Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

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9 settembre 1943. L’avventura delle motozattere salpate da Bocca di Magra

a cura di in data 6 Giugno 2024 – 23:14

La motozattera 780 nell’Arsenale Militare della Spezia – 1946 (Foto
Ufficio Storico della Marina Militare – Donazione Aldo Fraccaroli)

Ameglia Informa 30 novembre 2023

Anche questo articolo è dedicato a ciò che avvenne ad Ameglia dopo l’8 settembre 1943, ottant’anni fa. Racconterò una vicenda molto importante, che ha a che fare con la salvezza della flotta della Marina italiana. Ma che c’entra, dirà il lettore, Ameglia? C’entra perché della flotta faceva parte la flottiglia motozattere dell’Alto Tirreno, il cui comando risiedeva a Forte dei Marmi in alberghi requisiti (la flotta era stata spostata al nord, in particolare alla Spezia, per meglio proteggerla dagli angloamericani che stavano avanzando dal sud). Il comandante era il capitano di fregata Manlio Lazzeri, il totale degli uomini era di circa 1420, dei quali 120 ufficiali. Le motozattere erano dislocate in più punti: a Genova, Spezia, Marina di Carrara, Viareggio, Livorno e Bocca di Magra. Il tratto finale del fiume era diventato una sorta di “piccolo porto militare”, sede delle MZ 703, 709, 742, 778, 780, 781.
Facciamo un passo indietro: le motozattere, mezzi per lo sbarco delle truppe anfibie, furono costruite nel 1942 per dar corso all’operazione “C3”, cioè l’invasione di Malta, la cui pianificazione era stata iniziata alla fine del 1941. Agli inizi del 1942 fu deciso che, per guadagnar tempo, i mezzi fossero simili al tipo tedesco MPF, di cui 15 unità erano in costruzione nei cantieri di Palermo per conto della Marina tedesca. L’ordine di costruzione ai vari cantieri italiani riguardò 65 unità, contraddistinte dalla sigla “M.Z.” e da un numero da 701 a 800.
Si trattava di unità lunghe 47 m. e larghe 6,5, dotate di tre motori che consentivano una velocità di 10 nodi e una autonomia di 1400 miglia. L’armamento consisteva in un cannone antiaereo e in una mitragliera. L’equipaggio era formato da un comandante e da 12 tra sottufficiali e marinai.
L’operazione “C3” avrebbe dovuto iniziare nel luglio 1942, ma non ebbe mai luogo. L’avanzata degli alleati tedeschi fino in Egitto indusse il Comando Supremo a concentrare nel settore nord-africano tutti i mezzi disponibili incluse le motozattere. Le MZ furono impiegate per sbarcare sulle spiagge di Marsa Matruh i rifornimenti ammassati nel porto di Tobruk. Alla fine di luglio le MZ iniziarono tra i due porti africani una spola incessante lungo una rotta lunga 330 miglia, tra andata e ritorno, trasportando carri armati e tutto il materiale necessario alle operazioni. Per quanto le modeste dimensioni e la sagoma bassa non ne facessero facili bersagli le perdite, dovute sia agli attacchi aerei che alle mine alla deriva, non tardarono a verificarsi e nel primo mese di continua attività ben 15 unità andarono perdute.
La storia delle rimanenti 50 è parte della storia della Marina dopo l’armistizio con gli angloamericani.

La motozattera 713 nell’Arsenale Militare della Spezia – 1946 (Foto
Ufficio Storico della Marina Militare – Donazione Aldo Fraccaroli)

L’8 settembre fu caratterizzato dal crollo dello Stato e delle istituzioni, enfatizzato dallo sfascio delle Forze armate. Ma non della Marina, nonostante la tragedia della corazzata Roma, che salpò dalla Spezia nella notte tra l’8 e il 9 settembre e fu affondata il 9 al largo dell’Asinara da aerei tedeschi – 1353 furono i morti. L’8 settembre fu il giorno dello sfaldamento ma anche della reazione ad esso. Lo dobbiamo non solo a coloro che erano convintamente antifascisti – allora ancora una piccola minoranza – ma anche e soprattutto alle donne e agli uomini semplici che in quei giorni presero coscienza di cosa volesse dire vivere sotto una dittatura e del baratro in cui essa aveva condotto l’Italia. Non si rassegnarono al crollo della vecchia patria e con l’impegno personale prima ancora che collettivo ebbero, sempre più, nuove aspirazioni: una patria di liberi e uguali, molto diversa da quella precedente.
Questo sentimento ancora indefinito, questo senso del sacrificio che fu l’ideale prosecuzione, per molti, di una rivoluzione rimasta inattuata nel primo Risorgimento, pervase la coscienza non solo di molti popolani ma anche della maggioranza degli uomini della Marina.
Gran parte delle nostre navi riuscì a riparare nelle acque controllate dagli Alleati. Un fatto importante perché nella guerra contro il nazifascismo il naviglio italiano sarà in seguito molto utile. E perché dimostra che nella Marina si fece ciò che mancò per le altre armi: l’emanazione di disposizioni di condotta dopo l’armistizio da parte del governo Badoglio, che in gran parte furono rispettate.
Nelle memorie del ministro della Marina de Courten e nelle ricostruzioni storiche c’è tutto il dramma e la sofferenza di quelle ore. Il ministro scrisse della “manifestazione più chiara dello spirito di dedizione alla patria che ha animato tutto il personale della Marina”[1].
Le scelte furono sofferte, e attuate con contraddizioni: ma la sostanza fu questa. Il 63% della flotta seguì le regole armistiziali.
La vicenda delle motozattere è anch’essa contraddittoria. Il comandante Lazzeri, alle 8,30 del 9 settembre, si collegò per telefono con il Comando del Dipartimento della Spezia e ne ebbe l’ordine di “inviare a La Maddalena le unità in grado di partire e di affondare in porto le unità immobilizzate”[2]. La Maddalena era un porto nazionale: fu fatto quindi un tentativo di ignorare parte delle disposizioni armistiziali, che prevedevano che le navi salpassero verso porti sotto controllo degli Alleati.
Le sei MZ di Bocca di Magra partirono immediatamente al comando del tenente Favaretti e si unirono al largo con le due MZ di Marina di Carrara, la 749 e la 800, passando al comando del sottotenente Pesci, il più anziano. Il gruppo si scisse in due parti: le tre MZ più veloci – 703, 709, 749 – distanziarono le altre, furono attaccate dai tedeschi al largo di Livorno, poi ancora verso la Gorgona e accompagnate fino al porto di Livorno. L’equipaggio si salvò, la 703 poté essere affondata, per ordine di Favaretti, prima di essere abbandonata.
Le altre cinque MZ – 742, 778, 780, 781, 800 – rimaste al comando del sottotenente Suttora ebbero una sorte migliore. Giunsero la sera del 9 alla Capraia, dove sostarono per il tempo avverso fino alle 11 dell’11. Arrivate a Portoferraio alle 15,30 dello stesso giorno, furono raggiunte dalla notizia che l’Elba era poco sicura. Le due unità in migliori condizioni, la 778 e la 800, partirono per la Spagna alla ricerca di un porto neutrale – per conservarle all’Italia – e raggiunsero Barcellona il 15 settembre. La 781 rimase incagliata alla Capraia per le sue precarie condizioni, e vi rimase fino alla fine della guerra. La 742, guidata dal nostromo 2° nocchiere Giuseppe Candido, uscì dalla Capraia il 16 per salvare due ufficiali inglesi naufraghi. Il 18 Candido ricevette l’ordine di arrendersi ai tedeschi a Portoferraio. Egli decise di partire subito per un porto controllato dagli Alleati: arrivò a Montecristo, da lì a Ponza dopo aver respinto con il cannone un attacco di due aerei tedeschi, e infine a Capri. La 780 era partita per la Spagna, e raggiunse Algeri insieme alla 778 e alla 800. Candido “ebbe l’encomio solenne del ministro della Marina”[3].
Chi parla di “morte della patria” non tiene conto non solo del patriottismo dei primi antifascisti e dei popolani ma anche della forma peculiare di patriottismo espressa da tanti uomini della Marina.

Giorgio Pagano

[1] Raffaele De Courten, Le memorie, USSM, Roma 1993, p. 279.
[2] AA.VV, La Marina dall’8 settembre 1943 alla fine del conflitto, USMM, Roma 1971, p. 59.
[3] Ivi, p. 62.

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