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Ecomuseo della Ceramica Vaccari, una storia del lavoro e dei lavoratori. Le occupazioni operaie del 1965 e del 1972

a cura di in data 13 Settembre 2024 – 20:37

ECOMUSEO DELLA CERAMICA VACCARI
UNA STORIA DEL LAVORO E DEI LAVORATORI

Ponzano Magra 3 febbraio 2024
LE OCCUPAZIONI OPERAIE DEL 1965 E DEL 1972
Relazione di Giorgio Pagano

Ho proposto agli amici del Comune di Santo Stefano Magra e del costituendo Ecomuseo la riflessione storica e l’omaggio ai lavoratori della Ceramica Vaccari – raccogliendo subito il loro consenso, tant’è che l’una e l’altro sono parte integrante di questa giornata – a partire da un punto di vista che è una delle ragioni del mio lavoro di storico: la scelta di reagire a quella che già nel 1986 Franco Andreucci e Gabriele Turi definivano «la progressiva emarginazione, quasi la scomparsa o la ghettizzazione della storia del movimento operaio e della classe operaia»[1]. Ciò rifletteva, sia pure non meccanicamente, un processo di marginalizzazione che avanzava nella società: c’era già stata, in Italia, la sconfitta politica e sociale della seconda metà degli anni Settanta, mentre stava per arrivare a compimento quella del “socialismo reale”. Dopo di allora ci sono state poche eccezioni storiografiche.
Penso che la reazione giusta a questa «emarginazione» stia anche, se non soprattutto, nella consapevolezza che la storia del movimento operaio e della classe operaia è anche la storia degli operai – delle persone che lavorano – e non solo delle “istituzioni” del movimento e della classe, dei partiti e dei sindacati, dei loro gruppi dirigenti.
Le ricerche per la scrittura del libro Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia[2] e per la cura del libro di Dino Grassi Io sono un operaio. Storia di un maestro d’ascia diventato sindacalista[3] mi hanno spinto all’attenzione alla dimensione della soggettività.
La classe operaia non nasce solo dalla produzione o dalle macchine perché, come scriveva Edward P. Thompson, non bisogna togliere significato al «campo dei valori, della cultura […], dove le scelte – normalmente chiamate scelte morali – risultano più chiaramente espresse»[4]. La coscienza e i comportamenti, scriveva ancora Thompson vent’anni dopo, hanno un ruolo:
gli esseri umani sono agenti, per quanto agenti molto limitati, e spesso sopraffatti dalle determinazioni. Ma sono agenti nel farsi della loro storia. Certamente la cosa è collegata alla coscienza, ma la coscienza non è mai automatica, è costruita, è fatta dall’attività[5].
Il rifiuto di ogni determinismo non comporta il rifiuto del ruolo degli «istituti caratteristici», dell’organizzazione e della politica. Scrisse Eric J. Hobsbawm:
l’organizzazione (il “sindacato”, il “partito” o “il movimento”) diventa un’estensione della personalità del singolo lavoratore, che essa integra e completa[6].
La classe operaia c’è stata davvero perché ci sono stati gli operai.
Così come le avanguardie e i gruppi dirigenti sono esistiti solo grazie a un retroterra di impegno e di disponibilità della classe operaia e degli operai, che va compreso e studiato.
Anche lo studio delle occupazioni operaie della Ceramica Vaccari di Ponzano Magra ci invita a pensare a queste interrelazioni, alle connessioni e agli interscambi tra dirigenti e militanti, tra idee e azioni indotte dall’alto e provenienti dal basso. A cercare la complessità, ad avvicinarci alla realtà moltiplicando i punti di osservazione e di riflessione.
Gli operai della Vaccari sono stati “fatti” dai loro partiti e dai loro sindacati.  Emerge, in particolare, un ruolo del PCI e della CGIL. E anche, come vedremo, di alcuni dirigenti, uno tra essi in particolare. Ma si sono “fatti” anche da sé, sono stati “fatti” anche dalla loro autocoscienza della condizione di lavoro e dei bisogni, dalla loro moralità. Hanno intrattenuto relazioni tra loro dando così vita alla classe operaia della Vaccari. E i loro partiti e i loro sindacati sono stati “fatti” anche da loro, dalle tante persone della classe operaia.
Ma com’erano gli operai della Ceramica Vaccari? Emergerà dalla storia che racconterò: erano operai che venivano in gran parte dal mondo contadino; erano rudi, coraggiosi, combattivi; erano caratterizzati  da un forte spirito di classe e da una sorta di “ribellismo istintivo”.
In una provincia con una classe operaia molto forte e radicata, quella della Vaccari fu l’unica classe operaia a dar vita a due occupazioni. Ciò fu il frutto della difficile storia della Ceramica, che costrinse i lavoratori a forme di lotta molto dure. Ma fu anche il frutto dell’autocoscienza, della vita degli operai e della classe operaia della Vaccari. Fu certamente anche il frutto delle scelte delle loro “istituzioni”, ma non solo di esse. Leggiamo questo passo di un comunicato di CGIL, CISL e UIL del 23 ottobre 1965, dopo l’inizio della prima occupazione:
Lavoratori, cittadini! I lavoratori della Ceramica Ligure di Ponzano, dopo 7 giorni di sciopero unitario contro i licenziamenti, visto l’atteggiamento irremovibile della direzione, il giorno 20 ottobre sono stati costretti a rimanere in fabbrica allo scopo di indurre la Vaccari a rivedere il proprio atteggiamento.
Le organizzazioni sindacali, prendendo atto della volontà dei lavoratori di adottare la nuova forma di protesta e di lotta…[7].
Costretti sì dal padrone, ma al fondo scelsero loro, i lavoratori. E i sindacati “presero atto della loro volontà”.
Lo rilevò anche Franco Borachia, capogruppo della DC, nella discussione in Consiglio Comunale alla Spezia: l’occupazione «non ha trovato neppure suggerimento da parte dei sindacati, che hanno preso atto peraltro dell’iniziativa»[8].
Spirito di classe e “ribellismo istintivo” caratterizzarono anche l’impegno delle donne, che lavoravano soprattutto alla calibratura delle mattonelle.
Un articolo de «Il Telegrafo» del 19 ottobre 1965 era intitolato Cercano di bloccare la strada alcune donne alla Vaccari. Scriveva il giornale
Alcune donne hanno cercato di bloccare la strada sedendosi per terra; altre hanno affrontato quei dipendenti che, in auto, cercavano di raggiungere il cancello d’ingresso della fabbrica, dinanzi al quale erano schierati agenti e carabinieri, sindacalisti e operai[9].
Una donna rimase ferita.
Ecco il racconto di Zenech Marani, che fu licenziata nel 1955 per aver diffuso «L’Unità» in fabbrica e poi si improvvisò, per poter vivere, barista:
Quando c’è stata l’occupazione ero lì con loro, mi alzavo alle tre della mattina e andavo davanti alla fabbrica a bloccare i cancelli insieme agli altri. Arrivava la polizia: ci sdraiavamo in mezzo alla strada per non far passare i crumiri. I poliziotti “ne pievu su sotto ai brazzi e tun”, ci mettevano da una parte. Appena ci mollavano tornavamo nel mezzo.
Sopra il mio bar abitava un maresciallo di PS di Sarzana. Quando mi vedeva mi chiedeva che cosa facessi lì, io gli rispondevo di far finta di non conoscermi perché ero lì ad aiutare i miei compagni di lavoro. Una volta durante un tafferuglio mentre sgomitavo mi sento abbracciare stretta, giro “l’ocio” era il maresciallo. “Ma signora ma che cosa fa!”. “Stia zitto maresciallo, gli ho già detto che deve stare di là dai cerri altrimenti lo scalcio anche e le può capitare di prendere qualche calcio negli stinchi. Se va di là dai cerri non ce lo do!”. Difatti mi ha mollato: “Maresciallo vada là dai cerri almeno non lo disturba nessuno, ci lasci difendere il nostro lavoro” ed egli andò aldilà dei cerri[10].
Tra le donne più impegnate c’era Areana Tonelli, che lavorava alle rettangoline.
Prima dell’occupazione dell’ottobre 1965 ci fu, in Ceramica, uno sciopero, il 3 agosto. «La Nazione», il 4 agosto, scrisse:
Un operaio che aveva intenzione di entrare al lavoro sarebbe stato violentemente percosso da alcune persone alcune delle quali, cinque per la precisione, sarebbero state identificate dai carabinieri di Ponzano Magra[11].
Un operaio “crumiro”, Giovanni Pietrilli, denunciò di essere stato aggredito da Rino Guastini – personaggio che ritroveremo più volte in questo racconto, perché era il segretario del Consiglio di Fabbrica della Vaccari durante l’occupazione del 1972 – Ezio Torri, Vittorio Armando Giannini, Tito Baldassari e Areana Tonelli. CGIL, CISL e UIL respinsero con sdegno le accuse:
l’increscioso episodio […] va addebitato non alla volontà di violenza dei lavoratori che in quel momento esercitavano il loro diritto di sciopero, ma all’atteggiamento assunto da un individuo che ha costituito la premessa a quanto poi verificatosi[12].
Vengono in mente i versi di una canzone simbolo delle lotte operaie del Novecento, O cara moglie di Ivan Della Mea:
Quando la lotta è di tutti e per tutti
il tuo padrone vedrai cederà,
se invece vince è perché i crumiri
gli dan la forza che lui non ha[13].
Areana Tonelli c’era anche nel 1972. Nel corso di quell’occupazione numerosi furono i blocchi stradali lungo la Cisa. Sempre con le donne in prima fila. Ecco la testimonianza di Areana :
Nel 1972 durante uno dei tanti blocchi stradali che noi operai “a fevu” per difendere i nostri posti di lavoro, successe che molte di noi furono condotte in caserma a Ponzano. Da Sarzana era venuto un maresciallo per interrogarci e a me che chiedeva ripetutamente “Ma lei da che parte stava nel corteo?”, io rispondevo: “A sinistra Signor Maresciallo, sempre a sinistra!”. Devo dire la verità che mi rispose con un sorriso che a me sembrò bonario[14].
Lo spirito di classe era reciproco, condiviso cioè con l’avversario. La divisione di classe contraddistinse, a Ponzano forse ancora più che altrove, anche le scelte urbanistiche degli anni Cinquanta. Così Mario Giannoni ha descritto la Ponzano di quegli anni:
Le abitazioni più vicine alla fabbrica, prima della Chiesa, rimasero quelle dei tecnici e dei dirigenti, cui seguivano, fino a piazza Cerri, le “villette” degli impiegati; le abitazioni operaie (le case Fanfani) furono alquanto allontanate e costruite con schema a reticolo in località Corea[15].
Vicina alla fabbrica, ma appartata, si ergeva la villa dei Vaccari: con la torretta, «che serviva teoricamente per controllare il paesaggio e gli operai», come ha scritto Alice Cutullè[16].
Il villaggio operaio era lontano, sotto il confinante Comune di Vezzano Ligure, e assai poco vivibile. Qui  abitava anche Areana Tonelli. Una «madre cattolica», come si firmò la moglie di un operaio ceramista, così descriveva il villaggio della Corea – denominato in questo modo perché costruito negli anni della guerra coreana, 1950-1953 – in una lettera a «L’Unità» del 29 marzo 1964:
In tutta Italia non c’è un villaggio con scandalo più scoperto di questo di Ponzano: 1) Tutte le case sono senza marciapiedi; 2) sono malsane perché nel rialzo del piano terra c’è tutta terra di palude […] quando piove, viene su tutta l’acqua con danno di mobilio e alla salute nostra e dei nostri bambini. Altra vergogna che non si può credere: le condutture dell’acqua potabile sono insieme alle tubature dei cessi […] Stanno meglio le sue galline [del prete della Vaccari] che noi, famiglie operaie[17].
Lo spirito di classe era un tutt’uno con la solidarietà di classe. Leggiamo la testimonianza di Giuseppe Testa, alla Ceramica dal 1951, operaio del PCI e della CGIL, succeduto a Guastini negli anni Settanta nel ruolo di segretario del Consiglio di Fabbrica:
Quando ci ammalavamo, per i primi tre giorni non ci pagavano. Ci si aiutava con le collette tra noi [18].
La solidarietà di classe andava al di là della fabbrica. Riguardava gli altri lavoratori spezzini: durante la breve occupazione del 1965 ci fu lo sciopero provinciale dell’industria; nel corso della lunga occupazione del 1972 si tennero, dal gennaio di quell’anno al gennaio 1973, tre scioperi generali provinciali – a sostegno anche di altre vertenze per l’occupazione – e sei scioperi in Val di Magra. La solidarietà riguardava anche altri ceti: gli studenti, i commercianti, gli artigiani.
Sottolineo ancora un tratto della coscienza degli operai della Vaccari, prima di passare al racconto delle due occupazioni: gli operai della Vaccari si batterono non solo per l’occupazione ma anche per la dignità del lavoro. Per il diritto alla salute innanzitutto.
Nel 1964, secondo «L’Unità», nella provincia della Spezia «i silicotici sono saliti a 890. Il 60% di essi è concentrato nella Ceramica Vaccari, dove non è azzardato affermare che un lavoratore su quattro è afflitto dal male, che è irreversibile, cioè non guarisce mai ma tende ad aggravarsi con il passare degli anni»[19].
I ragazzi della scuola popolare di Ponzano, nel 1974, fecero un’inchiesta sulla silicosi e pubblicarono i risultati nel «Giornalino n. 2»: su 232 lavoratori della Vaccari 58 avevano la silicosi, su 140 pensionati l’avevano in 50 [20].
Leggiamo la testimonianza di Arrivo Franceschini, operaio alla Vaccari dal 1938 al 1961:
Il lavoro dove c’era più polvere era la pressa: ad ogni colpo si levava una nuvola di povere. […] a Pisa me lo avevano già detto nel 1958: questo tipo di malattia [la silicosi] porta all’infarto ed ai tumori. Io sono stato il primo a porre questo problema. Alla Vaccari, a quei tempi, chi faceva certi lavori difficilmente arrivava alla pensione[21].
Sottolineava con orgoglio Zenech Marani:
Abbiamo messo sulla carta diritti e doveri degli operai e dei padroni. Noi operai della Vaccari siamo stati i primi in Italia a lottare per il riconoscimento della malattia professionale e a chiedere un indennizzo per tutti quelli che lavoravano in Ceramica. A Sassuolo si ammalavano come noi ma non ne sapevano niente[22].
Veniamo alla storia delle occupazioni.
La classe operaia della Vaccari aveva subito una grave sconfitta nel 1958, con oltre 200 licenziamenti.
Così la rammentavano le organizzazioni sindacali di categoria nell’aprile del 1964, un anno di grandi scioperi contro la minaccia di altri licenziamenti:
Le tre organizzazioni sindacali di categoria hanno prontamente risposto alla iniziativa della Vaccari: “Per ciò che riguarda le solite argomentazioni sulla crisi, e il riferimento ai tristi tempi dei 240 licenziamenti, i lavoratori se ne ricordano molto bene, se ne ricordano tanto bene da aver coscienza del fatto che, in quelle circostanze, la Ceramica Vaccari sia riuscita a portare a compimento, attraverso lo specioso motivo della crisi, una operazione che ha permesso all’azienda di realizzare un notevole aumento dei suoi profitti. Sono stati licenziati 240 lavoratori nel giro di pochi mesi; attraverso le ditte appaltatrici è stato assunto un numero di lavoratori notevolmente superiore, a condizioni salariali più basse, aumentando così il supersfruttamento. Ma vogliamo dire ai dirigenti della Ceramica che difficilmente una altra operazione del genere riuscirebbe. Sono infatti mutati i tempi”[23].
Che i tempi fossero davvero mutati lo dimostrò la lotta del 1965. Leggiamo alcune testimonianze di lavoratori.
Giuseppe Testa spiega così il “mutamento dei tempi”:
Il salario era basso. Per i primi cinque anni avevamo sei giorni di ferie l’anno. […] Si lavorava otto ore anche al sabato, e alla domenica fino a mezzogiorno. Nel 1955 quattro operai furono licenziati perché vendevano «L’Unità» in fabbrica: Zenech Marani, Franco Battistini, Giordano Castagna, Renato Mazzoni. Però dopo la situazione migliorò, rispetto alle altre fabbriche. Insomma, noi – il PCI, la CGIL– c’eravamo[24].
«La Vaccari è stata un laboratorio di tutte le lotte in campo provinciale, un punto di riferimento», sostiene Testa. Alla fine degli anni Cinquanta i ceramisti iniziarono a conquistare diritti e libertà. Ma proprio allora cominciarono i problemi dello stabilimento. Continua Testa:
Nel 1958 il problema che aveva davanti la Ceramica era o aumentare la produzione con la capacità di stare poi sul mercato oppure ridimensionare. L’azienda tagliò di colpo molti posti di lavoro, licenziando  oltre 200 lavoratori, anche con un intento di epurazione politica. Facemmo molti scioperi e un’occupazione simbolica della fabbrica, ma pativamo la divisione sindacale.
In quegli anni e poi negli anni Sessanta venne fuori l’incapacità del padrone e dei dirigenti di capire la necessità di una profonda ristrutturazione, di accorgersi che la tecnica e il mercato stavano rinnovandosi. Il primo dato era la produzione nel Sassuolese di enormi quantità di piastrelle con tecnologie e macchinari innovativi, mentre noi lavoravamo ancora con i forni dell’Ottocento. Il secondo dato era che il prodotto che ci aveva fatto grandi, il gres rosso, era diventato una palla al piede, materiale povero, perché altrove si cominciavano a fare le monocotture a grande formato e a bassi costi[25].
Nel 1965 Vaccari inviò 110 lettere di licenziamento. «Questa volta – racconta Testa – la reazione fu fortissima: occupammo la fabbrica, con un grande sostegno della gente. Ottenemmo il ritiro dei licenziamenti»[26].
 
Adriano Sergiampietri, entrato alla Vaccari nel 1961, conobbe da subito una fabbrica diversa da quella di Testa:
Nel 1961 eravamo 1.200. Con i Vaccari non c’erano i controlli, le multe… C’erano i problemi ambientali, quelli sì. Gli anni peggiori dal punto di vista della salute furono quelli iniziali, tutto il decennio fino al 1970. Poi furono prese delle misure, un certo miglioramento ci fu. Le paghe erano basse, ma l’autoritarismo non c’era. Con i Vaccari c’era un certo rilassamento. La mensa fu realizzata nel 1964. Prima qualcuno ci preparava da mangiare dentro, “di frodo”. Al mattino presto andavano a prendere le balle di toro dal macellaio e ce le cucinavano per colazione. Quando lo venni a sapere mi sentii male! Nel 1965 i Vaccari volevano licenziare, lo sviluppo tecnologico comportava, dicevano, un sovrappiù di lavoratori. Occupammo la fabbrica, fu una lotta molto dura, per più di dieci giorni. Alla fine il padrone non licenziò nessuno. Ero critico con il sindacato e con il PCI. Restai iscritto alla CGIL ma uscii dal PCI, e feci tutto il percorso “La Voce Operaia – Il Potere operaio – Lotta Continua”[27].
La vertenza del 1965 iniziò nel luglio di quell’anno, quando la direzione aziendale comunicò alla Commissione Interna la decisione di licenziare 150 dipendenti, perché in esubero. Scattarono gli scioperi, fino a un’intesa tra le parti grazie a una mediazione operata dal Prefetto, dopo lo sciopero del 3 agosto, che ho prima ricordato. Questi i termini dell’intesa:
E’ stato convenuto che i 150 operai sospesi resteranno tali per un periodo di due mesi.
Nel frattempo la direzione della fabbrica e la Commissione Interna si incontreranno per stabilire le modalità dell’esodo volontario. Al termine dei due mesi avverrà un nuovo incontro, durante il quale il problema delle sospensioni sarà riesaminato alla luce dei risultati che saranno derivati dallo sfollamento volontario, e con la migliore volontà di pervenire a una soluzione la meno dannosa possibile[28].
A ottobre, però, ci fu la rottura: la proprietà rinnegò l’accordo, arrivarono 110 lettere di licenziamento. I lavoratori risposero con gli scioperi e poi con l’occupazione, iniziata il 20 ottobre. Fortissima fu la solidarietà dei cittadini e delle istituzioni. I Consigli Comunali di Santo Stefano Magra, Sarzana, Arcola e Ortonovo deliberarono lo stanziamento di denaro a favore dei lavoratori occupanti. In fabbrica si recarono anche numerosi studenti. Il 24 ottobre fu indetto lo sciopero generale provinciale di tutto il settore industriale, durante il quale si tenne una grande manifestazione alla Spezia. Il 29 ottobre la stampa diede la notizia che il Ministro del Lavoro, sollecitato dai Sindaci e dal Presidente della Provincia, avrebbe tentato una mediazione. Il primo novembre la fabbrica venne sgomberata dai lavoratori, dopo tredici giorni. Lo sgombero era la condizione per la convocazione delle parti. Il 2 novembre «L’Unità»  titolò: I ceramisti sono usciti dalla fabbrica ma sono pronti a riprendere la lotta. Accoglienza calorosa della popolazione. Si tratta di una decisione autonoma e responsabile in vista delle trattative fissate a Roma per domani. Ma le trattative fallirono, e ripresero gli scioperi. Alla fine l’accordo si fece. Era il 12 novembre. La CISL respinse l’accordo, firmato dalla CGIL e dalla UIL. La CGIL, ricorda Giuseppe Testa, «aveva il 70% degli iscritti ai sindacati» [29]. Il 3 dicembre gli operai licenziati ripresero il lavoro.
Aldo Segurotti, operaio della Ceramica dal 1951, membro della Commissione Interna, era un dirigente della CGIL, socialista. Seguì da protagonista tutta la vertenza. Ecco il suo racconto, che spiega tanti retroscena:
 
La vera occupazione della Ceramica fu quella del 1965. Fu l’occupazione proletaria, contro il padrone. L’occupazione del 1972 era contro nessuno, il padrone non c’era più. Nel 1965, a luglio, il direttore Domenico Iachetti, soprannominato dai lavoratori “Badoglio”, ci comunicò la decisione dei licenziamenti. Per la CGIL la vertenza era seguita da Giuseppe Montalti, il segretario del sindacato dei chimici, per tutti Beppe. Beppe era comunista, ma era il mio punto di riferimento: era il cervello migliore del sindacato. Riservato, di poche parole, molto intelligente: un gran personaggio.
Facemmo molti giorni di scioperi, andavamo a fare i picchetti di notte: dalle otto di sera alle otto di mattina non passava nessuno. Ogni volta che la polizia cercava di aprire un varco, noi andavamo a chiuderlo. Di fronte all’azienda che non mollava, decidemmo l’occupazione. Tenemmo un’assemblea una sera alla Pineta di Ponzano, gremita di lavoratori. C’era Montalti. I lavoratori erano tutti d’accordo. Ma la mattina dopo dentro eravamo solo in 120, c’era paura. Poi, con l’iniziativa nostra e dei partiti sul territorio, i lavoratori presero fiducia e cominciarono a entrare in fabbrica: arrivammo ad essere 450.
Per sbloccare la vertenza andammo a Roma al Ministero, con una Fiat 850: con me c’erano Angiolino Falugiani, segretario provinciale della CGIL, Orlando Barontini, il segretario aggiunto, socialista, e Montalti. La Vaccari ebbe un atteggiamento di netta chiusura. La situazione sembrava senza via d’uscita. A fine riunione Iachetti mi chiamò e mi disse: “Cosa vuoi per finire?” Io gli risposi: “Lei ritiri i licenziamenti, poi discuteremo”. E lui: “Io sono d’accordo, è la proprietà che non lo è. Insisterò per proporre questa soluzione”. Io riferii a Montalti, che mi disse: “Non ci rimane che santo Pierino. Dobbiamo parlare con Pierino Spadaccini”. Pierino era comunista, legato alla dirigenza del partito, ma malvisto dai lavoratori, anche da quelli comunisti, perché legato a Iachetti. Aveva dato vita a una ditta d’appalto che lavorava con la Ceramica. La dirigenza lo appoggiava perché finanziava il partito e la CGIL. Quando eravamo senza una lira partivo, e Pierino mi dava i soldi per la CGIL. Ci vedemmo a casa mia, con Pierino e Beppe. Era Pierino che doveva parlare riservatamente con Iachetti e concordare le basi di un accordo fondato sul ritiro dei licenziamenti. Era bene lo facesse lui, non noi. Pierino andò da Iachetti, che si impegnò a dare battaglia per far cedere i Vaccari. Lo fece in una riunione a Genova, dov’era la sede della direzione della Ceramica, davanti alla Stazione Brignole. “Badoglio” uscì dalla riunione con i Vaccari e fece il segno della vittoria a Spadaccini e a Montalti. Avevano ritirato i licenziamenti. Beppe mi fornì la documentazione e facemmo l’accordo. La CISL non firmò: voleva che non ci fosse più l’appalto alla ditta di Spadaccini, che tutte le attività e il personale tornassero alla Vaccari. Era un attacco alla CGIL. Noi dicemmo che la priorità era il ritiro dei licenziamenti, e che poi avremmo posto la questione della gestione diretta di tutte le lavorazioni. Cosa che facemmo: la ditta fu chiusa, la frattura con la CISL fu ricomposta. La verità è che la proprietà cedette sui licenziamenti quando diventò consapevole che eravamo troppo forti: c’era stata una sottoscrizione popolare, la gente era solidale, la classe operaia era unita. Iachetti mi disse: “Quando ho visto che mangiavate i tordei in fabbrica ho capito che avevo perso la partita”. Anche la magistratura stava con noi. Il pretore venne in fabbrica e ci disse: “Vi spiego io come fare. Domani a un’ora concordata vi mando l’ordinanza di sgombero, voi a quell’ora non fatevi trovare dentro, andate al bar vicino”. L’atto fu notificato al bar. Il che dimostrava che eravamo fuori dalla fabbrica: così non fummo incriminati. Fu una grande lotta proletaria di cui essere orgogliosi. Durante quei tredici giorni avevamo continuato a produrre. Iachetti ci disse: “Ho trovato la fabbrica più in ordine e pulita di quando l’avete presa”[30].
Il 23 novembre Giuseppe Montalti scrisse una lettera alla segreteria nazionale del sindacato di categoria, che iniziava giudicando l’accordo «estremamente positivo» e così proseguiva:
Al fine di chiarire lo spirito dell’accordo, e valutarne quindi tutto il suo valore, va considerato che, per ciò che concerne il problema dei licenziamenti, la vertenza si chiude senza l’effettuazione di alcun licenziamento da parte dell’azienda. Infatti con l’apertura delle dimissioni volontarie su nuove basi economiche, anche se l’accordo stabilisce formalmente che chiuso il bando di dimissioni volontarie le parti si incontreranno per esaminare la situazione, di fatto si è tacitamente convenuto che il problema a quel momento è praticamente superato e che i lavoratori che rimarranno dopo lo scomputo dei dimissionari rientreranno in fabbrica senza nessuna interruzione del rapporto di lavoro[31].
Montalti rilevava poi la «notevole importanza» dei punti dell’accordo sull’orario di lavoro e l’utilizzo degli impianti, «frutto di una notevole discussione con la controparte che ha investito tutta la situazione dell’azienda, e che contrapponeva alla linea padronale di una stagnazione della produzione globale con la non utilizzazione di tutti gli impianti, la nostra linea di una ripresa piena dell’attività produttiva, con l’utilizzazione di tutti gli impianti e il ritorno all’orario normale di lavoro, come garanzia di mantenimento dell’attuale organico»[32].
La lettera si concludeva riferendo la posizione della CISL e la scelta di firmare l’accordo con la UIL, senza la CISL, che «ha scatenato contro di noi dopo la firma dell’accordo una campagna denigratoria tentando di diminuirne il valore e la portata»:
Dobbiamo dire che i lavoratori della Ceramica hanno reagito molto bene a questa posizione polemica della CISL, valutando in linea generale giustamente l’accordo concluso. Per ciò che riguarda la posizione di rottura della CISL essa corrisponde a obiettivi estremamente complessi collegati al gruppo dirigente dell’azienda che troppo lungo sarebbe spiegare. Comunque sia, la nostra risposta si è mantenuta nei limiti di una polemica seria e pacata nell’ambito dell’esigenza unitaria sempre presente alla nostra organizzazione[33].
Riprendiamo il racconto di Giuseppe Testa:
Il 1966, il 1967 e il 1968 furono anni apparentemente di grandi prospettive. Vaccari ottenne tre miliardi dall’IMI, costruì di fatto uno stabilimento nuovo. Eravamo convinti di poter fare la concorrenza a Sassuolo, e invece i Vaccari facevano tutto quello che a Sassuolo stavano superando[34].
Arrivò il Sessantotto. La vertenza di inizio anno pose al centro il mantenimento degli organici della Ceramica e delle ditte appaltatrici. Un comunicato sindacale, nell’annunciare gli scioperi del 21 e del 25 maggio 1968, criticava la posizione della direzione aziendale come assurda e inconcepibile e citava queste cifre:
Dal 1965 ad oggi vi è stata una diminuzione dell’organico di 278 unità mentre nello stesso periodo la produzione è passata dai 10.700 metri giornalieri ai 12.600. Tutto ciò senza l’introduzione di nuove tecniche fondamentali ma con un processo di maggiore sfruttamento della manodopera[35].
La vertenza poneva inoltre obiettivi legati all’aumento del salario e alla rivalutazione dei cottimi e obiettivi legati alla salute, cioè misure protettive per la silicosi.
Anche alla Vaccari, come nelle altre fabbriche, la lotta dei sindacati fu unitaria. Luciano Gnarini era diventato responsabile della CISL nella Commissione Interna nel 1966, dopo le divisioni nella fase conclusiva dell’occupazione del 1965:
Entrai alla Ceramica nel 1953, ho sempre fatto il fuochista. Le condizioni ambientali erano dure, ma soprattutto in altri settori: le presse, la calibratura, i mulini… Lo sfruttamento c’era, ma meno che altrove… Sono di Ponzano Superiore, la zona “bianca” del Comune di Santo Stefano. La mia formazione è stata nella CISL e nelle ACLI. Dal 1966-1967 le lotte sono sempre state unitarie, il rapporto con la CGIL è sempre stato buono. Nel 1968 avevamo tre obiettivi: occupazione, salario, salute[36].
 
L’accordo, siglato il 28 giugno 1968, assicurava che, «ultimata la trasformazione degli impianti, prevista per la fine del 1969, qualora il personale in forza dovesse risultare esuberante rispetto all’organico, esso sarà mantenuto in forza fino a che, per effetto degli esodi naturali, non verranno annullate tali eventuali eccedenze. L’orario di lavoro, che da alcuni anni era stato ridotto a quaranta ore settimanali con una notevole decurtazione del salario dei lavoratori, tornava ad essere quello previsto dal contratto nazionale». Circa il salario, veniva sancito «un aumento sulla busta paga oraria variabile da quindici a trenta lire» per i lavoratori non cottimisti. Sulla salute, la direzione dava assicurazione che «sarà costantemente curata la pulizia degli impianti e dei locali di lavoro e che verranno adottati tutti gli accorgimenti tecnici atti ad eliminare la polvere presente nei reparti». L’accordo, infine, prevedeva «il numero dei lavoratori che debbono fruire del soggiorno montano, nonché il loro trattamento che comporterà un onere complessivo per l’azienda di circa tredici milioni»[37].
Il 1968 fu anche l’anno in cui nacquero i primi gruppi che criticavano il PCI “da sinistra”, e che consideravano la Vaccari terreno privilegiato di intervento. Nella fabbrica si costituì un nucleo attorno al giornale «La Voce Operaia» e poi ai gruppi operaisti che gli succedettero, che nel 1969 diede vita a un Comitato Unitario di Base, l’unico nelle fabbriche spezzine. Cito un nome per tutti di questo nucleo, ricordando chi non c’è più: Giorgio Chiodo. Così lo descrive Andrea Ranieri, uno dei fondatori de «La Voce Operaia»: «un operaio della Vaccari intelligente e curioso, che aveva un senso della vita non in mano al padrone. Non faceva straordinari, si faceva bastare quel che aveva»[38].
Gli operai della Vaccari furono, anche nella seconda metà del 1968, tra i più combattivi.
La vertenza d’autunno mise al centro gli aumenti salariali, la riduzione dell’orario di lavoro, il miglioramento della mensa, la lotta contro la silicosi, il diritto di assemblea. Molti gli scioperi: il 18 e 19 ottobre, l’8-9-10 novembre, il 16 e 17 novembre, il 21 e 22 novembre e il 9 dicembre, fino alla conclusione della vertenza, annunciata il 22 dicembre.
Spiega Giuseppe Testa:
 
Il Sessantotto fu un coacervo di tante cose. L’epilogo di dieci anni di lotte furibonde, che erano cominciate all’inizio degli anni Sessanta. Volevamo lavorare e vivere meglio, e poi c’era il Vietnam… La speranza di un mondo nuovo[39].
Anche nel 1969 i lavoratori della fabbrica di Ponzano diedero vita a una vertenza aziendale, che si concluse positivamente a novembre:
La vertenza della Ceramica Ligure Vaccari, che era in atto da tempo, si è conclusa con un accordo tra le parti. Le richieste dei lavoratori che proponevano un aumento salariale generale di cinquanta lire orarie, la riduzione dell’orario di lavoro, alcune garanzie riguardanti l’organico e le condizioni ambientali, sono state pressoché interamente accolte nell’accordo stipulato tra le organizzazioni sindacali, la delegazione dei lavoratori e i rappresentanti dell’azienda.
L’aumento dunque sarà di quaranta lire orarie (venti lire a partire dal primo novembre, altre venti dall’aprile prossimo), l’orario di lavoro sarà ridotto di un’ora a partire dal primo gennaio prossimo e di un’altra mezz’ora dal primo giugno.
Per quanto si riferisce al problema dell’organico, l’accordo prevede, oltre a una serie di garanzie, il passaggio a tempo indeterminato di trentacinque lavoratori recentemente assunti con contratto a termine. Inoltre l’azienda è impegnata a potenziare tutte le necessarie misure intese a combattere il grave fenomeno della silicosi[40].
Racconta Aldo Segurotti:
Dopo l’accordo, in una riunione, Rino Guastini “Purin” disse: “Purtroppo abbiamo preso quaranta lire di aumento”. Intendeva dire: “Non cinquanta”. Vaccari intervenne: “Purtroppo fallo dire a me”. Era una classe operaia unita… Con un forte spirito di classe, contro il padrone e i dirigenti. Quando il direttore Domenico Iachetti andò in pensione, “Purin” fu costretto da Beppe Montalti a firmare la pergamena… Ma lui cercò di nascondere la firma![41]
 
Intanto la crisi della fabbrica si aggravava. La lotta per la sua salvezza cominciò nella primavera del 1971. Il 7 dicembre di quell’anno non fu accordata alla Vaccari l’amministrazione controllata. Da allora l’obiettivo fu quello di far acquisire la Ceramica dalla GEPI, finanziaria pubblica, che avrebbe poi dovuto cercare un partner privato.  E di garantire i livelli occupazionali e i diritti acquisiti. Obiettivi niente affatto semplici.
Il 16 dicembre gli operai della Vaccari, che erano a salario ridotto da sei mesi e non avevano percepito lo stipendio di novembre, scioperarono e installarono una tenda in piazza Europa, alla Spezia, «quale momento dimostrativo del loro malcontento, allo scopo di maggiormente sensibilizzare la cittadinanza»[42]. Le persone firmavano, venivano a portare solidarietà. Il gruppo Iustitia et Pax-Amici del terzo mondo, che vegliò tre notti nei vicini Giardini Pubblici contro il consumismo, incontrò per la prima volta la classe operaia e scrisse di una lotta comune contro «il valore assoluto del profitto a scapito dei veri valori della persona umana»[43].
“Purin”, intervistato dalla RAI, accusò la direzione di «infelice amministrazione e di scarsa visione nella programmazione»[44].
La tenda fu smontata il 15 gennaio 1972, dopo un mese. Fu siglato un accordo di massima con la GEPI: il primo tra tanti momenti di illusione e di speranze non fondate. Il 28 gennaio la Vaccari presentò l’istanza di fallimento. La fabbrica fu occupata alle 13,30. L’indomani, domenica, si tenne una manifestazione all’interno. Quella alla Spezia, un corteo da piazza Europa a piazza Beverini, si svolse il primo febbraio: «nel corso della manifestazione – scrisse «Il Telegrafo» – alcune giovani operaie scandivano lo slogan “No alla chiusura degli stabilimenti”, “Vogliamo lavorare”»[45]. Le donne erano sempre in prima fila: «facevano lo stesso nostro lavoro, ma prendevano di meno»[46] racconta Giuseppe Testa.
Leggiamo ancora la sua testimonianza:
Dopo il fallimento la direzione andò a casa. Facevamo funzionare gli impianti al minimo. All’interno organizzammo una mensa che faceva 450 pasti tre volte al giorno. Una volta facemmo i ravioli per tutti. Ci fu una grande attenzione politica, sociale, sindacale attorno alla Vaccari. Tutte le istituzioni, i parlamentari erano al nostro fianco. Soprattutto tutta la Val di Magra: eravamo un fattore insostituibile dell’economia della vallata, 1.400 milioni annui per salari e stipendi.
L’unica strada era quella della GEPI. Aveva il compito di salvare e poi di mettere sul mercato le fabbriche in crisi. Abbiamo fatto pressione sulla GEPI, siamo riusciti a fare un primo accordo. Andammo da Piccoli, ministro delle Partecipazioni Statali. Aspettammo tutto il giorno, non si faceva vedere. “Purin” disse che da quel momento gli operai occupavano il Ministero. Dopo tre quarti d’ora Piccoli era nel salone. Disse pochissime parole: “Darò mandato alla GEPI perché risolva il problema”. Si creò la società ETA-GERI, con la GEPI e la Finanziaria Ligure[47].
I giornali confermano l’episodio. Il 5 febbraio «Il Telegrafo» titolò: Avviata a soluzione la vertenza Vaccari. Il ministro Piccoli, in accordo con i ministri del Bilancio, dell’Industria, del Tesoro e del Lavoro, ha chiesto alla GEPI di esaminare con procedura d’urgenza una soluzione positiva per il problema della Vaccari.
E il 6 febbraio il giornale spiegò:
Bisogna dire che alla sera di giovedì [3 febbraio] la situazione sembrava veramente precipitare, che non ci fossero sbocchi di nessun tipo.
A un certo punto tra i sindacalisti e i membri del Consiglio di Fabbrica si è fatta strada anche la prospettiva di minacciare l’occupazione del ministero delle Partecipazioni Statali, per sollecitare la soluzione. L’intervento però di personalità politiche ha fatto rientrare tale eventualità, per mezzo di una mediazione[48].
Ma nel febbraio 1972 si era ancora all’inizio di una vertenza lunga e faticosissima. Furono mesi di incontri continui, a Genova e a Roma. Il Tribunale di Genova accolse l’istanza di fallimento l’8 febbraio. Curatore fallimentare fu nominato Domenico Alessio. Bisognava evitare interruzioni di attività, che avrebbero penalizzato i lavoratori per quanto riguardava le loro spettanze. L’obiettivo era assumere tutti i lavoratori e riconoscere i diritti acquisiti. Poi lo stabilimento sarebbe stato aggiudicato a un’industria del settore. A poco a poco si intuì che però, a quel punto, l’organico sarebbe diminuito. La disoccupazione speciale entrò in vigore dall’8 febbraio, giorno del fallimento. Gli operai prendevano gran parte dello stipendio. Poi subentrò la cassa integrazione, e terminò l’occupazione. Tra fine di settembre e inizio di ottobre la questione si sbloccò. Erano passati otto mesi e mezzo dal primo giorno di occupazione.  ETA-GERI accettò di assumere tutti gli ex dipendenti Vaccari e di collocarli in cassa. «E’ finita così la storia della Vaccari», sostiene Testa.
La soluzione era però ancora lontana. Bisognava riprendere la produzione e trovare un imprenditore privato interessato, senza  perdere i diritti acquisiti. Nel gennaio 1973 gli operai minacciarono di accamparsi nella sede della GEPI. In aprile si siglò un’intesa. Ma l’accordo per la ripresa produttiva fu firmato solo a fine novembre. Il privato era la Sicer Ligure:
Il rapporto di proprietà è stato cosi suddiviso: 20% a ETA-GERI e 80% alla nuova società Sicer ligure. La condizione prioritaria dell’accordo è quella dell’occupazione per tutti i dipendenti della ex Vaccari. Attualmente 280 unità lavorative sono occupate nello stabilimento di Ponzano, le rimanenti 500 sono a disposizione della società e, con l’accordo attuale, vedono rinnovata la cassa integrazione guadagni che era scaduta il 2 ottobre scorso. Per quanto riguarda i livelli retributivi, l’accordo prevede il mantenimento della retribuzione con i logici sviluppi contrattuali, alla luce anche dei nuovi avvenimenti economici. Altro punto fondamentale che riguarda i lavoratori, è l’assunzione entro i primi giorni di gennaio di cento dipendenti. La GEPI ha inoltre prescritto una clausola in cui vincola la società Sicer a non procedere a nessun licenziamento di qui a due anni. La produzione del gres rosso sarà alla base dell’attività della nuova società[49].
I lavoratori riuscirono a non rimetterci molto dal punto di vista economico, cioè del trattamento pensionistico e della liquidazione. Ma il posto di lavoro non c’era per tutti. Ci fu chi andò in pensione, e chi trovò lavoro altrove.
Nei suoi Ricordi della Ceramica Vaccari, pubblicati in un libro di Giancarlo Pietra, Giuliano Giaufret, che a lungo fu dirigente amministrativo dello stabilimento, scrisse:
Nel 1966 fu pubblicata una ricerca del professor Romano Prodi riguardante il fenomeno emergente del distretto industriale delle piastrelle di Sassuolo. Il fatto suscitò interesse presso i vertici dell’azienda che invitarono il professor Prodi a Ponzano per una consulenza. Prodi riconobbe la qualità e la superiorità del prodotto Vaccari rispetto a quello della concorrenza emiliana. Ma segnalò che, malgrado gli investimenti innovativi apportati, la produttività dello stabilimento era nettamente inferiore a quella dei concorrenti, che l’azienda aveva strutture amministrative e commerciali troppo gravose per il settore ceramico e rimase sbalordito per l’enorme consistenza del magazzino dei prodotti finiti. Espresse infine la convinzione che il mercato non fosse disposto ad accettare il divario di prezzo imposto dai costi più elevati. L’azienda, a seguito della consulenza di Prodi, si adoperò per realizzare delle economie nei vari settori operativi, di cui l’esempio più significativo fu il trasferimento dell’ufficio vendite da Genova a Ponzano. Tuttavia, oltre alle cause strutturali interne, il crollo dei mercati esteri e le lotte operaie per il mantenimento dei livelli occupazionali accelerarono il declino che si concluse con il fallimento della società. Successivi tentativi per rilanciare l’azienda, effettuati dall’impresa pubblica GEPI e poi da imprenditori emiliani, dall’imprenditore spezzino Piero Pozzoli, dal gigante austriaco Villeroy e Boch che a sua volta la cedette a un’impresa austriaca, non consentirono il risanamento dell’azienda e la sua ripresa. Cosi nel 2006 si arrivò alla definitiva cessazione dell’attività[50].
Il riferimento di Giaufret alle lotte operaie per il mantenimento dei livelli occupazionali non è condiviso dai lavoratori.
Spiega Giuseppe Testa:
Il fallimento nessuno se lo aspettava. Fu, secondo me, un “fallimento anomalo”: nel giro di sei-sette mesi risolse tutti i problemi debitori, dalle banche agli operai, ai fornitori, pagando spettanze e interessi. Fu una scelta che puntava a far rientrare dalla finestra chi era prima uscito dalla porta, facendogli gestire di nuovo la fabbrica dopo aver messo fuori gli operai. Invece gli operai, con il sindacato, le forze politiche e, soprattutto, la popolazione della zona, riuscirono a imbastire una lotta che permise di tenere aperta la fabbrica e, con un processo successivo, tramite la GEPI e con altri imprenditori, di far ripartire la produzione. Alla fine della storia uscirono i Vaccari. Il problema era che bisognava iniziare un lungo processo di ristrutturazione per riadeguare la fabbrica alle moderne tecnologie. Nel settore delle piastrelle gli adeguamenti tecnologici sono frequenti. Sono prodotti che passano di moda molto rapidamente. Una fabbrica deve inventare continuamente prodotti nuovi, quasi come si fa nel settore dell’abbigliamento. Già prima del 1972, e poi dopo abbiamo sempre sofferto per la mancanza di idee[51].
Già nel libro curato da Mario Giannoni nel 1995 le due visioni contrapposte emergevano bene.
Luciano Vaccari, il padrone, incolpava i lavoratori:
parecchie persone erano in sovrappiù [e invece] i sindacati […] mi hanno chiesto un aumento di paga[52].
 
Giuseppe Bogazzi, tecnico alla Vaccari dal 1947 al 1978, raccontava invece:
La Vaccari era una fabbrica un po’ chiusa, come direttive. Ciò era dovuto al fatto di essere al 100% una proprietà, un bene personale, della famiglia Vaccari che, dobbiamo dirlo, si sono adoperati molto, anche finanziariamente, ma non si sono accorti e preoccupati di quello che in quegli anni succedeva attorno a loro, di che passi aveva fatto il progresso tecnologico. Invece di fare piano piano, un po’ per anno, investimenti migliorativi ora su una linea ora su un’altra, si è arrivati a un certo momento che, per poter riportare la fabbrica ai livelli tecnologici richiesti dal mercato, occorrevano dei capitali ingentissimi[53].
Da qui il fallimento. A Luciano Vaccari subentrarono i figli e in quella fase fu chiamato Prodi, come ricordato da Giaufret. Il quadro drammatico delineato da Prodi «non era colpa dei dipendenti, ma proprio dell’organizzazione del lavoro”[54].
Dice Aldo Segurotti:
Abbiamo lottato per difendere i posti di lavoro, le condizioni di lavoro e l’ambiente. Abbiamo fatto gli scioperi necessari per questi obiettivi. Eravamo una classe operaia adulta, abbiamo fatto anche i sacrifici per salvare la fabbrica. Ma l’azienda peggiorava sempre perché la proprietà sbagliava tutto. Non bastava il nome, la vecchia tradizione… Sbagliò Vaccari e sbagliarono poi i figli di Vaccari. Erano figli di padroni, brave persone ma senza esperienza e conoscenza… Si fecero abbindolare, spesero soldi ma male. Si limitarono anche loro a dare continuità a quel che facevano, ma bisognava cambiare[55].
Spiega Carlo Alberto Giannoni, impiegato alla Vaccari nel settore amministrativo:
Non furono letti i segni dei tempi. Le informazioni c’erano. Ma non si capiva, e chi capiva veniva emarginato. Anche il sindacato non faceva una controproposta di politica economica e tecnologica[56].
Lo ammette anche Testa:
Siamo andati a Sassuolo a vedere… Ma non eravamo all’altezza di fare una controproposta[57].
Non era semplice. In generale, va detto che agli operai, al sindacato, al partito non poteva bastare il punto di vista di classe. Bisognava uscire dalla dimensione economico-corporativa, allearsi con gli studenti e i lavoratori intellettuali, avanzare la proposta di un nuovo modello di sviluppo e di una trasformazione democratica dello Stato, interpretando così le pulsioni vitali del Sessantotto, presto abbandonate dallo stesso movimento studentesco.
In particolare, va detto che il limite fu degli operai della Vaccari come delle loro “istituzioni”. Chissà, forse Beppe Montalti, sindacalista e comunista anomalo, indubbiamente il miglior cervello del sindacato nel dopoguerra, sarebbe riuscito a superarlo… L’intelligenza con cui gestì l’occupazione del 1965 può farlo pensare. Ma Montalti, diventato nel frattempo segretario generale della CGIL spezzina, se ne andò troppo presto: nel maggio 1972, a soli cinquantuno anni.
Non era, tuttavia, un compito facile. Per la salvezza del Cantiere Muggiano gli operai e le loro “istituzioni” una controproposta la fecero. Ma nel territorio c’era “la cultura della nave”. Non c’era invece, tornando alla Vaccari, quella “cultura del distretto” che c’era nel Sassuolese. Tutto veniva realizzato a Ponzano, senza alcuna sinergia con il territorio, che non aveva del resto la cultura adatta.
Concludo con alcune brevi riflessioni su “che cosa resta di questa storia”.
Resta indubbiamente la consapevolezza della necessità di avere industrie, fabbriche che creano cose. L’economia non può essere solo rete, dev’essere anche produzione. Porto, turismo e servizi sono componenti essenziali del modello di sviluppo, ma resta la necessità dell’industria tecnologica e innovativa: una “reindustrializzazione gentile”, non più nociva alla salute delle persone e dissipatrice del paesaggio.
E resta indubbiamente la consapevolezza della necessità di dare dignità al lavoro. Il tema riguarda gli operai, la loro coscienza, e riguarda le loro “istituzioni”. Il mondo del lavoro è cambiato e cambierà ancor più profondamente in futuro. Ci sarà sempre più una grande varietà di forme di impiego, di livelli retributivi, di orari, di configurazione di luoghi di lavoro, di situazioni assicurative e pensionistiche. Ci saranno “nuovi” lavoratori della conoscenza e “nuovi” operai. L’unità di questo mondo non può che essere, come sempre nella storia, una costruzione culturale, creata dal basso e dall’alto. Con l’obiettivo di dare valore economico, sociale, professionale a tutti i lavori e di realizzare un percorso di dignità del lavoro e attraverso il lavoro. Perché il lavoro resta un lavoro mercificato. La storia degli operai della Vaccari è finita, ma ci parla ancora la loro lezione di lotta per la dignità. Le idee e la cultura di allora non bastano più. Ma quelle lotte spingono a pensare il mondo nuovo con la consapevolezza delle potenzialità di una parte del passato. Anche per questo oggi ringraziamo e omaggiamo gli operai della Vaccari.

Giorgio Pagano

[1] FRANCO ANDREUCCI, GABRIELE TURI, La classe operaia: una storia nel ghetto, «Passato e Presente», 1986, 10, p. 4. Sul tema dello scarso interesse, da allora a oggi, per la storia del movimento operaio solo alcuni altri riferimenti: GIOVANNI GOZZINI, Lavoro e classe. Le tendenze della storiografia, «Passato e presente», 1990, 24; PIERO BEVILACQUA, Prefazione a ROBERTO BRUNO, Breve storia del sindacato in Italia. Lavoro, conflitto ed emancipazione, Ediesse, Roma, 2011; ALESSANDRO CASELLATO, GILDA ZAZZARA, Introduzione a ID., Renzo e i suoi compagni. Una microstoria sindacale del Veneto, Donzelli, Roma, 2022.
[2] GIORGIO PAGANO, MARIA CRISTINA MIRABELLO, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, vol. I, Dai moti del 1960 al Maggio 1968, e vol. II, Dalla Primavera di Praga all’Autunno caldo, Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 1919 e 2021.
[3] DINO GRASSI, Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista, ETS Edizioni, Pisa, 2023.
[4] Intervista di Michael Merill a Edward P. Thompson, «Movimento operaio e socialista», 1978, 1-2, pp. 98-99. L’intervista risaliva al marzo 1976 ed era stata pubblicata sulla rivista newyorkese «Radical History Review» (1976, 4).
[5] Intervista di Penelope Corfield a Edward P. Thompson, «Quaderni storici», 1996, 92, p. 424. L’intervista fu fatta nel febbraio 1992. Una edizione molto ridotta del testo era stata tradotta in francese e pubblicata in «Liber» (supplemento a «Actes de la recherche en sciences sociales»), dicembre 1993, 16, e poi tradotta dal francese in italiano in «Liber» (supplemento a «L’Indice dei libri», febbraio 1994).
[6] ERIC J. HOBSBAWM, Appunti sulla coscienza di classe, in ID., Lavoro, cultura e mentalità nella società industriale, Laterza, Bari, 1986, p. 33.
[7] Situazione immutata alla Vaccari. Sempre occupato lo stabilimento, «il Telegrafo», 23 ottobre 1965.
[8] Discussione in Comune sulla Ceramica Vaccari, «Il Secolo XIX», 26 ottobre 1965.
[9] Cercano di bloccare la strada alcune donne alla Vaccari, «Il Telegrafo», 19 ottobre 1965.
[10] La testimonianza di Zenech, in Marzo 2008, numero unico del Comitato 8 marzo Associazione Marco Polo Santo Stefano Magra.
[11] Raggiunto l’accordo per la sospensione dell’agitazione alla Ceramica Vaccari, «La Nazione», 4 agosto 1965.
[12] Comunicato dei tre sindacati sull’accordo raggiunto alla Vaccari, «Il Nuovo Cittadino», 22 agosto 1965.
[13] O cara moglie, in GIUSEPPE VETTORI (a cura di), Canzoni italiane di protesta. 1794/1974 dalla Rivoluzione francese alla repressione violenta, Newton Compton, Roma, pp. 246-247.La canzone, scritta da Ivan Della Mea nel 1966, fu tra le più cantate nell’”autunno caldo”.
[14] La testimonianza di Areana, in Marzo 2008, cit.
[15] MARIO GIANNONI, (a cura di), La fornace di Ponzano. L’argilla, il lavoro, il paese, Edizioni della Luna, Sarzana (SP), 1995, p. 46.
[16] ALICE CUTULLE’, Ceramica Ligure Vaccari storia, archivio, produzione, Sagep, Genova, 2013, p. 48.
[17] Stanno meglio le galline del prete che quelle 68 famiglie operaie, Lettere a «L’Unità», 29 aprile 1964.
[18] GIORGIO PAGANO, MARIA CRISTINA MIRABELLO, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, vol. I, cit, p. 58.
[19] l. s., Forte aumento della silicosi nelle fabbriche di laterizi, «L’Unità», 2 aprile 1965.
[20] MARIO GIANNONI, (a cura di), Una scuola, un paese: i giornalini della scuola di Ponzano, Edizioni della Luna, Sarzana (SP), 1994, p. 81.
[21] MARIO GIANNONI, (a cura di), La fornace di Ponzano. L’argilla, il lavoro, il paese, cit, p. 64.
[22] La testimonianza di Zenech Marani, cit.
[23] I lavoratori ai Vaccari: “Sono mutati i tempi!”, «L’Unità», 12 aprile 1964.
[24] GIORGIO PAGANO, MARIA CRISTINA MIRABELLO, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, vol. I, cit, p. 58.
[25] Ivi, pp. 97-98.
[26] Testimonianza di Giuseppe Testa all’autore, 22 gennaio 2023.
[27] GIORGIO PAGANO, MARIA CRISTINA MIRABELLO, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, vol. I, cit, p. 57.
[28] Raggiunto l’accordo per la sospensione dell’agitazione alla Ceramica Vaccari, cit.
[29] GIORGIO PAGANO, MARIA CRISTINA MIRABELLO, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, vol. I, cit, p. 98.
[30] Ivi, pp. 98-99.
[31] Lettera di Giuseppe Montalti alla Segreteria Nazionale della FILCEVA CGIL, 23 novembre 1965, in Archivio CGIL nazionale, Roma. Nel testo dell’accordo, su questo punto, era scritto:
«Con la data del 12 novembre vengono riaperte le dimissioni volontarie a premio. Agli operai che recederanno dal rapporto di lavoro entro il 23 novembre prossimo, e le cui dimissioni saranno accettate, verrà corrisposto, oltre alle normali competenze di fine rapporto, una indennità extra contrattuale di importo uguale a quello stabilito dall’accordo del 19 agosto 1965, nonché una somma aggiuntiva di Lire 80 mila. […] Successivamente alla data del 23 novembre, la Direzione e la Commissione Interna si incontreranno per esaminare la situazione venutasi a determinare».
Il testo dell’accordo, allegato alla lettera di Montalti, è in Archivio CGIL nazionale, Roma.
[32] Ibidem.
[33] Ibidem.
[34] Testimonianza di Giuseppe Testa all’autore, 22 gennaio 2023.
[35] Due giorni di sciopero alla Ceramica di Ponzano, «Il Telegrafo”, 16 maggio 1968.
[36] GIORGIO PAGANO, MARIA CRISTINA MIRABELLO, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, vol. I, cit, p. 409.
[37] Accordo raggiunto alla Vaccari, «La Nazione”, 29 giugno 1968.
[38] GIORGIO PAGANO, MARIA CRISTINA MIRABELLO, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, vol. I, cit, p. 391.
[39] GIORGIO PAGANO, MARIA CRISTINA MIRABELLO, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, vol. II, cit, p. 55.
[40] Raggiunto l’accordo alla Vaccari, «Il Telegrafo”, 20 novembre 1969.
[41] GIORGIO PAGANO, MARIA CRISTINA MIRABELLO, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, vol. II, cit, p. 445.
[42] Dipendenti Vaccari: corteo in città, «Il Telegrafo”, 17 dicembre 1971.
[43] Solidarietà per il lavoratori della Ceramica Vaccari, «Il Telegrafo”, 24 dicembre 1971.
[44] Nessuna schiarita per la Vaccari, «Il Telegrafo”, 9 gennaio 1972.
[45] Intendono difendere il posto di lavoro, «Il Telegrafo”, 2 febbraio 1972.
[46] Testimonianza di Giuseppe Testa all’autore, 22 gennaio 2023.
[47] Ibidem.
[48] Prosegue l’occupazione della Ceramica Vaccari, «Il Telegrafo”, 6 febbraio 1972.
[49] Positivo accordo per la ripresa produttiva, «L’Unità”, 30 novembre 1973.
[50] GIULIANO GIAUFRET, Ricordi dalla Ceramica Vaccari, in GIANCARLO PIETRA, La Ceramica di Ponzano da insediamento industriale a polo artigianale-culturale, Accademia Lunigianese di Scienze G. Capellini, La Spezia, 2017, p. 67.
[51] GIORGIO PAGANO, MARIA CRISTINA MIRABELLO, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, vol. II, cit, p. 446.
[52] MARIO GIANNONI, (a cura di), La fornace di Ponzano. L’argilla, il lavoro, il paese, cit., p. 87.
[53] Ivi, p. 92.
[54] Ivi, p.93.
[55] GIORGIO PAGANO, MARIA CRISTINA MIRABELLO, Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia, vol. II, cit, p. 447.
[56] Testimonianza di Carlo Alberto Giannoni all’autore, 22 gennaio 2023.
[57] Testimonianza di Giuseppe Testa all’autore, 22 gennaio 2023.

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