La Resistenza civile dei deportati. Storia di Loris Baruzzo
Città della Spezia, 2 maggio 2022
Loris Baruzzo nacque nel 1924 a Luni, frazione dell’allora Ortonovo, che ha da poco dato il suo nome al Comune. Il padre aveva partecipato ai fatti di Sarzana, il 21 luglio 1921: in particolare all’assalto al treno, di passaggio a Luni, che riportava indietro i fascisti di Carrara in fuga dopo il fallimento della spedizione sarzanese. Nel 1943 Loris lavorava in una fabbrica italo-tedesca, con sede a Ortonovo, di pompe per motori diesel. Produzione bellica, quindi: per questo era stato esonerato dal servizio militare e non si trovava al fronte. Una sua testimonianza fu inserita nel volume “Ortonovo verso la democrazia. 1922-1945”, pubblicato nel 1997 dall’Amministrazione Comunale e dal Consiglio Federativo della Resistenza di Ortonovo e dall’Istituto spezzino per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea. Loris è inoltre protagonista del video “Una vita come altre nel secolo dei massacri”, girato da Arturo Izzo con testo di Lorenzo Vincenzi, voluto nel 2004 dall’Amministrazione Comunale e dal Consiglio Federativo della Resistenza di Ortonovo, che ho visto per la prima volta nei giorni scorsi grazie all’amico Arturo Izzo.
Ecco il racconto di Loris:
“Dopo l’8 settembre 1943 i tedeschi smontarono la fabbrica di pompe e trasferirono le macchine in Germania. Volevano portare anche me, ma mio padre si rifiutò. Lo stabilimento fu chiuso, io fui licenziato. Mi nascosi per non partire per la guerra, e poi per non arruolarmi nella Repubblica fascista di Salò. Ma i carabinieri e la Decima Mas minacciarono di arrestare mio padre, fui costretto a presentarmi per salvarlo.
Mi condussero a Sacile, in Veneto, per un corso di addestramento aereo di tre mesi, poi mi trasferirono a Lucca. Stavo in cima al campanile di una chiesa. Venne un camion, la mattina dopo da undici eravamo rimasti in due, gli altri erano partiti con i partigiani, portandosi anche le armi. I tedeschi erano indiavolati. Ci portarono a Imola, scappammo con la scusa di andare a trovare una mia zia. Ci fermò la polizia tedesca, ma per fortuna avevamo ancora i documenti in regola. Scampammo a un terribile bombardamento, riuscii a tornare a Dogana, dove mi nascosi in un torchio per due-tre mesi. Seppi che molti giovani erano andati ai monti a fare i partigiani, mi unii a loro insieme a due miei cugini. Andammo a Castelpoggio, nella formazione di ‘Mario’, dove era commissario il ‘Caporalin’. Due persone eccezionali. Partecipai a qualche azione di disturbo per impedire i rifornimenti tedeschi”.
I partigiani della Val di Magra e di Apuania subirono il terribile rastrellamento del 29 novembre 1944:
“Ricevemmo l’ordine di sganciarci. Fu il ‘si salvi chi può’. Camminammo carponi per ore. Incontrammo una pattuglia di tedeschi, ci catturarono e ci portarono nell’ex colonia di Marinella di Sarzana, trasformata in un carcere con dentro circa 200 persone, tutte della zona. Venne mia mamma a portarmi da mangiare, non mi riconobbe da tanto che ero malridotto. Lì malmenarono il prete don Tito Bassi, prelevarono me ed altri partigiani per portarci a Spezia, e da lì in una caserma a Genova, su una bettolina, sballottati sul mare in tempesta. Mi capitò l’occasione di fuggire, ma non avevo i documenti e avevo paura di essere preso. Dissi ai miei compagni Bruno Marcesini, Ermanno Marcesini, Dante Galloni: ‘andate voi, io non vengo, affronto il mio destino’. Loro riuscirono ad arrivare a casa, io fui caricato su un carro bestiame. In quaranta ogni vagone, più uno della Brigata Nera di scorta. Senza cibo, senza gabinetti. Facemmo un buco con il coltello per i bisogni. Nelle zone interne le ragazze ci portavano le pagnotte e un po’ d’acqua. Il convoglio fu bombardato vicino a Sacile, i tedeschi ci rinchiusero nella caserma dove ero stato militare sette mesi prima! Trovai Ughetto Bacci di Ortonovo, che decise di tentare la fuga: ‘Tè ven, scapemo’. Io ebbi paura, sempre per la faccenda dei documenti. Anche Ughetto tornò a casa. Io fui caricato nel solito convoglio.
Dopo otto giorni arrivammo a Linz, in un campo di concentramento dipendente da Mauthausen. Migliaia di baracche, letti a castello senza paglia o cuscini, solo il tavolato. Siamo rimasti venti giorni, poi siamo stati smistati. Io fui portato nel campo di Turkenhof, nei pressi di Monaco, sulla strada per Dachau. Cercavano gli operai qualificati. Io non volevo produrre armi, temevo i bombardamenti a tappeto. Dichiarai di essere muratore, insieme ad altri muratori di Ortonovo. Mi dissero di fare un muro, ma cadde subito giù. Dissi: ‘Io contadino’, per fortuna il capo aveva un terreno da concimare. Fu la mia salvezza. Quando venne il momento della liberazione, quell’uomo mi abbracciò: ‘La guerra è finita, abbiamo perso, ma noi, ricordati, non tutti cattivi’”.
Loris vide l’orrore:
“A Linz vedevo gruppi di 60-70 persone con la divisa a strisce, con un violino e la fisarmonica in testa andavano in un luogo dove c’erano le baracche per la disinfezione. Invece che l’acqua facevano uscire il gas, lo sapemmo solo dopo la guerra. Poi sparivano nelle fosse già scavate.
A Turkenhof mi diedero il compito, al sabato, di seppellire i cadaveri del campo degli ebrei. Insomma, facevo il becchino. Ogni settimana c’erano 15-20 morti. Dormivano per terra, in baracche senza pavimento. Quando pioveva l’acqua filtrava. Li caricavamo nudi, stecchiti, pesavano quindici chili, li portavamo nel bosco dove c’erano le fosse. Ne dovevamo mettere due per fossa, uno dalla testa e uno dai piedi. Lo scavo l’avevano fatto fare a loro, era minimo. Subito dopo la liberazione, a maggio, volli tornare in quel posto. I cadaveri erano tutti scoperchiati. Scappai via.
Cercavo di dare forza agli ebrei. Li vedevo strappare l’erba per mangiarla, sembravano pecore al pascolo. Una volta mi dissero di riparare un tubo. Vidi uno sdraiato che aspettava la goccia che cadeva dal tubo. Era di Corfù, sapeva l’italiano. Gli diedi di nascosto otto patate bollite, sepolte sotto un po’ d’erba. Non l’ho più rivisto. L’indomani lo portarono via. Il penultimo giorno ci fecero scaricare due vagoni pieni di donne ebree, non potei nemmeno toccarle dal puzzo che quelle poverette emanavano. Ce n’erano sei morte, ne ho fatte scendere più di dieci. Può darsi che si siano salvate, gli americani arrivarono due giorni dopo”.
La strada del ritorno fu lunga e piena di avventure. Finalmente Loris arrivò a Luni:
“Appena sceso dal camion incontrai una ragazza in mezzo alla strada, l’abbracciai e la baciai senza sapere chi era… più tardi sarebbe diventata mia moglie! Anche lei aspettava un fratello che doveva rientrare dalla Germania. Non dico cosa successe quando mia mamma e mia nonna mi videro sulla soglia di casa! Mah, finché si racconta!…
Loris conclude:
“Ragazzi, rispettate le culture diverse, sconfiggete la violenza. Adulti, non dimenticate”.
Qualche anno fa anche Loris se ne è andato. Non può più raccontare, facciamolo noi per loro. Il libro e il video che sono alla base di questo articolo possono aiutarci.
Post scriptum:
Concludo con questo articolo la riflessione sul 25 aprile, iniziata sul nostro giornale con “Storie di resistenza civile delle donne” (24 aprile) e proseguita con “Un 25 aprile di pace” (25 aprile). La storia della nostra Resistenza ci insegna che essa non fu semplicemente la lotta armata per distruggere un nemico. Non nacque dall’odio fanatico, dal nazionalismo esasperato, ma dal senso del dovere morale, da un profondo amore per la giustizia, dall’annuncio di una nuova società umana. Sullo sfondo della nostra Resistenza vi era la costruzione di un nuovo ordine mondiale fondato sulla pace, sulla collaborazione e sull’eguaglianza dei popoli. Il vero dilemma di oggi è: quale resistenza alla guerra? Come vogliamo uscire da questa guerra? Con quali prospettive di convivenza pacifica e di sicurezza collettiva?
Le foto di oggi sono di Arturo Izzo, riprendono angoli preziosi del paese di Ortonovo.
lucidellacitta2011@gmail.com
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