Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
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Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
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Il Niger, l’Africa, l’Occidente una lezione al paternalismo francese

a cura di in data 26 Marzo 2024 – 23:58

Critica Sociale, settembre-ottobre 2023

Il Niger, prima del colpo di stato di fine luglio, era l’unico Paese «democratico» del Sahel, quello su cui l’Occidente tanto aveva scommesso. Le presenze occidentali in Niger sono massicce. Ma il loro limite è quello di essere prevalentemente militari. Nonostante ciò, l’Occidente non è stato in grado di prevedere assolutamente nulla del golpe.
Il punto è che l’Occidente non ha ancora capito e «scoperto» l’Africa. Un primo passo è intanto comprendere che il colpo di stato in Niger ha cause endogene e non è stato il frutto di trame straniere. La Russia non ha avuto alcun ruolo. Semmai potrà, forse, beneficiare in futuro della nuova situazione. Ma nulla di più: la Wagner non è neppure presente nel Paese.
La vera questione è quella – in Niger come in molti altri Paesi africani, quelli dell’area del Sahel in particolare – della estrema fragilità delle istituzioni democratiche, incapaci di dare una risposta ai problemi più sentiti dalla popolazione, in gran parte giovanissima: la povertà, la sicurezza, le diseguaglianze. I militari riscuotono consenso perché riempiono questo vuoto. Non hanno un’ideologia e non sono certo dei «rivoluzionari». Sono dei «pragmatici», ma è tutto da dimostrare che siano davvero capaci, come sostengono, di governare meglio della classe dirigente politica.
Il consenso popolare di cui godono i golpisti è effetto del malcontento verso la classe dirigente politica, ma anche della rabbia contro la politica coloniale e neocoloniale della Francia e dell’intero Occidente, malvisto al pari della Francia. L’origine del colpo di stato in Niger è dunque, in sostanza, «la fine dei sogni dell’indipendenza» in Africa, come ha scritto Mario Giro. Poi hanno inciso anche le fratture interne al partito di governo e una serie di dinamiche etnico-regionaliste: ma rappresentano il contorno, peculiare in ogni Paese, rispetto alla sostanza vera.
La Francia paga per responsabilità storiche e più recenti: per il paternalismo con cui ha gestito la fase post indipendenza, per aver sostenuto – con l’appoggio americano – svariati colpi di stato, per aver depredato il Niger di uranio e di oro per anni. Di chi è la colpa se il Niger, con la sua straordinaria ricchezza di materie prime, è uno dei Paesi più poveri del mondo? Chi ha depredato avidamente il Paese? Non la Russia o la Cina. Chi ha vissuto e vive nella corruzione, in stretto rapporto con le potenze straniere? Non i jihadisti. Sta emergendo un nuovo anticolonialismo, che è furibondo anche con le classi dirigenti locali. Non ha nulla a che vedere con quello del passato: non è socialista o panafricano, semmai è «sovranista» e «populista», per usare il linguaggio europeo. È l’anticolonialismo autoritario dei «patrioti» che si riflette, appunto, nelle «giunte militari patriottiche» e che ha il consenso delle parti più povere della popolazione.
Il misero popolo nigerino si sente saccheggiato dalla Francia e dall’Occidente e quindi simpatizza per quello che oggi è il nemico dell’Occidente: la Russia. Anche perché l’URSS non è mai stata una potenza coloniale e appoggiava, negli anni Cinquanta e Sessanta, i movimenti di liberazione anticoloniali. Ma la Russia non è la causa di ciò che avviene. Se a Niamey sventolano le bandiere russe, è perché la giunta militare lancia un messaggio: se non ci lasciate stare andremo con Mosca.
Anche l’Italia, come tutta l’Europa, porta le sue responsabilità. Le preoccupazioni italiane in Niger, dove è presente una nostra forza militare, sono sempre state due: fermare i jihadisti e impedire le migrazioni. Ma l’approccio securitario non risolve la crisi, anzi. Insieme agli altri Paesi europei ci siamo impegnati per portare l’esercito nigerino nel 2025 a 50 mila uomini e nel 2030 a 100 mila. È il «dono di questa modernità bellicosa» – così definisce il nostro aiuto Domenico Quirico – ciò di cui il Niger ha bisogno? O il vero aiuto consiste invece nel sostenere il cambiamento di un modello di sviluppo che vede il Niger e gli altri Paesi africani esportare le materie prime senza mai poterle trasformare in loco?
Se le cose stanno così, dovremmo evitare di percorrere le due strade che apparentemente ci restano davanti: da un lato il sostegno a un intervento militare contro i golpisti, che aumenterebbe il nazionalismo dei nigerini – anche di coloro che non appoggiano il golpe – contro l’Occidente, getterebbe davvero i nuovi governanti nelle braccia della Russia e darebbe grande spazio ai jihadisti; dall’altro l’allineamento allo stato di fatto, cioè l’appoggio, esattamente come in Tunisia, a un governo autoritario purché tenga lontani i migranti (e nel caso del Niger combatta i jihadisti). La difficoltà tecnico-logistica dell’intervento militare, oltre che le differenze di opinione in materia tra i Paesi africani, sembrano spingere verso la seconda soluzione. Ma resterebbe quella focalizzazione sull’aspetto securitario che ha portato ai guai odierni, e che si rivolta contro di noi. Chi ha formato la guardia presidenziale del Niger, protagonista del golpe? Noi italiani in primo luogo. È lo stesso film già visto in Libia. Una presenza caratterizzata dal militarismo non può che spianare la strada al militarismo altrui.
Come sempre, non è vero che «tertium non datur». La vera strada è parlare con l’Africa, e con il Niger, sulla base non solo dei nostri interessi ma anche dei loro. Interessi non delle élite al potere ma interessi «nazionali». Presiedo un’associazione che è stata a lungo impegnata in Niger in politiche di cooperazione. Abbiamo fatto una buona cooperazione, di partenariato con le autonomie locali, la società civile, i corpi intermedi. Ma al di fuori di una politica, senza il minimo sostegno di una politica paritaria di partenariato, di una nuova politica euro africana. La democrazia non si impone, e non si esporta abbinandola all’iper liberismo e al nostro sistema di sfruttamento delle risorse africane. Così gli africani – che pure sono per la democrazia – sono portati a rifiutarla. Se guardassimo anche ai loro interessi allora sì che la nostra democrazia sarebbe attrattiva.
E la stessa questione delle migrazioni si porrebbe in modo diverso. Noi siamo in Niger perché lo consideriamo l’avamposto esternalizzato delle politiche antimigratorie dell‘Europa sul fronte meridionale. Più a nord siamo con lo stesso spirito in Libia e ora anche in Tunisia. Sul fronte orientale il baluardo – finché reggerà – è la Turchia. Ma i giovani migrano perché le classi dirigenti locali e l’Occidente hanno creato Stati privatizzati che non garantiscono loro il welfare, il lavoro, il senso di una comunità di destino. Se supportassimo l’Africa nello sviluppo endogeno, non più estrattivista-predatorio e quindi causa di impoverimento, i giovani africani riacquisterebbero fiducia nel futuro dei propri Paesi.
Anche la questione del jihadismo muterebbe segno, perché il jihadismo fa presa essenzialmente come strumento di difesa delle masse disorientate da una feroce «modernità da rapina». Il vero «Piano Mattei» è esattamente il contrario della cooperazione come si è ultimamente definita, cioè liberista – privatizzazioni contro welfare – e securitaria. Una cooperazione che bene esprime la profonda crisi dell’egemonia del vecchio Occidente.
Conosco giovani africani che dieci anni fa lottavano per cambiare il proprio Paese e oggi vogliono partire. Lo fanno anche perché hanno perso fiducia in noi, nell’appoggio che possiamo dare loro in Africa. L’Africa deve credere in se stessa, ma ha bisogno che noi crediamo nell’Africa.

Giorgio Pagano

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