Presentazione di “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello – Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17 a Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
15 Dicembre 2024 – 19:29

Presentazione di
“Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”
di Giorgio Pagano e Maria Cristina Mirabello
Giovedì 19 dicembre 2024 ore 17
Porto Venere – Ristorante La Marina Calata Doria
I due …

Leggi articolo intero »
Crisi climatica e nuove politiche energetiche

Economia, società, politica: anticorpi alla crisi

Quale scuola per l’Italia

Religioni e politica

Ripensare il Mediterraneo un compito dell’Europa

Home » Il Secolo XIX nazionale

La disfatta e il riscatto

a cura di in data 8 Febbraio 2024 – 23:14

Il Secolo XIX nazionale, 9 settembre 2023

L’8 settembre vi fu il crollo dello Stato e delle classi dirigenti – prive di ogni strategia sia politica che militare – più che del senso di appartenenza nazionale degli italiani. Anzi, il popolo italiano, nella sventura, cominciò a ritrovare la sua antica civiltà. La reazione contro il fascismo, la cui scelta di entrare in guerra nel 1940 era all’origine della catastrofe, e contro l’invasore nazista fu inaspettata, così la solidarietà civile. “Lo scatenarsi di un tendenziale bellum omnium contra omnes – ha scritto Claudio Pavone – trovò un contrappeso nell’aiuto che disinteressatamente si prestavano persone tra loro sconosciute”. Si pensi all’aiuto ai soldati sbandati: ognuno ebbe il suo abito civile. La fiducia nel prossimo fu davvero un punto di appoggio. All’inizio si trattò di un impegno personale, l’ancoraggio politico mancava ancora. Ma si può parlare, come ha scritto Paolo Pezzino, della “gestazione di un’Italia ‘nuova’ dai caratteri forse indefiniti, ma comunque ideale prosecuzione, per molti, di una rivoluzione sociale e democratica rimasta inattuata nel primo Risorgimento”.
Anche nelle Forze armate possiamo cogliere lo sfaldamento e la reazione ad esso: lo sfascio degli alti comandi e la resistenza militare di reparti lasciati senza ordini. Quasi un miracolo, nella situazione data. Anche i militari fecero scelte molto diverse, in base alla propria coscienza. Claudio Vercelli ha fornito il quadro riguardante i nostri due milioni di militari: in gran parte, 700 mila, furono deportati in Germania, ma quasi tutti si rifiutarono di combattere a fianco dei tedeschi, solo 100 mila si resero disponibili, dopo un duro inverno di prigionia, a lavorare per la Germania; un’altra parte decise di combattere insieme agli Alleati, nel Sud d’Italia; una terza parte diede vita da subito alla Resistenza nei territori occupati; una componente si appartò e non fece alcuna scelta; una parte minoritaria, infine, si schierò con i nazifascisti.
La Spezia, città nella quale dal novembre 1942 fu spostato, per meglio proteggerle, il grosso delle forze di battaglia della Marina, è un punto di osservazione privilegiato per comprendere questi fenomeni.
L’8 settembre i soldati tedeschi erano tutti piazzati: l’Italia era già stata occupata ad agosto, senza che il governo Badoglio avesse reagito. La città era circondata. Doveva essere difesa dalla Quinta Armata dell’Esercito, diretta dal generale Mario Caracciolo, che si distinse per la volontà di resistere all’invasore, nonostante che gli ordini superiori contenessero un insanabile conflitto di obiettivi: la sera dell’8 settembre il capo del Comando supremo generale Vittorio Ambrosio lasciava ai comandanti dell’esercito piena libertà di “assumere nei confronti dei tedeschi quell’atteggiamento che apparirà meglio adeguato alla situazione”. Da un lato l’ordine diceva: “tutte le truppe di qualsiasi arma dovranno reagire immediatamente et energicamente et senza speciale ordine at ogni violenza armata germanica et della popolazione in modo da evitare di essere disarmati e sopraffatti”, mentre la frase successiva suonava: “Non deve però essere presa iniziativa di atti ostili contro i germanici”. Ebbene, nel caos, le due divisioni della Quinta Armata preposte alla difesa della Spezia – la Rovigo e le Alpi Graie – poterono dar vita solo a episodi isolati ma riuscirono comunque a ritardare l’avanzata dei tedeschi, facendo fallire il loro intento di catturare la flotta.
In quella situazione era chiaro che non c’era alcuna possibilità di uscire vittoriosi dalla lotta contro i tedeschi: già il 9 settembre anche La Spezia era sotto il loro pieno controllo. Ma tanti militari, in Italia e all’estero, preferirono osare. Il valore morale e civile della loro scelta è enorme. E in qualche caso diede un contributo decisivo: come per la flotta. La salvezza di gran parte delle nostre navi, che riuscirono a riparare nelle acque controllate dagli Alleati, fu importante non solo perché nella guerra contro il nazifascismo il naviglio italiano avrebbe potuto essere utile, diversamente dalle forze possedute da Esercito e Aeronautica, ma anche perché dimostra ciò che si sarebbe potuto fare da parte dell’Esercito. E perché dimostra che nella Marina si fece ciò che mancò per le altre armi: l’emanazione di disposizioni di condotta dopo l’armistizio da parte del governo Badoglio, che in gran parte furono rispettate.
L’uomo chiave della Marina in quegli anni fu l’ammiraglio Raffaele de Courten, ministro dal 1943 al 1946. Ai primi di agosto era ancora fino in fondo anti angloamericano, così come Carlo Bergamini, comandante delle forze navali di stanza alla Spezia. Ed entrambi furono, all’inizio, violentemente contrari all’armistizio. L’opzione dell’autoaffondamento, per non consegnare la flotta agli Alleati, rimase aperta fino all’ultimo, e oltre un centinaio di navi andarono perdute. Il 7 settembre sera de Courtin e Bergamini propendevano ancora per questa opzione. De Courtin si convinse della necessità dell’armistizio l’8 settembre sera, mentre Bergamini resisteva. Fu persuaso nella serata: “le navi ti sono state affidate dalla Patria”, gli disse de Courten, che sperava ancora di convincere gli angloamericani a fare entrare le navi in porti nazionali e non angloamericani, tentando quindi di ignorare una parte delle norme armistiziali. Forse la partenza della corazzata Roma avvenne troppo tardi, nella notte tra l’8 e il 9. L’aviazione tedesca affondò la nave nel pomeriggio del 9, al largo dell’Asinara. I caduti furono 1353, Bergamini compreso.

Nelle memorie di de Courten e nelle ricostruzioni storiche c’è tutto il dramma e la sofferenza di quelle ore. Il ministro scrisse della “manifestazione più chiara dello spirito di dedizione alla patria che ha animato tutto il personale della Marina”.
Le scelte furono sofferte, e attuate con contraddizioni: ma la sostanza fu questa. Il 63% della flotta seguì le regole armistiziali. Chi parla di “morte della patria” non tiene conto non solo del patriottismo dei primi antifascisti e dei popolani che raccoglievano le armi abbandonate, magari ancora senza uno scopo preciso, ma anche della forma peculiare di patriottismo espressa da gran parte della Marina.
Certamente vi furono, nella Marina, forze contrarie all’armistizio. La più significativa, la X Mas di Junio Valerio Borghese, con sede al Muggiano della Spezia, passò al servizio dei tedeschi e si rese responsabile di crimini orrendi contro i partigiani e i civili che li sostenevano. Ma il capitano del CREM Renato Mazzolani venne alla lotta partigiana da quella stessa caserma del Muggiano dove operava Borghese. All’inizio del 1944 nacque il Fronte Clandestino della Marina, autore di numerosi sabotaggi. Mazzolani fu componente militare del CLN e comandante delle Sap, Squadre di azione patriottica, nel golfo. Il 20 dicembre 1944 cadde nelle mani dei nazifascisti. Sottoposto a due mesi di torture, il 20 febbraio 1945 si impiccò in cella per non parlare. Il gruppo Sap assunse il suo nome. Il 23 aprile 1945, sulla base delle direttive del Comando della IV Zona operativa, le Sap composte da uomini della Marina occuparono alla Spezia tutti gli uffici pubblici, prima che arrivassero gli Alleati e i partigiani dai monti.

Giorgio Pagano

Popularity: 3%