennini. Già a fine marzo diedero al CLN Alta Italia 160 milioni di lire: avevano calcolato che ogni partigiano venisse a costare mille lire al mese. Tra luglio e settembre si impegnarono ad aiutare le bande, anche se il tasso di successo dei lanci era poco sopra il 50%, a causa delle condizioni meteorologiche. Si è spesso sostenuto che gli alleati non inviavano lanci alle formazioni garibaldine, privilegiando quelle moderate. Ma ciò non è vero, e certamente non lo è per gli americani: l’OSS fece un accordo con il PCI e, per fare un solo esempio, fu molto attiva nella Zona partigiana genovese, della quale era commissario politico il comunista sarzanese Anelito Barontini.
Certamente fu commesso un errore nel novembre, con il proclama Alexander che invitava i partigiani a rientrare a casa per l’inverno. Una proposta inapplicabile, che fu respinta. Ma già il 7 dicembre ci fu un accordo, e dal gennaio 1945 alla Liberazione il rapporto migliorò. Fu quello il periodo in cui la presenza americana prevalse rispetto a quella inglese. Il maggiore inglese David Mcintosh nel dopoguerra esaltò la forza militare e morale dei partigiani dell’Italia centrale. Così fece il maggiore inglese Gordon Lett, che operava nella Zona spezzina. Il tenente americano William Wheeler jr., impegnato nella Zona genovese, così scrisse al proprio comando il 21 ottobre 1944: “nelle passate dieci settimane abbiamo ricevuto dai partigiani più di quanto siamo riusciti a dare loro”.
A poco a poco avanzarono le idee dell’internazionalismo e della fratellanza dei popoli, verso la riscoperta, come disse il maggiore inglese Basil Davidson, anch’egli impegnato nella Zona genovese, della “reciproca umanità”.
Giorgio Pagano
[1] Giorgio Gimelli, La Resistenza in Liguria. Cronache militari e documenti, Volume primo, Dall’8 settembre alla stagione dei grandi rastrellamenti, a cura di Franco Gimelli, Carocci, Roma, 2005, p. 94. Gimelli cita, come fonti, l’articolo di Vittorio Gozzer e il manoscritto di Giulio Mongatti, citati anche nel mio articolo del maggio-giugno 2022.
[2]Giulivo Ricci, Alleati e Resistenza nella IV Zona operativa ligure. Aspetti, uomini, momenti, in AA. VV., La Resistenza in Liguria e gli Alleati, Bastoni, Roma, 1989, p. 207.
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