Presentazione di “L’omicidio di Via del Poggio” di Roberto Quber, La Spezia 30 gennaio 2023 – Intervista a Giorgio Pagano
Presentazione di “L’omicidio di Via del Poggio”
di Roberto Quber
La Spezia, 30 gennaio 2023
Intervista a Giorgio Pagano
“Nel 1919-1920 la storia ci dice che ci fu il cosiddetto biennio rosso. Che cos’è il biennio rosso e che cosa accadde alla Spezia durante di esso?”.
L’importanza del ricordo e della conoscenza storica risalta più che mai in questi anni. Dobbiamo capire ciò che è accaduto cento anni fa. La storia è un immenso fiume in cui scorrono insieme acque limpide e acque terribilmente torbide. Senza fare i conti con queste ultime, gli uomini e le donne del presente non possono capire quali vie seguire.
Oggi stiamo raccontando la storia delle illusioni e delle delusioni di tante persone coinvolte, per la prima volta nella storia italiana e spezzina, in un’esperienza collettiva e di massa che lasciò il segno per una vita. La storia della Spezia del “biennio rosso” – ma oggi si parlerà anche e soprattutto del “biennio nero” –, con entrambi i colori presenti in vario modo nelle due fasi: nella prima sembra prevalere il rosso, ma c’è già il nero che avanza; nella seconda trionfa il nero, anche se il rosso resiste ancora. La storia della speranza rivoluzionaria, più che mai viva già dal 1917, e la storia dell’avvento del fascismo. Una storia le cui radici sono da cercarsi almeno nel 1914: fu la Grande Guerra a inaugurare quell’epoca di rivoluzioni e controrivoluzioni, che si sarebbe spenta solo nel 1945.
Gli storici hanno usato, per spiegare questi anni, la categoria di “brutalizzazione della politica”. La “brutalizzazione” aveva certamente un legame con la Grande Guerra, ma anche origini ben più lontane, nella brutalità antisocialista e antioperaia dello Stato tra fine Ottocento e inizio Novecento. Quindi la storia che raccontiamo oggi ha radici ancora precedenti al 1914, che è comunque una data chiave.
La storia di Spezia è emblematica: una larvata dittatura militare fu anticipata proprio nella nostra città, piazzaforte militare, e proprio durante la Grande Guerra. Il Consiglio Comunale fu sciolto per tre anni, il comandante in capo della Marina, ammiraglio Umberto Cagni, ebbe tutti i poteri. Ogni parvenza di vita democratica fu accantonata. Chi osava protestare veniva inviato al fronte o al confino. L’operazione fu realizzata dalle stesse forze, legate a gran parte della borghesia industriale e commerciale e della Marina, che sostennero poi la nascita del fascismo. Il deus ex machina fu Domenico Giachino, già sindaco ed esponente del blocco liberale. Il nero si stava già organizzando.
A guerra finita esplosero le lotte del “biennio rosso”. Lo spirito rivoluzionario raggiunse la sua punta più alta nel maggio-giugno 1919. Spezia diede il via alla rivolta contro il carovita che si espanse poi in molte parti d’Italia. Fu un moto spontaneo, non militarizzato e armato, che fu represso non solo dalle forze dell’ordine ma anche dai “poliziotti volontari”: si può supporre i primi gruppi fascisti, dato che il primo nucleo dei fasci si era costituito in aprile. Mentre fino ad allora lo scontro era stato solo con lo Stato, ora sarà sempre più anche con i fascisti, alleati con lo Stato (Sarzana nel luglio 1921 fu, in questo, un’eccezione).
Dalle ricerche emerge con nettezza, a Spezia, il legame della borghesia del tempo con i grandi complessi delle costruzioni navali e della produzione bellica. L’elemento di fondo per comprendere anche le vicende successive è l’alleanza borghesia-gerarchie militari. L’unione dei reazionari si realizzò attorno al giornale “Il Tirreno”, finanziato dagli industriali, il cui primo numero uscì il 10 novembre 1919.
I loro avversari, i protagonisti del “biennio rosso”, furono la classe operaia e il socialismo. Non riformista come a Genova, ma massimalista. Un forte ruolo lo ebbero anche gli anarchici, attivi nell’USI (Unione Sindacale Italiana) – il loro giornale, Il Libertario diretto da Pasquale Binazzi, aveva un rilievo nazionale – e, dal 1921, i comunisti.
Dopo la vittoria socialista alle elezioni politiche del novembre 1919 il movimento operaio intensificò la sua attività. Il 1920 fu ancora un anno di grandi lotte, rivendicative e per il potere.
Cagni, rientrato a Spezia, durante lo sciopero generale del gennaio 1920 incarcerò i dirigenti operai alla Palmaria, ma fu costretto a liberarli. Nel marzo-aprile 1920 gli arsenalotti scioperarono per 35 giorni. I moti contro il carovita si ripeterono anche quell’anno, a maggio, questa volta con epicentro Sarzana.
Il 1920 culminò con l’occupazione delle fabbriche del settembre.
Per molti la fase discensionale del movimento fu l’accordo che concluse l’occupazione, ma la punta più alta della tensione rivoluzionaria fu precedente, nel 1919.
Ciò che caratterizzò il “biennio rosso” fu l’emergere di una classe operaia con una diffusa coscienza di sé e del proprio ruolo. Gli operai non si sentivano più solo salariati ma anche classe dirigente produttiva. Gli operai sentivano l’importanza del proprio “io” ma anche del “noi”, della classe.
L’altro dato caratterizzante fu che il sindacato e il PSI, palesemente inadeguati, non rispecchiavano questa maturazione. La spontaneità operaia e la spinta dal basso non incontrarono l’organizzazione sindacale e politica.
Infine, l’ultimo dato caratterizzante: il nero si stava organizzando per la repressione e per la dittatura.
“Cosa dice lei sul biennio 1921-1922, alla Spezia e in Italia, fu colpo di stato o guerra civile?”.
La categoria di guerra civile vale per la Resistenza, ma per il 1921-1922 è inappropriata.
Nel 1921-1922 non esisteva alcuna organizzazione armata del movimento operaio: i rivoluzionari non progettarono alcuna rivoluzione, né alcuna difesa armata. Mancò uno dei requisiti essenziali della guerra civile: la violenza fascista era organizzata, quella socialista, comunista e anarchica no. Certo, forme di resistenza si manifestarono, con un’unità dal basso di operai socialisti, comunisti, anarchici, repubblicani. A Sarzana, alla Serra, a Framura, a Pitelli… Come a Parma o a Bari… Questo anelito unitario vivo tra le masse diede vita al movimento degli arditi del popolo. Ma furono tentativi improvvisati, senza alcun coordinamento nazionale. Quei rivoltosi avevano qualche arma, ma un partito armato del movimento operaio non vi fu mai. Mentre lo Stato abdicava al suo ruolo e stava da una parte sola.
I partiti operai erano tutti in crisi e in lite tra loro, e per motivi diversi contrari in ogni caso agli arditi del popolo.
Il fascismo, invece, aveva un chiaro elemento identitario: la violenza. «La ricerca della guerra civile fu un tratto distintivo dei fascisti che non trovarono avversari disposti a combatterla», ha scritto Andrea Ventura. Non fu il sovversivismo “rosso” la causa del fascismo, che ha invece origini di lungo periodo nella società italiana: la violenza e la repressione nello Stato e nella società italiana contro le masse popolari.
Certo, la violenza vi fu da entrambe le parti.
Ma non è possibile mettere sullo stesso piano le due violenze.
Quella fascista era progettata e indirizzata. La violenza era connaturata al fascismo.
Dall’altra parte non c’era, ripeto, alcun partito armato.
Basti vedere il triste dato dei morti, dei feriti, degli arresti, delle distruzioni…
Il “biennio nero” si concluse con un colpo di stato “tollerato”, preparato da tempo.
“Il Tirreno”, in un editoriale del 13 aprile 1920, aveva già apertamente invocato la dittatura militare:
«Ed ecco lanciata la grande parola. Un generale! È la dittatura militare. […] A mali estremi, rimedi estremi. Oggi ogni dottrina, ogni ragione di parte cessa davanti alla necessità della salvezza comune».
Da allora fu un crescendo continuo della violenza squadrista, senza che tutto ciò provocasse reazioni da parte dello Stato. La grandissima parte della classe dirigente liberale fu passiva o complice.
La scelta di Mussolini di organizzare la marcia fu figlia anche della constatazione che più la furia squadrista avanzava più lo Stato – prefetti, questori, magistrati – arretrava.
Una rassegna dei fatti più gravi avvenuti alla Spezia nel 1921 è ancora una volta emblematica: gli antifascisti furono tutti uccisi dallo Stato, i fascisti furono sempre “coperti”.
L’unico fatto in controtendenza, ma rimasto isolato, si verificò a Sarzana il 21 luglio 1921.
I “fatti di Sarzana” dimostrano che il fascismo non era una forza inarrestabile. Perché senza l’appoggio delle strutture dello Stato lo squadrismo non avrebbe potuto affermarsi. Umberto Banchelli, squadrista di Firenze, il capo di stato maggiore della spedizione giunta a Sarzana, riconobbe, nelle sue “Memorie di un fascista” del 1922, che «il fascismo non ha potuto svilupparsi che grazie all’appoggio degli ufficiali, dei carabinieri e dell’esercito: i dieci fucili hanno messo in fuga cinquecento fascisti non solo perché hanno sparato, ma perché, sparando, hanno messo una volta tanto fuorilegge gli squadristi, sbalorditi di trovarsi bruscamente dall’altra parte della barricata».
La capitolazione dello Stato proseguì senza sosta nel 1922, ed ebbe il suo epilogo con la marcia su Roma. Il governo Facta scrisse inutili circolari a prefetti e questori perché difendessero la libertà. Ma fu una sorta di disarmo unilaterale.
È di grandissimo interesse il memoriale dell’ammiraglio Vittorio Tur, alto ufficiale della Marina, “Benemerenze fasciste”, allegato a una lettera del 1939 a un gerarca spezzino. Tratteggia un esempio perfetto di ciò che accadde esattamente secondo i desideri di Mussolini: una insurrezione sostanzialmente legalitaria, una vittoria politica – e financo parlamentare – sostanzialmente eversiva.
Tur si sofferma anche sull’episodio della “montatura”, quando operò perché la responsabilità dell’unico scontro dei fascisti con i militari, il 18 ottobre 1922 a San Terenzo, fosse addebitata ai comunisti. Tur, che scriveva di sé in terza persona, continua:
«Il giorno dopo il Comandante Tur riusciva a far organizzare una imponente dimostrazione che si recava all’Arsenale ad inneggiare alla Marina. La musica della Marina, in precedenza preparata in Arsenale, ne usciva suonando Marcia Reale e Giovinezza, mentre dai dimostranti partivano potenti grida di Viva il Re! Viva Mussolini! Viva la Marina!».
Un vero e proprio “passaggio di consegne”, ma nel segno dell’eversione.
Mussolini diede vita, d’intesa con il Re, a un governo di coalizione, che comprendeva popolari, liberali, demosociali, nazionalisti e altri non fascisti. Ma i drammatici avvenimenti che si avranno subito dopo l’esordio del nuovo governo dimostreranno l’insopprimibile tendenza totalitaria del fascismo. Chi sosteneva che il fascismo sarebbe presto entrato nel sistema liberale non aveva compreso nulla. Nel “passaggio di consegne” la classe dirigente liberale consentì l’introduzione immediata di nuove forme di esercizio del potere. Pensava alla continuità, ma aprì a una brusca rottura con il passato.
La marcia su Roma fu dunque un colpo di stato, il vero inizio della dittatura fascista. Come ha scritto Giulia Albanese «un sistema istituzionale può essere trasformato senza che ciò sia chiaramente compreso da chi assiste alle trasformazioni». Oggi possiamo sostenere che il governo fascista sancì la fine dello Stato liberale già nel corso del primo anno di attività, e nonostante il suo carattere di governo di coalizione. La sanzione statale e la connivenza dei liberali non salvò né lo Stato né i liberali ma segnò l’avvento di una nuova era contrassegnata dallo squadrismo. Lo squadrismo non finì con la marcia su Roma: Mussolini lo portò nella milizia e nei sindacati, smantellò lo Stato liberale e lo invase con le squadre. Lo squadrismo continuò a vivere nelle spedizioni coloniali in Africa, nella partecipazione fascista alla guerra di Spagna, nelle brigate nere contro i partigiani.
“Dopo il buio la luce. Con tutti i limiti, ma pur sempre luce. Ci racconta cosa accadde alla Spezia dopo il 25 luglio 1943, quando il re fece arrestare Mussolini e nell’aprile 1945 quando partigiani e alleati liberarono la città?”.
La sera del 25 luglio, alle 22,45, il popolo italiano apprese dalla radio la notizia della sostituzione di Mussolini con Badoglio.
Grandi manifestazioni popolari salutarono la caduta del regime. Le classi dirigenti, però, volevano sostituire alla dittatura fascista la dittatura militare. Perciò le manifestazioni non piacquero. Il 27 luglio il generale Mario Roatta, che era stato capo del SIM sotto il fascismo, emanò la famigerata circolare che porta il suo nome, che ordinava di sparare contro la folla, «mirando non in aria».
Il 26 luglio si tennero assemblee nelle fabbriche spezzine. Tutto ciò che ricordava il fascismo fu distrutto. Un fatto rilevante avvenne alla Termomeccanica. Il 28 ci furono scontri tra fascisti e antifascisti, il 29 gli operai scioperarono per chiedere la liberazione dei compagni arrestati, che fu poi ottenuta.
Veniamo alla manifestazione popolare in piazza, organizzata dai comunisti il 29 mattina.
Si formò un corteo, alla testa – ha ricordato in una testimonianza Mario Pistelli, operaio del cantiere del Muggiano – «i giovani con bandiere tricolori con stemma sabaudo, all’uopo acquistate, e dietro le bandiere una fiumana di cittadini».
Dai giardini per corso Cavour fino alla piazza dei Martiri (l’attuale piazza Beverini) sfilò una folla impressionante. Nella piazza aveva sede il PNF: il corteo si trovò di fronte uno schieramento di poliziotti e marinai, e avvenne la prima sparatoria, nella quale perse la vita il diciottenne Dino Cerretti, giovane operaio di Valdellora. Molti i feriti.
Il corteo, sbandato, si ricostituì poco lontano, in piazza del Mercato, e proseguì sempre lungo corso Cavour fino al viale Regina Margherita (l’attuale viale Ferrari), svoltando a sinistra fino all’incrocio con viale Savoia (ora viale Amendola). Qui spararono i fascisti della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale, incorporata da Badoglio nell’Esercito. Racconta Pistelli:
«La giovane operaia quindicenne Nicolina Fratoni, colpita da un proiettile alla regione occipitale, si accasciava cadavere tra le mie braccia e quelle di Marcello Gattai che le eravamo a fianco, stringendo sempre con amore sul petto quella bandiera tricolore che con tanto orgoglio aveva portato durante il corteo».
Anche a Spezia veniva applicata la circolare Roatta.
Arrivò il baratro dell’8 settembre, l’armistizio. Le forze antifasciste cominciarono anche alla Spezia, la lunga battaglia per la libertà. Venti mesi di Resistenza armata e civile, sociale, fino al 25 aprile.
“Come fu liberata la città?”
Il 22 aprile pomeriggio il Comando della IV Zona diede ordine di avviare l’operazione di occupazione di Spezia.
Il 23 aprile tedeschi e fascisti lasciarono precipitosamente Spezia verso Aulla e la Cisa e i partigiani delle SAP (Squadre Azione Patriottica) presero possesso degli edifici principali. Leggiamo la testimonianza di Umberto Vendramin “Farinata degli Uberti”, uno dei capi delle SAP:
«Il mattino del 23 aprile 1945 tutte le SAP della città iniziarono l’attacco contro i residui delle Brigate Nere, tedeschi, Guardia Nazionale Repubblicana e gruppi di franchi tiratori che ancora si trovavano in centro città e località limitrofe. Altri gruppi di sappisti provvedevano ad impossessarsi dei principali edifici, quali: Prefettura, Comune, Poste e Telegrafi, magazzini di materiali vari e di viveri abbandonati dai nazifascisti, nonché enti militari e stabilimenti industriali. […] La sera dello stesso giorno la prima camionetta con a bordo il Maggiore alleato Gordon Lett entrava in città liberata, seguito da alcuni sappisti, ove la folla gli tributava entusiastiche accoglienze».
Sempre il 23 aprile i partigiani, mentre scendevano in città dalla Val di Vara, combatterono con un nucleo di retroguardia tedesco a San Benedetto; la battaglia proseguì fino alla sera del 24 aprile.
Il 24 aprile entrarono nella città già liberata, senza sparare un colpo, i primi reparti americani, insieme a una Brigata partigiana. Si trattava della “Compagnia Arditi” comandata da Franco Coni – socialista, sardo, coraggiosissimo e spesso indisciplinato – che disobbedì al Comando della IV Zona. Leggiamo la testimonianza di Giovanbattista Acerbi “Tino”, che fu sempre partigiano al fianco di Coni:
«Il 24 disobbedimmo agli ordini del Comando e scendemmo a Riomaggiore. La gente ci festeggiò, bevemmo lo sciacchetrà e qualcuno di noi era anche un po’ brillo. Giungemmo a Spezia passando ai due lati della galleria ferroviaria, che era allagata. Arrivammo in città, all’inizio la gente non capiva, poi ci riconobbe e applaudì. All’incrocio di via Chiodo con corso Cavour incrociammo una camionetta con a bordo soldati di colore della Divisione Buffalo. Subito ci fu un momento di imbarazzo. Poi uno di noi sparò con il mitra a un’insegna del Fascio in via Chiodo, gli americani capirono, fraternizzammo e ci portarono in Prefettura, dove Franco abbracciò Gordon Lett. La zona era piena di camionette e di soldati neri. Il giorno dopo arrivarono i partigiani dopo la battaglia di San Benedetto. Il Comandante della IV Zona Fontana rimproverò Franco e ci impedì di sfilare, ci mettemmo ai lati ad applaudire insieme a tanta gente».
Un “combat film” del 24 aprile testimonia l’arrivo degli americani e la presenza di un gruppo partigiano, appunto la “Compagnia Arditi”.
Il 25 aprile, dopo la battaglia di San Benedetto, il grosso dei reparti partigiani entrò in città. Il CLN si insediò in Prefettura, con il consenso degli Alleati. Pietro Mario Beghi, segretario del CLN provinciale, assunse la carica di Prefetto. Il CLN fece affiggere sui muri della città il proclama che così concludeva: «Spezzini, La Spezia è stata la città d’Italia più vessata dalla sanguinosa oppressione del fascismo, ma appunto per questo è necessario dimostrare subito la vostra civiltà nei confronti della bestialità fascista… L’ora della liberazione è pure l’ora della epurazione e della ricostruzione: l’ora del pensiero che si fa azione. Sia questa azione ispirata unicamente al bene della città e della patria nella visione di una superiore solidarietà”.
Sono parole che ci dicono che un movimento come la Resistenza non è passato invano, non può passare, non passerà. Vive e vivrà ora e sempre.
Popularity: 3%