Presentazione di “Generali e burocrati nazisti in Italia. 1943-1945” di Sandro Antonini
Sestri Levante, 8 aprile 2022
INTERVENTO DI GIORGIO PAGANO
Oggi presentiamo un libro importante, su un tema su cui la ricerca storica si è cimentata solo in anni relativamente recenti. Cito le opere più significative, quelle di Lutz Klinkhammer (1993), di Michele Battini e Paolo Pezzino (1997), di Carlo Gentile (2012).
Le fonti utilizzate da Sandro Antonini sono gli interrogatori dei gerarchi nazisti contenuti nei National Archives americani. Sono tra le fonti più preziose, insieme ai National Archives inglesi. Documentazione ancora più abbondante è in Italia: l’”armadio della vergogna” e i processi dei Tribunali militari.
Ricordo che il Comune e la città della Spezia furono in prima fila nella battaglia per i processi ai responsabili delle stragi naziste, perché alla Spezia aveva sede la Procura dove erano stati trasferiti ben 214 fascicoli dell’”armadio della vergogna”. Affiancammo alla difesa delle parti civili un legale di fiducia e organizzammo il convegno nazionale “Dall’armadio della vergogna ai processi: il cammino della verità”. E oggi la città si candida ad ospitare, a fini di studio e di ricerca, tutta la documentazione dei processi.
Il libro interessa in particolare la Liguria perché la nostra fu terra di rastrellamenti e di eccidi nazisti. Le violenze e i massacri diminuirono in Italia dall’autunno 1944, ma in Emilia e in Liguria continuarono a verificarsi episodi rilevanti (ricordo, nella IV Zona operativa, quella spezzina, i grandi rastrellamenti del 29 novembre 1944 e del 20-25 gennaio 1945).
La lotta partigiana in Liguria ebbe un carattere sia fortemente antifascista sia fortemente antinazista. É un intreccio da approfondire. Il libro di Antonini ci invita a farlo.
La memoria spezzina della deportazione – La Spezia è la città italiana con il più alto numero di deportati percentualmente alla popolazione – è certamente antinazista, ma è anche antifascista: perché è dall’ex 21° Reggimento Fanteria, caserma occupata dalle Brigate Nere e trasformata in comando-carcere e in luogo di terribili torture, che partivano i prigionieri condannati ai campi di concentramento in Germania. Nelle testimonianze che ho raccolto nei libri Eppur bisogna ardir e Sebben che siamo donne emerge che i fascisti si comportavano spesso in modo più feroce dei tedeschi. Ed è ancora viva la memoria del dopoguerra, del tempo dei processi contro i crimini fascisti – nel periodo che va dal giugno 1945 al maggio 1947 –, che rivelarono una vera e propria galleria degli orrori commessi dai fascisti.
Che cosa fu il fascismo repubblicano? Fu caratterizzato da una forte presenza di estremisti ai vertici e dall’esautorazione dei rappresentanti delle élites del potere: anche così si spiega la guerra civile.
C’è un nesso tra partecipanti all’occupazione italiana dei Balcani o alla Milizia fascista e appartenenza alla RSI.
La violenza emerge come tratto identitario del fascismo: lo squadrismo degli inizi si trasferisce nella Milizia, vive in Africa e nei Balcani, arriva fino alla RSI.
Il libro è molto netto su questo. Illustra la collaborazione dei gruppi fascisti estremisti con la gerarchia tedesca, dalla quale dipendevano.
Cita, non a caso, la circolare del generale Mario Roatta del 1° marzo 1942, che dichiarò uno stato di guerra contro la popolazione civile nella Croazia occupata dall’Italia, esattamente come erano usi fare gli alleati tedeschi nella guerra antipartigiana. “Se necessario – si legge nella circolare – non rifuggire di usare crudeltà. Deve essere una pulizia completa. Abbiamo bisogno di internare tutti gli abitanti e mettere le famiglie italiane al loro posto”. E ancora: “l’internamento può essere esteso… sino allo sgombero di intere regioni, come ad esempio la Slovenia. In questo caso si tratterebbe di traferire, al completo, masse ragguardevoli di popolazione”.
Il fascismo fu brutale. Anche gli ordinamenti giuridici della RSI furono brutali, e la RSI se ne avvalse senza esitazioni.
Il libro ci invita a pensare l’intreccio tra memoria antinazista e memoria antifascista. Il mondo della Resistenza deve mantenere un vigile equilibrio: l’attenzione posta sulle stragi e sui crimini nazisti, dettata da esigenze sacrosante non solo di memoria storica ma anche di risarcimento morale delle vittime, non deve comportare una rimozione delle colpe italiane grazie al comodo alibi degli “italiani brava gente”. Ci furono anche italiani oppressori e carnefici.
I conti con la storia sono un processo collettivo complesso, che l’Italia deve ancora in gran parte fare.
Sulla memoria antinazista, che è la “cifra” del libro, mi soffermo su un capitolo, emblematico. Molto legato alle nostre terre.
Tra il 1943 e il 1944 la Corsica, liberata dai tedeschi, era diventata “piazzaforte militare” degli Alleati. L’isola fu ribattezzata “USS Corsica”, la portaerei inaffondabile. Da lì partirono molte operazioni di sabotaggio e di spionaggio, compreso il volo senza ritorno di Antoine de Saint Exupéry, l’autore de “Il piccolo principe”, il cui aereo fu ritrovato molti anni dopo al largo della costa marsigliese. Tra queste operazioni ci fu, a inizio 1944, quella chiamata “Ginny” – nome ispirato, sembra, alla fidanzata di uno dei quindici soldati del commando – che aveva come obiettivo la distruzione della galleria ferroviaria tra Bonassola e Framura, per interrompere i collegamenti delle forze tedesche che occupavano l’Italia. L’obiettivo fallì. Un primo blitz, nella notte tra il 27 e il 28 febbraio, non riuscì perché il commando sbarcò in un punto sbagliato. L’operazione “Ginny II” fu ritentata il mese successivo. La terraferma fu raggiunta nella notte tra il 22 e il 23 marzo. Ci furono ancora errori, e altre complicazioni. I quindici soldati del commando si nascosero tra le rocce della spiaggia di “Scà”, poi raggiunsero una stalla abbandonata a Carpeneggio.
Ma chi erano i quindici? Erano militari dell’OSS, il corpo dell’esercito statunitense che veniva impiegato in operazioni speciali. I componenti dei commandos venivano generalmente scelti tra i soldati con origini familiari nei Paesi obiettivo delle missioni. In questo caso tredici figli di emigrati italiani in America e due nati in Italia. Raffaella Cortese de Bosis e Marco Patucchi, in una memoria pubblicata in un inserto di “Repubblica” del 29 giugno 2018, hanno raccontato le loro vite. Storie di emigrazione, di viaggi in nave durate settimane per raggiungere Ellis Island, a New York. Erano giovani operai, muratori, macchinisti, barbieri… Ecco i loro nomi: Santoro Calcara, Angelo Sirico, Alfred L. De Flumeri, Salvatore Di Sclafani, Joseph M. Farrell (la madre era italiana), John J. Leone, Joseph A. Libardi, Dominick C. Mauro, Joseph Noia, Vincent J. Russo, Thomas N. Savino, Rosario F. Squatrito, Paul J. Traficante, Liberty J. Tremonte, Livio Vieceli.
I quindici non ebbero fortuna. A Carpeneggio un giovane contadino, Franco Lagaxio, diede loro del cibo e fornì informazioni sulla galleria. Ma la mattina del 24 marzo un pescatore scoprì i gommoni e avvisò il Fascio di Bonassola. Lagaxio cercò di avvertire gli italo-americani, ma era ormai troppo tardi. I fascisti e i nazisti avevano già catturato il commando.
Dopo un primo interrogatorio a Bonassola i quindici vennero portati nella villa di Carozzo, nelle colline di Spezia, sede del quartier generale di Kurt Almers, comandante della 135a Brigata. Nonostante le regole della Convenzione di Ginevra che proibivano l’esecuzione di soldati nemici catturati in divisa, il 25 marzo arrivò l’ordine del 75° Corpo d’armata tedesco di fucilare immediatamente i prigionieri. Il telegramma fu firmato dal generale Anton Dostler, capo del 75°. Iscritto al partito nazista, era arrivato in Italia il 5 gennaio 1944, promosso dopo le azioni criminali in Ucraina. Almers tentò senza successo di far cambiare l’ordine. Nessuno dei quindici fu giudicato da un tribunale. All’alba del 26 marzo furono uccisi a Punta Bianca di Ameglia, dove i tedeschi avevano un deposito, una batteria e un Comando Marina. Furono fucilati o subirono anche altri oltraggi? Lo studioso levantese Giulio Mongatti, in una memoria, sostenne che “da accertamenti compiuti dalle truppe americane alcuni dei giustiziati furono sepolti ancora vivi”.
Chissà, è molto probabile che Rudolf Jacobs, il caporalmaggiore tedesco che divenne partigiano, sia stato spinto alla sua scelta di diserzione – nell’estate 1944 – anche da un episodio come questo. Lavorava a Punta Bianca, vide l’orrore. Quando ricordiamo l’orrore tedesco non dobbiamo dimenticare che ci fu una minoranza di tedeschi che si oppose. La forza morale di questa scelta ci appare straordinaria, se rapportata alla miseria morale della maggioranza dei militari tedeschi.
Dostler fu catturato nel dopoguerra e sottoposto a processo nell’ottobre del 1945, nella Reggia di Caserta. Si difese sostenendo di aver obbedito agli ordini di Hitler del 1942.
I due documenti di Hitler del novembre 1942 e del dicembre 1942 erano netti: ampi poteri ai soldati, uccisione immediata e senza alcuna formalità giuridica di partigiani e civili, nessuna limitazione alla violenza anche contro donne e bambini. Furono la giustificazione formale ai peggiori eccessi.
Dichiarato colpevole, Dostler fu fucilato ad Aversa il 1° dicembre 1945.
Ma Dostler dipendeva dal feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante militare in capo del sudovest. Non poteva non averlo informato, né aver proceduto senza la sua autorizzazione. Antonini ha studiato i verbali degli interrogatori dei nazisti negli archivi americani. Kesselring disse di non aver mai saputo nulla della vicenda, ma in quei giorni si trovava a Bonassola! Del resto, se lo avesse ammesso, sarebbe stato fucilato come Dostler. Negli interrogatori anche Karl Wolff, capo delle SS e della polizia, e Siegfred Wetpkhal, capo di stato maggiore del quartier generale tedesco appaiono fumosi, falsi e cinici, come Kesselring.
Scrive Antonini:
“Le contraddizioni di Kesselring sono così evidenti da apparire perfino puerili: mente sapendo di mentire. Del resto la menzogna, unita ai vuoti di memoria, è la cifra che caratterizza i grandi gerarchi nazisti catturati e sottoposti a processo, su cui incombe la possibilità di una condanna a morte”.
Va sottolineata la peculiarità dell’eccidio di Punta Bianca.
Carlo Gentile ha scritto di tre diverse guerre condotte dai nazisti: contro gli eserciti alleati, “combattuta quasi senza eccezioni secondo i canoni del diritto di guerra”; antipartigiana, “combattuta con estrema durezza e scarso rispetto del diritto bellico”; contro la popolazione civile, “condotta con modalità in larga prevalenza criminali”.
Nel caso di Punta Bianca ci fu l’eccezione.
La primavera del 1944 è una data chiave: a partire dalla primavera 1944 emerge la tendenza a rispondere con ritorsioni sempre più violente. Anche se ci furono precedenti: l’eccidio di Boves è del settembre 1943.
La strage delle Fosse Ardeatine è del 24 marzo 1943. Scrive Antonini:
“E’ assolutamente fuorviante, perché falso, credere che il maresciallo Kesselring non sappia chi siano gli elementi poi avviati alla fucilazione. Un episodio così grave, in cui si decide la morte di oltre trecento persone, con tutto quello che implica, deve essere a conoscenza del comandante supremo del sudovest. Simili decisioni giungono dall’alto e, come ha ammesso Kesselring, l’SS Kappler non possiede abbastanza autorità per agire in autonomia”.
Marzo fu il mese dell’assalto al treno a Valmozzola, l’episodio che segnò l’inizio della Resistenza spezzina-parmense-lunigianese, e del conseguente eccidio sul monte Barca, in Lunigiana. Poi ci fu l’imboscata partigiana a Cerrè Sologno, nel Reggiano. Tra il 18 marzo e la metà di aprile del 1944 l’episodio innescò una tragica catena di eventi, al termine della quale si ebbero le stragi di Monchio, Cervarolo e Vallucciole, le cui vittime furono oltre 300.
Kesselring voleva dirigere di persona la lotta antifascista. Riuscì ad accentrare il comando, nel maggio 1944.
Il 13 giugno ci fu la strage di Forno, nelle Apuane. Autori Almers e la Decima Mas. 81 i morti.
Le misure di Kesselring del 17 giugno 1944 si richiamarono all’ordine di Hitler del 1942 e assicurarono totale impunità verso la violenza.
Con l’ordine di Kesselring del 1° luglio, ha scritto Gentile, “il principio della rappresaglia soppiantò quello della lotta militare contro i partigiani”.
Anton Dostler, il 13 giugno 1944, scrisse che era necessario “agire con rapidità e durezza draconiana”. E a fine luglio 1944, a Pisa, disse al comandante SS Max Simon: “il nostro dovere è agire nel modo più inesorabile”.
Nel maggio 1944 l’OKW, il Comando supremo della Wehrmacht, aveva proceduto a una riforma radicale delle linee guida che garantiva ai partigiani catturati lo status di prigionieri di guerra. Ma le autorità militari in Italia non si adeguarono alle nuove regole. Gli ordini di Kesselring del giugno 1944 confermarono le direttive precedenti.
Da allora fu un crescendo di orrori.
Tra Cisa e Cerreto, i rastrellamenti Wallenstein I, II, III, con risultati inferiori alle attese, gli eccidi a Corniglio, Monchio delle Corti… Ci furono anche perdite tedesche: l’8 luglio nei pressi di Varese Ligure (16 morti), l’11 luglio nella battaglia di Pelosa di Varese Ligure (31 morti). Da qui l’eccidio di S. Maria del Taro.
Contro la Resistenza in IV Zona operativa si scatenò poi il rastrellamento di agosto, protagonista Almers con il battaglione Mittenwald, gli alpini tedeschi. Da Kesselring arrivarono “congratulazioni vivissime” per “la buona riuscita della brillante spedizione”.
Poi i nazisti compirono le stragi più infami: S. Anna di Stazzema il 12 agosto, Valla e Bardine il 19 agosto, Vinca il 24 agosto, Monte Sole il 29 e 30 settembre. Tutto all’insegna di una organizzazione meticolosa e di una regia militare: nulla di spontaneo.
Il 21 agosto ci furono le proteste di Mussolini e l’ammissione di Kesselring. Ma nessuna revoca.
Le misure draconiane dell’estate non riuscirono però ad annientare la Resistenza.
Un documento della 14° Armata rilevò che nella zona della Spezia “la divisione partigiana si era ripresa con sorprendente rapidità”.
Kesselring scatenò una nuova offensiva militare tra l’8 e il 14 ottobre.
Vennero le difficoltà dell’autunno-inverno: il rastrellamento del 29 novembre 1944 in Val di Magra, quello del 20-25 gennaio 1945 in Val di Vara, noto come “la battaglia del Gottero”. Poi la ripresa partigiana a febbraio, fino all’insurrezione di aprile.
Nell’ultima fase i massacri dei civili diminuirono sensibilmente. Antonini riporta un episodio su cui si era già soffermato nel suo libro Partigiani. Una storia di uomini:
“A seguito dell’azione di un distaccamento della brigata Muccini, due soldati tedeschi rimangono uccisi, Subito, il comandante del presidio decide una rappresaglia: ‘Sintomatico il fatto – si scrive nel rapporto – che da parte tedesca si siano fucilati due sconosciuti per due dei loro, pur avendo in mano molti ostaggi. E’ palese che si sia voluto intimorire, ma si è avuto paura di provocare indignazione: quindi, manifesta debolezza’”.
E tuttavia, l’8 febbraio 1945, Kesselring emanò nuove direttive: ancora una volta all’insegna delle rappresaglie di massa ai danni della popolazione. della presa di ostaggi e della messa a morte dei partigiani e dei loro “fiancheggiatori”.
Solo il successore Vietinghoff-Sheel provvide ad allineare le procedure alle modifiche emanate dall’OKW nel maggio 1944, anche per quanto riguardava il trattamento da riservare ai partigiani, che dovevano essere trattati come prigionieri di guerra.
Antonini si sofferma poi sull’operazione Sunrise (Aurora), la trattativa segreta svoltasi tra il capo delle SS Karl Wolff e Allen Welsh Dulles, capo dell’OSS americana in Europa, la futura CIA. Il negoziato riguardò la resa separata delle forze tedesche in Italia, unite alle forze fasciste della RSI, favorendo la cessazione dei combattimenti e il passaggio dei poteri in mano alleata. Malgrado l’impegno di Wolff e di Dulles, l’operazione non raggiunse lo scopo, per una serie di contrasti tra gli schieramenti e per la contrarietà dell’URSS. Kesselring fu in qualche modo partecipe dell’operazione, ma non fino in fondo.
Venne il 25 aprile. La resa dei nazisti in Italia, firmata segretamente il 29 aprile, divenne effettiva il 2 maggio.
Il 10 ottobre 1943 il noto fondista tedesco di politica estera Hans Schwarz Van Berk aveva formulato, in un articolo su Das Reich, il giudizio secondo cui il movimento di resistenza in Italia non aveva alcun futuro.
E invece finì molto diversamente.
A un durissimo prezzo, purtroppo: oltre 23 mila morti, secondo l’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia.
Kesselring, responsabile delle stragi di Punta Bianca, delle Fosse Ardeatine, di Sant’Anna di Stazzema, del Monte Sole e di tanti altri crimini verso innocenti, fu condannato a morte, poi graziato, infine posto in libertà nel 1952. Non rinnegò mai il passato e disse che gli italiani avrebbero dovuto dedicargli un monumento.
L’indagine storica di Antonini ci invita a non dimenticare e a non confondere vittime e carnefici, bene e male.
Ha valore perenne la poesia che il partigiano Pietro Calamandrei scrisse il 4 dicembre 1952:
Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio dei torturati
più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA
Popularity: 3%