2022, anno record in Italia per le spese militari
MicroMega.net
12 gennaio 2022
Cinquanta premi Nobel e scienziati di ogni Paese -tra gli altri Carlo Rubbia e Giorgio Parisi- hanno rivolto un appello, in modo semplice e diretto, ai governi del mondo per una riduzione concordata della spesa militare del 2 per cento ogni anno, per cinque anni. Domenico Gallo, su MicroMega.net, ha giustamente evidenziato sia l’importanza politica del documento sia il fatto che la politica non si sia sentita minimamente interrogata: “Questa notizia semplicemente è sparita dai radar della politica. Nessuno dei leader politici italiani, adusi a una presenza attiva nel teatrino politico italiano, in questi giorni particolarmente impegnati in un vacuo chiacchiericcio sul Quirinale, ha reputato di spendere una sola parola sulla proposta dei cinquanta premi Nobel, nemmeno per dire: non sono d’accordo”.
Il motivo è chiaro: l’unanime adesione delle forze politiche al forte incremento, anche in Italia, delle spese militari.
Il Presidente del Consiglio Draghi lo aveva detto il 29 settembre dello scorso anno durante la conferenza stampa sulla “Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza” (Nadef), il primo passo in vista dell’elaborazione della legge di bilancio: “Ci dobbiamo dotare di una difesa molto più significativa e bisognerà spendere molto di più di quanto fatto finora”.
Draghi è stato di parola. La spesa militare prevista per il 2022 supererà il muro dei 25 miliardi di euro (25,8 miliardi). Il dato si ricava dal report dell’Osservatorio Milex sul bilancio previsionale dello Stato per il 2022: “Il Bilancio del ministero della Difesa per il 2022 sfiora i 26 miliardi di euro con un aumento di 1,35 miliardi, ma vanno poi aggiunti gli stanziamenti di altri ministeri”.
Dal 2017 la spesa militare italiana ha continuato a crescere soprattutto per l’acquisto di nuovi armamenti: lo stanziamento nel 2022 segna un record storico. Spiega Giorgio Beretta, analista della Rete Pace e Disarmo:
“Nei mesi scorsi il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ha sottoposto all’approvazione del Parlamento un numero senza precedenti di programmi di riarmo: diciotto, di cui ben tredici di nuovo avvio, per un valore già approvato di 11 miliardi di euro e un onere complessivo previsto di 23 miliardi. La parte del leone è dell’Aeronautica con programmi per oltre 6 miliardi di euro. C’è di tutto: dai fondi per il nuovo cacciabombardiere Tempest (2 miliardi dei 6 previsti) che si aggiungerà agli F-35, ai nuovi eurodroni classe Male; dagli aerei Gulfstream per la guerra elettronica alle nuove aerocisterne per il rifornimento in volo. Una grossa fetta della torta è destinata alle nuove batterie missilistiche antiaeree per missili Aster (2,3 miliardi di euro) e ai nuovi blindati Lince: ben 3.600 rimpiazzeranno i 1.700 già in dotazione all’Esercito. Non solo. Negli ultimi giorni dell’anno ne sono stati aggiunti cinque portando a ventitré il numero dei programmi che il ministro della Difesa ha inviato alle Camere nel 2021 (record storico assoluto) per un valore complessivo che supera i 12 miliardi di euro e autorizzazioni di spesa annuale per oltre 300 milioni nel 2021 e per quasi mezzo miliardo nel 2022”.
Se ne discute molto poco, e in un contesto di “unità nazionale” ben prima del governo Draghi. La domanda chiave è: a cosa servono tutte queste armi? Si può rispondere solo cercando di comprendere il “nuovo concetto di difesa” in elaborazione da anni, per cui il concetto di difesa non si applica più ai confini nazionali ma agli interessi economici e geo-strategici, cioè ovunque l’interesse nazionale possa essere minacciato.
La “Direttiva per la politica industriale della Difesa” emanata lo scorso luglio da Guerini, è inserita in questo contesto ed esprime un’ulteriore novità: l’Italia deve “disporre di uno strumento militare in grado di esprimere le capacità militari evolute di cui il Paese necessita per tutelare i propri interessi nazionali” per dare impulso “al consolidamento del vantaggio tecnologico e, quindi, della competitività dell’industria nazionale di settore”. Si tratta, rileva Beretta, di “una novità assoluta non solo perché è la prima direttiva in materia di politica industriale-militare emanata del dopoguerra, ma soprattutto perché definisce un inusitato rapporto tra industria e forze armate: le sinergie tra la Difesa e l’industria militare travalicano infatti le consuete esigenze di modernizzare gli strumenti militari e vengono rese funzionali alla ‘proiezione internazionale’ dell’Italia”.
Da qui la necessità, come spiega sempre Guerini, di superare il rapporto tra le Forze Armate e l’industria di tipo “cliente-fornitore” per favorirne invece la sinergia come “Sistema Difesa” finalizzata, tra l’altro, alla “proiezione sui mercati esteri” degli armamenti. In una parola: il ministero della Difesa viene messo al servizio dell’industria degli armamenti. In aperto contrasto con la Costituzione.
Ma c’è un’altra grande questione ancora, di cui si parla troppo poco. L’Italia è in procinto di raddoppiare il contingente militare in Iraq per poter assumere il comando della missione della Nato: trasformerà la partecipazione militare italiana in una vera operazione di combattimento rispetto a quella che finora era solo una presenza per la difesa di aree sensibili e per l’addestramento dell’esercito iracheno. Per adempiere al nuovo compito i vertici militari si sono affrettati a chiedere di poter armare i droni Reaper con missili aria-terra e bombe a guida laser – trasformandoli così da semplici ricognitori a veri bombardieri – e di dotarsi di una flotta di Hero-30, i cosiddetti “droni kamikaze” che si autodistruggono nel colpire l’obiettivo. La missione diventa in questo modo la principale missione italiana all’estero. Ma perché una missione così consistente?
Forse il vero scopo è quello di proteggere gli interessi delle multinazionali del petrolio e del gas. Come ha rivelato una ricerca di Greenpeace, due terzi delle spese delle operazioni militari all’estero dei Paesi europei riguardano la difesa di fonti fossili: l’Italia negli ultimi quattro anni ha speso 2,4 miliardi di euro nelle missioni militari collegate a piattaforme estrattive, oleodotti e gasdotti che riguardano l’ENI.
Dopo la disastrosa missione in Afghanistan ci stiamo imbarcando in questa nuova operazione militare. Senza alcun dibattito pubblico sui suoi obiettivi. Hanno ragione le quarantasette organizzazioni, coordinate dalla Rete Pace e Disarmo, che in un loro documento hanno chiesto la sospensione della guida italiana della NATO in Iraq.
Il compito degli europei, si legge nel documento, dovrebbe essere quello di favorire la liberazione dell’Iraq dalla morsa del conflitto che oppone Stati Uniti e Iran. E sostenere lo sviluppo economico, la democrazia e i diritti umani. Ma questo non si fa con gli eserciti, bensì “collaborando con l’attivo sostegno alla società civile irachena”. Una tale missione di addestramento “dopo quanto successo in Afghanistan, su cui non si è nemmeno fatta una seria analisi, dovrebbe almeno essere rivalutata. Il rischio concreto è che l’Italia rimanga invischiata nella lotta per il controllo dell’Iraq, per conto di altri Paesi, senza nemmeno un dibattito pubblico. E senza che ne abbia nemmeno un diretto interesse. Con la conseguenza, tra l’altro, di nuovi gravi rischi anche per la sicurezza delle organizzazioni umanitarie italiane che lì operano. Rischi dovuti alla confusione tra presenza civile e militare”. Le quarantasette organizzazioni firmatarie concludono: “Chiediamo la sospensione della decisione di assumere la guida della NATO in Iraq e del processo di acquisizione di questi armamenti. E l’apertura di un dibattito pubblico, o almeno parlamentare, su modelli, obiettivi, strumenti della attuale presenza italiana in Iraq”.
Possibile che le lezioni della storia non ci insegnino nulla?
Giorgio Pagano
Popularity: 2%