Sessantotto e dintorni. Una cartografia della disobbedienza
Festival della Resistenza “Fino al cuore della rivolta”
Fosdinovo
9 agosto 2022
Intervento di Giorgio Pagano
Questo intervento trae ispirazione dal libro mio e di Maria Cristina Mirabello “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” (due volumi, 2019 e 2021).
Si tratta di un libro di “storia glocale”. La storia locale è, da allora, anche storia globale. In quegli anni si formò infatti la prima generazione globale: anche la coscienza dei giovani spezzini, studenti e operai, era globale e, come tale, è stata studiata. I fatti locali sono stati sempre ricostruiti su una scala che tenesse presente non solo la dimensione nazionale ma anche quella internazionale.
Una caratteristica del libro è l’attenzione alla dimensione della soggettività. Ciò emergeva già nelle mie due ricerche precedenti dedicate alla Resistenza spezzina. La lezione fondamentale è stata per me quella di Claudio Pavone e del suo libro “La guerra civile”: un libro non sulla moralità della Resistenza (e sulle sue contraddizioni) ma sulla moralità che le persone espressero nella Resistenza (e sulle loro contraddizioni). La Resistenza fu in primo luogo agita da persone, così il Sessantotto. Ho cercato quindi di “trovare le idee nei comportamenti”. Questa attenzione alla dimensione soggettiva deve molto al Sessantotto, che non a caso fu per Pavone lo spartiacque del proprio lavoro. Il mio libro dà la parola a molti: in questo senso non è solo un libro sul Sessantotto, è anche un libro “sessantottino”.
Un’altra caratteristica delle mie ricerche è l’intreccio tra testimonianze, documenti, immagini, altre fonti culturali, dalle canzoni -i cui versi danno il titolo ai miei libri- al cinema. Le testimonianze sono fonti fondamentali, ma la riflessione complessiva dello studioso deve collocarle in una prospettiva più ampia, che utilizzi anche i documenti. Ma a volte i documenti non dicono tutto: per fare un esempio, la verità su un “celebre” episodio del Sessantotto spezzino -il morso all’orecchio di un giovane fascista da parte di un giovane comunista durante un’aggressione fascista a un picchetto- emerge per la prima volta grazie a una testimonianza. Anche le immagini, “punti di partenza per pensare” -come dice Tano D’Amico- sono fonti fondamentali: ogni epoca ha i suoi volti, i suoi sorrisi. Sono fonti anche le canzoni: quelle degli anni Sessanta sono spesso “manifesti programmatici” – così Beppe Carletti definisce “Dio è morto”. E il cinema: non fu forse il neorealismo cinematografico a scoprire i limiti veri della Resistenza e le ragioni della continuità tra l’Italia fascista e l’Italia democristiana?
Una spiegazione, infine, sulla partizione del libro in due volumi. Il primo si intitola “Dai moti del 1960 al Maggio 1968”, il secondo “Dalla Primavera di Praga all’Autunno caldo”. Gli anni Sessanta sono gli anni della maturazione, il Maggio è l’acme, l’esplosione. Poi inizia il declino. Il libro cerca di raccontare questo processo: il bisogno di una soggettività, e il tentativo di costituzione di una soggettività, che fu forse solo sentita, intuita e ricercata ma che non riuscì ad assumere una forma definita e ad operare nel mondo. Allo scacco di questa mancata costituzione ho dato un nome, quello di sconfitta del Sessantotto degli inizi, libertario ed etico: una sconfitta che coincise con la ripresa dei vecchi strumenti organizzativi e delle vecchie nozioni, delle vecchie dottrine. Il Sessantotto rifluì nelle vecchie idee contro cui si era battuto.
Il tema della disobbedienza è elemento tipico, caratterizzante del Sessantotto degli inizi, che non fu un’esplosione repentina ma il frutto di una incubazione e di una maturazione durate anni, lungo un decennio ad alto potenziale formativo, culturale e politico.
Leggo alcuni brani tratti da testimonianze emblematiche di questa incubazione e maturazione.
Il primo è di Marco Manciulli, studente del Liceo Classico Costa dal 1958 al 1963:
Tutto cambiava, ma non la scuola.
Non ho nessuna nostalgia del vecchio Ginnasio-Liceo, dove la disciplina era rigorosa e grottesca. Il Preside si faceva vedere abbastanza spesso per controllare che i grembiuloni neri delle ragazze (obbligatori) fossero ben chiusi e accollati, che le giacche e le cravatte dei ragazzi (obbligatorie anch’esse) non fossero vistose o stravaganti. Per noi sfumatura alta, basette prussiane. In classe silenzio assoluto, sguardo fisso in avanti. “Lei, signorina, è la terza volta che guarda la finestra!”, esclamò sdegnato il professore di greco, che non parlava mai, non spiegava, interrogava e basta, preferibilmente a sorpresa. Naturalmente i voti non li diceva. Come molti altri, li scriveva sul registro tenendo una mano davanti.
Ma succedeva di peggio, al Costa. Un giorno la cattolicissima Vicepreside sorprese due ragazze che, ben oltre il portone d’ingresso, “ridacchiavano scompostamente”, le portò subito in Presidenza, dove ricevettero la giusta punizione. Ci fu un vago tentativo, da parte degli studenti, di organizzare una protesta, ma tutto finì lì. Il Sessantotto era ancora lontano, ma sarebbe nato anche da lì.
Il secondo è di Dino Grassi, il capo degli operai del Cantiere Navale Muggiano:
Del miracolo economico a noi operai arrivavano solo le briciole. La vita degli operai non valeva nulla.
Il terzo è di Ovidio Iozzelli, operaio della Fonderia Pertusola:
La Pertusola era una società mineraria metallurgica che fondeva la ghisa per fare piombo mercantile. Facevamo anche l’argento. Il procedimento per zincare il piombo si chiamava zincaggio: il reparto si chiamava “il reparto della morte”, perché c’erano morti, vittime di infortuni sul lavoro, sette operai. Quando passavano le cicale sopra lo stabilimento cadevano stecchite. Lavoravamo sostanze che ci facevano male agli occhi… Quando arrivava il vento ed alzava la polvere, dovevamo scappare per proteggerci. La pelle, quando ci facevamo la barba al mattino, ci bruciava. Negli anni Sessanta l’80% non arrivava alla pensione. Moriva prima dei sessant’anni per saturnismo, la malattia di chi sta esposto al piombo.
La disobbedienza fu rivolta etica contro autorità a cui non si riconosceva più legittimità. Nella scuola, nella fabbrica, nella famiglia e nel costume. In quest’ultimo campo i cambiamenti furono più lenti, perché riguardavano aspetti più profondi e perciò più “conservativi”. E tuttavia anch’essi segnarono, per l’ampiezza delle ragazze e delle donne coinvolte, qualcosa di veramente nuovo.
Alla lotta contro la società autoritaria si accompagnò la lotta contro il classismo scolastico e sociale. Se un autore emerge come protagonista della mia ricerca, è don Lorenzo Milani. In “Lettera a una professoressa” i giovani ritrovarono il disvelamento del classismo scolastico e sociale ma anche l’originalità di un linguaggio e di un metodo di indagine che muoveva dalla concretezza dell’esperienza personale. Il Sessantotto partiva dallo “scava dove sei”, cioè dal punto in cui ognuno si trovava, per criticare l’ordine esistente. Questa politicizzazione delle esperienze individuali costituiva il cuore di “Lettera a una professoressa”, che anche per questo fu un libro “sessantottino”.
Nel Sessantotto ci furono sia l’io che il noi, una tensione umanistica verso un cambiamento sia personale che sociale. Un cambiamento che parte da sé, per autodeterminare la propria vita, e arriva alla dimensione collettiva, alla fratellanza, alla comunità. Il collettivo c’era, ma per esistere come persona nuova.
Questa spinta antiautoritaria, questa tensione umanistica fu forse più critica del potere che dell’autorità in sé: E’ da allora che il potere va in giro nudo, affermò vent’anni dopo Ernesto Balducci.
Il Sessantotto non ha escluso la possibilità di una modifica delle istituzioni, di un’altra autorità: un’autorità “bidirezionale”, un’autorità responsabile che accresce le responsabilità di tutti, nella prospettiva “paritaria”. Come nel caso dell’”istituzione aperta” in cui Franco Basaglia e altri cercarono di trasformare il manicomio. Come nel caso di don Milani, che voleva un’altra Chiesa, un’altra scuola. Il prete di Barbiana voleva un’altra autorità, non abolirla. Mentre Rudi Dutschke prospettava una “lunga marcia attraverso le istituzioni” per tentare di cambiarle, in una lotta prolungata, forse infinita. L’alternativa tra riformismo e rivoluzione non è adeguata a esprimere ciò che persone così diverse cercarono di fare. Forse bisognerebbe usare il termine “conversione” dell’istituzione e dell’autorità. Il Sessantotto usò, per descrivere sé stesso, soprattutto la parola “contestazione”. Don Milani usò invece il termine “conversione”.
Per don Milani, inoltre, bisognerebbe usare sia il termine “disobbedienza” che il termine “obbedienza”. La sua obbedienza esemplare verso la Chiesa fu concepita come un modo per contrastare l’inadeguatezza della Chiesa. Così come l’obbedienza, nel Sessantotto spezzino, di don Sandro Lagomarsini, che accettò l’esilio a Càssego. Barbiana e Càssego furono entrambe trasformate in occasioni preziose. Ma preziosa fu anche la scelta disobbediente dei preti che lasciarono la tonaca: ben dodici alla Spezia, convinti che il matrimonio dei preti avrebbe potuto offrire un aiuto al potenziamento del ministero sacerdotale.
La disobbedienza era verso gli adulti. Si verificò una frattura giovani-adulti ed emerse una generazione per molti aspetti diversa e distinta dalla precedente e critica nei confronti delle sue, seppure ben nascoste, profonde debolezze. La generazione precedente era quella della Seconda guerra mondiale, della “guerra fredda”, dei sacrifici per la carriera e per il benessere: aveva rinunciato a troppe aspirazioni. La nuova generazione era critica verso l’esperienza della precedente, era insoddisfatta del presente e delle proposte di cambiamento in campo. La parola “giovane” smise di indicare soltanto chi non è ancora adulto, per indicare anche chi si oppone ai valori degli adulti, della loro società e delle loro istituzioni.
E tuttavia i figli volevano farsi carico dei sogni non realizzati dai padri. Dentro la frattura non mancarono tentativi di interscambio e di confronto.
Consideriamo il rapporto tra studenti e professori adulti. Forse il bersaglio era davvero il potere, più che l’autorità. Una delle occupazioni delle scuole spezzine nel dicembre 1968 più interessanti fu quella dei Geometri. Il Preside Alfonso Gianni era un socialista, un progressista.
Leggiamo il brano della testimonianza di uno studente, Sandro Amorfini:
Gianni piombo nel corridoio centrale che, essendo lo spazio più largo della struttura, fungeva un po’ da sala riunioni al coperto, e sollecitò i presenti a rientrare nelle aule minacciando interventi repressivi. A farne le spese fu Maria Grazia Laudani che, in piedi sopra una scrivania, tentava di dare un’organizzazione decente a quell’esperienza assolutamente straordinaria che stavamo vivendo. Il Preside le intimò di scendere e di tornare in classe anche prima degli altri. Appoggiata dal sostegno rumoroso di noi studenti assiepati attorno, rimase al suo posto prendendosi la minaccia di una pesante sospensione che, pur non avendo avuto seguito, le provocò, al momento, una certa apprensione tanto da farle scendere copiose lacrime.
Il gesto della Laudani fu decisivo per mettere in crisi il potere. Gianni entrò in una crisi profonda. E tuttavia quei ragazzi ebbero un interscambio e un confronto molto positivi con un gruppo di insegnanti. Ecco il brano di un altro studente dei Geometri, Sergio Tedoldi:
Il ruolo più importante nella nostra formazione lo ebbe Gianluca Solfaroli, insegnante di italiano e storia. Era intransigente, rigoroso, colto: un maestro di vita. La sua fu un’influenza in termini di valori più che di indicazioni politiche. Nella nostra lotta ci aiutò a mettere a fuoco l’obiettivo del contrasto alla selezione di classe.
Consideriamo ora il rapporto tra operai giovani e adulti. Racconta Claudio Rissicini, giovane operaio -che poi militerà, fin dalla fondazione, in Lotta Continua- a proposito dello sciopero all’OTO Melara del luglio 1968, il primo dopo diciotto anni:
Si dice che il merito fu della nostra generazione, ma se questo è vero, lo fu indirettamente. Qualche giorno prima dello sciopero, ricordo che cominciò a circolare il passaparola che ci saremmo fermati a una certa ora di uno dei giorni successivi, e tale passaparola anziché arrivare dai giovani, arrivò da molti lavoratori, anziani o maturi, anche moderati, che però non ce la facevano più.
L’intreccio tra i padri e i figli vi fu anche perché i figli avevano bisogno di darsi un passato, di avere delle radici, che cercarono e trovarono nelle idee e nelle lotte dei padri. Leggiamo ancora Rissicini:
La polizia ci aspettava in via Valdilocchi, credendo che facessimo il percorso più breve, quello di viale San Bartolomeo. Invece passammo dall’Aurelia. Volevamo andare a Migliarina, nel quartiere operaio dove vivevano gli operai licenziati dopo la “lotta” degli anni Cinquanta, i familiari dei tanti che erano dovuti emigrare all’estero. La gente piangeva commossa ai lati della strada.
Quei cortei che passavano da Migliarina erano il segno della consapevolezza che la lotta del 1968-1969 curava, in un certo senso, le ferite dell’emigrazione in Germania, Belgio, Svizzera e altrove di un’intera generazione operaia falcidiata dalla discriminazione politica. E vendicava i neri anni Cinquanta.
Certo, nel Sessantotto finiva la generazione della Resistenza e se ne inaugurava una nuova. Erano, ha scritto Guido Crainz, giovani molto diversi dal passato non solo e non tanto per la loro origine sociale ma perché partecipi di una tumultuosa circolazione internazionale di idee, di modelli culturali, di costumi. Si innestano qui forme di “riscoperta” ma in qualche misura anche di “reinvenzione” della politica.
Poi qualcosa di profondo mutò nel movimento. Continua Crainz:
C’è da chiedersi perché gli aspetti più freschi di quella ventata non siano proseguiti poi molto, e soprattutto come mai quell’interrogarsi fecondo su saperi e profili professionali si sia interrotto: travolto anch’esso da una politicizzazione estrema che ridusse i conflitti a vecchi schemi.
Il Sessantotto degli inizi, invece, continuava e innovava, con un linguaggio e una cultura originali, la lotta della generazione della Resistenza. Marcello Montanari, nella relazione al convegno “Il prisma spezzino. Il Sessantotto dalla dimensione locale a quella globale” (25-26 marzo 2022) ha affermato:
Il problema posto dal Sessantotto era la riforma del sistema dei saperi o, detto diversamente, il governo (e la crescita) della democrazia in una società industriale e di massa […] Il problema posto dal Sessantotto non era quello della rivoluzione italiana, ma di una riforma delle istituzioni: dell’allargamento delle basi democratiche dello Stato. Il Sessantotto era il momento conclusivo di un processo di democratizzazione iniziato con la Costituzione. E, se la generazione degli anni Quaranta aveva reinventato la democrazia e la libertà politica, quella degli anni Sessanta mostrava di voler ritrovare la democrazia nella vita quotidiana (nel lavoro come nelle relazioni intersoggettive). […] Se si coglie la complessità di questo orizzonte tematico, si può comprendere, allora, quanto grande sia stata la responsabilità di chi nei partiti di sinistra non seppe comprendere la “posta in giuoco” e di chi nelle organizzazioni minoritarie volle spingere il movimento verso una ideologia rivoluzionaria.
Non aveva ragione Marx quando diceva che le rivoluzioni non traggono la loro poesia dal passato. Aveva ragione invece Walter Beniamin: il loro motore segreto è in un desiderio di redenzione dei vinti, in un appuntamento misterioso tra le generazioni che sono state e la nostra.
Così come ci fu un rapporto tra Resistenza e Sessantotto, oggi dobbiamo vedere il rapporto tra il Sessantotto e noi, dobbiamo cogliere la virtualità generatrice di futuro di alcune idee del Sessantotto, i lasciti che ci sono ancora, come potenzialità attuali.
Non basta “il punto di vista di classe”, perché occorre creare un nuovo “senso comune”, una nuova moralità, un nuovo senso della vita: da qui la centralità della riforma dei saperi, degli apparati dell’egemonia culturale, della riforma intellettuale e morale.
Non basta la conquista del potere dall’alto, perché serve la liberazione della persona, la sua capacità di autodeterminare la propria vita.
Non basta la politica come potenza, perché nella ridefinizione della politica è centrale il problema della nonviolenza.
E’ vero, “andò diversamente”, ma quelle tracce possono tornare in forme nuove e costituiscono una spinta verso quel nuovo umanesimo che stiamo ancora cercando.
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