L’emergenza clima, tra ostacoli economici e politici e nuova coscienza generazionale
MicroMega.net 6 dicembre 2021
IL FALLIMENTO DI GLASGOW E LA CRISI DELLA GOVERNANCE SOVRANAZIONALE
Anche Glasgow è stata una delusione. Una cosa è emersa in modo chiaro: per contenere il surriscaldamento terrestre a + 1,5 gradi entro il 2030, i governi dovrebbero cancellare da subito gli investimenti in carbone, petrolio e gas e concentrare gli investimenti sulle rinnovabili. Ma questo cambiamento di rotta non c’è stato: nessuna decisione di rilievo in tal senso è stata presa. Il segno del fallimento della COP26 è stato l’emendamento proposto dall’India, e poi approvato pur di chiudere il negoziato, che ha sostituito la progressiva eliminazione del carbone con la sua riduzione. Si può dire che, nonostante ciò, il carbone è rimasto la prima fonte energetica da eliminare nella lista. E si può pur sempre considerare il documento congiunto Cina-Usa, anche se privo di contenuti significativi, come indice di quella collaborazione globale di cui ci sarebbe bisogno. Ma, al netto di tutto ciò, la valutazione è che su ogni questione gli impegni sono stati troppo generici e le risorse stanziate insufficienti.
La presenza dell’Unione europea è stata anch’essa deludente. Nelle ultime settimane il “Green New Deal” è stato molto ridimensionato dall’orientamento prevalente a inserire nella tassonomia (per definire ciò che è “sostenibile”) il gas e il nucleare, nonché dal varo di una riforma della Pac (Politica agricola comune) che favorisce l’agrobusiness.
E l’Italia? Ha aderito alla coalizione di un piccolo gruppo di Paesi che si pone l’obiettivo di eliminare anche petrolio e gas, ma senza impegni precisi. In realtà ha spinto e sta spingendo, dentro l’Ue, per il gas e per il nucleare. Il Pniec (Piano nazionale integrato per l’energia e il clima) va aggiornato, le rinnovabili sono ferme. Mentre andrebbero fermate – ma non accade – le trivelle, le caldaie a gas, le automobili inquinanti.
Insomma, ha ragione Greta Thunberg: Glasgow è stato il “festival del greenwashing”, dell’ecologismo di facciata. In ogni caso, anche se qualche passo avanti su qualche punto c’è stato, non si può non dire che è radicalmente insufficiente. E che è necessaria la protesta, risorsa politica inestimabile in una sfida come questa.
Tanto più che manca una governance sovranazionale e che tutti i suoi strumenti sono in crisi. Non si vede come si possano aggiungere accordi seri in un’atmosfera di guerra fredda, in cui nessuno ascolta il Segretario generale dell’Onu e ogni Paese pensa a se stesso. Una leadership globale non c’è, e non può certo essere esercitata dagli Stati Uniti. L’abbiamo visto per la pandemia, lo vediamo per il clima: gli Stati Uniti sono un Paese diviso, che difetta in coerenza. Anche per questo il conflitto ingaggiato con la Cina è pericoloso. Quel piccolo segnale del documento congiunto a Glasgow va dunque valorizzato, perché è in controtendenza. La nostra società è troppo debole: nessuno può farcela da solo.
QUESTIONE SOCIALE E QUESTIONE AMBIENTALE: SONO I PIU’ POVERI A PAGARE
A Glasgow è emerso, e questo è un fatto positivo, il ruolo dei Paesi poveri, o meglio impoveriti. “I Paesi poveri come il nostro -ha detto il Presidente del Niger Mohamed Bazoum-, che non hanno alcuna responsabilità per il cambiamento climatico, sono quelli che oggi pagano il prezzo più alto al consumismo promosso da un modello di sviluppo che ha riservato pochissima attenzione ai popoli dei Paesi deboli, oltre che alle generazioni future”.
I Paesi impoveriti sono quelli che fanno il sacrificio maggiore, e sarà sempre peggio: dove è caldo sarà più caldo, dove piove pioverà di più, dove c’è marginalità si finirà ancor di più ai margini. Le dune del deserto avanzano nei villaggi subsahariani e la sabbia seppellisce le aree agricole e pastorali. Thomas Sankara, Presidente del Burkina Faso nei gloriosi anni 1983-1987, prima del suo assassinio, aveva studiato in Madagascar. Si impegnò per rinverdire il Sahel e diceva: “Se potessimo portare qui un po’ del verde malgascio…”. Ma ora nel sud dell’isola non piove da otto o dieci anni, sono rimasti i cactus ed è arrivata la carestia. L’Asia non è da meno: l’acqua del mare si innalza e invade i campi coltivati del Bangladesh, distruggendone la fertilità.
I Paesi ricchi fanno ben poco, è stato denunciato anche a Glasgow. Ma Stati Uniti e Unione europea hanno impedito l’istituzione del “Glasgow Facility on Loss and Damage”, l’organismo richiesto da 134 Paesi per garantire sostegno finanziario ai Paesi impoveriti. Così come non è stato preso alcun impegno sulla promessa del Fondo Verde di 100 miliardi di dollari all’anno a questi Paesi.
Sono risorse indispensabili non solo per la mitigazione del cambiamento climatico e per la conversione ecologica – dalla riforestazione alle energie rinnovabili – ma anche per l’adattamento, là dove il danno è ormai irreversibile: si pensi, per esempio, alla difesa delle aree costiere dall’innalzamento dei mari.
Mentre per i Paesi ricchi la crisi climatica è un problema di mitigazione, per i Paesi impoveriti è un dramma del presente. Lo scrive l’Unep (il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) nel suo Adaption Gap Report 2021: “Un’azione tempestiva è imprescindibile perché i benefici della mitigazione arriveranno non prima del 2040, e in gran parte gli impatti previsti per i prossimi due decenni potranno essere ridotti solo con l’adattamento”.
I fondi sia per la mitigazione e la conversione ecologica che per l’adattamento vanno dunque aumentati in modo assai consistente. Ma la questione è anche un’altra: vanno pagati principalmente sotto forma di donazioni, in modo da non aumentare l’onere del debito pubblico dei Paesi impoveriti.
Questione ambientale e questione sociale si intrecciano dunque più che mai, perché sono i più poveri a pagare. Dobbiamo sostenere i Paesi impoveriti perché si sviluppino usando tecnologie e tecniche che non impattino sull’ambiente. Ma dobbiamo anche ridurre i nostri consumi. Secondo il Rapporto Oxfam sulle diseguaglianze climatiche nel 2030 le emissioni di CO2 in atmosfera prodotte dall’1% più ricco della popolazione mondiale saranno trenta volte superiori ai livelli sostenibili per limitare l’aumento delle temperature globali entro + 1,5 gradi. L’1% più ricco, cioè ottanta milioni di persone, tra meno di dieci anni sarà responsabile di ben il 16% delle emissioni globali, mentre nel 1990 rappresentava il 13% e nel 2015 il 15%. Se guardiamo al 10% più ricco del mondo, i dati sono di segno analogo. Non dobbiamo chiedere di mangiare meno carne all’Africa subsahariana, dove se ne consumano cinque chili all’anno, ma agli Usa, che sono a quota 125 chili pro capite. La conversione ecologica non è compatibile con l’idea della crescita illimitata, e presuppone un cambiamento profondo nei modi di produzione e di consumo e negli stili di vita. È conversione “strutturale” e “sovrastrutturale”, produttiva e personale.
IL METANO NON DA’ UNA MANO, ANZI
Il gas naturale, combustibile fossile, produce la metà del riscaldamento globale (0,5%). La produzione energetica nazionale, se si fonderà sulla sostituzione del carbone con un altro combustibile fossile, continuerà ad essere una fonte sostanziale di emissioni climalteranti. Lo studio Climate analitycs sostiene che la dipendenza dal gas naturale, considerato dal Ministro Cingolani un alleato della “transizione ecologica”, non è compatibile con l’obiettivo del contributo dell’Italia a non superare 1,5 gradi.
Non è vero, dunque, che “il metano ci dà una mano”, anzi. Ma è possibile farne a meno? Certamente, ma bisognerebbe puntare davvero sulle rinnovabili: l’Italia non ha ancora politiche in atto per raggiungere l’obiettivo del 30% di rinnovabili entro il 2030. Cingolani vuole le centrali a gas per “garantire la potenza”. Dimentica di aggiungere “di picco”. Non c’è deficit di potenza di base in Italia dato che quella disponibile installata è di circa 115 GW contro una domanda massima di circa 60 TW (Fonte: Terna per il 2018). L’energia delle nuove centrali a gas può essere fornita mediante opportuni sistemi di accumulo, tra cui quello idraulico mediante pompaggio. L’Italia ha una grande capacità di accumulo da pompaggio, poco sfruttata. E altri impianti di accumulo possono essere realizzati in alcuni laghi. Dobbiamo investire nell’accumulo, invece che in nuove centrali a gas. Anche per favorire la penetrazione delle rinnovabili occorre incentivare i sistemi di accumulo, cioè le mega batterie che rilasciano parte della sovraproduzione rinnovabile nelle ore serali.
La ragione vera per cui ciò non succede è che si insiste sul gas per fruire delle sovvenzioni legate al capacity market, che paga la disponibilità a fornire energia in caso di temporanea carenza della rete. Basterebbe eliminare queste sovvenzioni, e puntare sugli accumuli e sulle rinnovabili. Come stanno facendo aziende private (una anche italiana) in alcuni Stati americani.
Ma Enel e soprattutto Eni hanno altre intenzioni. Come tutti i big del fossile in tutto il mondo. Negli ultimi tre anni le società petrolifere hanno investito 168 miliardi di dollari per esplorare nuovi giacimenti. Se tutti i tubi in progetto fossero posati e puntati verso il cielo, arriverebbero a metà strada tra la Terra e la Luna. Il 10% della produzione di Eni deriva dalle operazioni nell’Artico. Eni è anche in Mozambico, a Cabo Delgado. I danni, ambientali e sociali, sono enormi. Eppure Eni è dello Stato: ma conta più dello Stato e dei governi, che le delegano le decisioni in materia di politica energetica nazionale.
IL NUCLEARE, ARMA DI DISTRAZIONE DI MASSA
Chi osteggia le rinnovabili propone il gas, ma anche il nucleare. Anche in questo caso c’è lo zampino dell’Eni, che nei giorni scorsi ha confermato ed esteso il suo investimento (360 milioni di dollari) nella società Cfs, che lavora nella fusione nucleare.
Ai sostenitori del nucleare sfugge che la proposta è innanzitutto impraticabile per questioni di tempi e di costi. Non a caso Stati Uniti e Francia, che hanno un’industria nucleare in attività, non riescono a costruire impianti.
Negli Stati Uniti il “rinascimento nucleare” fu lanciato da George W. Bush nel 2001. L’esito è stato fallimentare. Ad oggi nessun nuovo reattore è entrato in funzione, due sono ancora in costruzione a costi altissimi e altri due sono stati cancellati dopo ingenti spese, mentre l’azienda proprietaria della tecnologia Toshiba-Westinghouse è fallita nel 2017.
In Francia è fallita la Areva per la disastrosa costruzione, tuttora non ultimata, di un reattore a Olkiluoto in Finlandia. La francese Edf ha in costruzione un reattore in Francia, a Flamanville, i cui costi sono quintuplicati. Questi sono gli unici due reattori in costruzione in Europa: da circa quindici anni! Il nucleare ha quindi tempi incompatibili con la transizione e gli obiettivi climatici europei.
I tempi sono lunghi, i costi sono enormi, la sicurezza dagli incidenti non è garantita, lo smaltimento delle scorie è un rompicapo. Anziché usare armi di distrazione di massa, perché non concentrarsi su rinnovabili e sistemi di accumulo?
UNA NUOVA COSCIENZA GENERAZIONALE
Forse la novità più importante di Glasgow è stata la manifestazione internazionale dei giovani provenienti da tutto il mondo. In testa al corteo c’erano gli ambientalisti africani e i rappresentanti delle comunità indigene. Il movimento è veramente globale e “decolonizzato”, non più soltanto bianco e occidentale. Solo il Sessantotto e il movimento alterglobalista di Seattle furono così globali e “terzomondisti”. Oggi come allora siamo di fronte a una mobilitazione collettiva che esige un rinnovamento culturale, spirituale ed etico e pone la necessità di creare un nuovo “senso comune”, una nuova moralità, un nuovo senso della vita. Ma diverso è il tema: la critica al capitalismo è per la manomissione che esso fa del clima. La politica non può intervenire sulla natura; al contrario, è la natura che decide come deve essere la politica e cosa essa deve fare. La pandemia ha amplificato ulteriormente questo profondo mutamento, che mette al centro la critica a un modello di sviluppo distruttivo dell’equilibrio tra uomo e natura. La lotta contro la crisi climatica non è dunque “romanticismo verde” ma messa in discussione del sistema economico dominante. La spinta generazionale sulle scelte per l’ambiente può connettersi a una spinta per cambiare il lavoro e il sapere e separare anche questa volta i figli dai padri in una nuova rivolta etica. In un processo di autoformazione, autogoverno e conversione della propria vita che sia svolto in forma collettiva, casa per casa, tetto per tetto, strada per strada, campo per campo, fabbrica per fabbrica. In una “lunga marcia attraverso le istituzioni” che arrivi a imporre ai governi il cambio di rotta.
Giorgio Pagano
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