Elogio del conflitto
Non basterà uno sciopero, probabilmente tardivo, a cambiare le cose. Ma, intanto, è un atto di lotta sacrosanto che rompe la cappa del conformismo che avvolge il Paese.
Giorgio Pagano 15 Dicembre 2021 www.micromega.net
Il grande cambiamento in cui siamo immersi ci obbliga a pensare e ad agire in modo radicalmente nuovo. Accanto alla crisi ambientale, mai così grave, emerge lo scandalo dell’aumento smisurato delle diseguaglianze. L’ultima edizione del World Inequality Report rivela l’esplosione della forbice tra le diverse classi sociali in tutto il mondo. In Italia il reddito medio per gli adulti è 27.340 euro, ma mentre il 50% pagato meno guadagna 11.320 euro l’anno, il 10% meglio remunerato guadagna otto volte di più (87.850 euro, il 32% del totale). Tra il 2007 e il 2019, per il 50% più povero i redditi medi sono calati del 15%, a fronte di una riduzione del 12% del reddito nazionale per adulto dovuta alle politiche dell’austerity neoliberista.
Come il resto del mondo, l’Italia non esce affatto bene dal Report, anzi. Un altro studio, elaborato dall’Ocse, certifica che siamo l’unico Paese dell’area in cui i salari medi, dal 1990 a oggi, sono diminuiti: del 2,9%, del 3,5% se consideriamo l’ultimo ventennio.
Tutto ciò è aggravato dall’aumento della precarietà del lavoro. Secondo lo studio della Fondazione Di Vittorio, solo gli occupati a termine, ormai oltre i tre milioni, hanno superato il livello pre-pandemia e si avvicinano ai livelli più alti mai registrati prima.
Le scelte del Governo Draghi non sanano queste fratture: nonostante le risorse pubbliche siano aumentate, non c’è alcuna discontinuità con le politiche del passato, a cominciare dal fisco.
Non basterà uno sciopero, probabilmente tardivo, a cambiare le cose. Ma, intanto, è un atto sacrosanto, che rompe la cappa del conformismo che avvolge il Paese. Se, come ha detto Maurizio Landini, è necessario «ricostruire una cultura politica che rimetta al centro il ruolo del lavoro e il significato di ciò che attraverso il lavoro si fa», servono una forza culturale prima che politica e una disponibilità alla lotta che è mancata negli anni della subalternità all’austerità neoliberista.
Bisogna ridare coscienza e fiducia a chi sta sotto. Battersi per conquiste normative, ma prima ancora sul piano culturale. Dissolta la cultura della “società del lavoro” ha trionfato la cultura del lavoro come merce. Tuttavia la pandemia ha rivalutato nel senso comune tanti mestieri. Un sentimento che va consolidato con una lunga opera di costruzione sociale e politica, che ha bisogno del sindacato – da rinnovare – e della sinistra – da far rinascere dalle macerie.
Il “pensiero unico neoliberista” ha vinto perché è cambiata la composizione sociale, più frammentata e meno solidale. Ma non solo per questo: il resto lo ha fatto l’egemonia culturale, intesa come impasto di convinzioni comuni per cui alla fine non c’e nessuna differenza tra la libertà dell’individuo e la libertà del mercato. Per riconquistare gli operai conteranno l’azione quotidiana e la chiarezza degli orizzonti, sul “senso della vita”.
Conterà, nelle nostre società sempre più omologate, riscoprire il conflitto sociale nelle sue forme più moderne. “Insorgiamo” – come ci hanno insegnato gli operai della GKN – evoca i moti ottocenteschi e la lotta partigiana ma vale anche per l’oggi. Il conflitto non è qualcosa da cui dobbiamo liberarci ma una necessità, fisiologica e utile, della vita. Lo sciopero del 16 dicembre ci dice anche questo: la presa di parola è fondamentale per la democrazia.
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