Presentazione di “Mio babbo partigiano” a Pontremoli
“Mio babbo partigiano“
di ANDREA RANIERI
Pontremoli 27 novembre 2021
Intervento di Giorgio Pagano
“Mio babbo partigiano” è un libro del figlio sul padre. Una biografia, un libro di storia e insieme un libro intimo, pieno di sentimento: un atto d’amore verso il padre che non c’è più.
Paolino fu partigiano con nome di battaglia “Andrea”: un nome scelto prima per il figlio e poi per sé grazie alla lettura del romanzo “La madre” di Maksim Gor’kij, in cui Andrea è l’amico di Paolino, il figlio della “madre”. Un nome impegnativo, che ha portato il figlio dietro le orme del padre, sotto la sua protezione, ma anche oltre il suo lascito: fin da quando Andrea diventò militante di Lotta Continua e occupò il Comune di Sarzana, con Paolino Sindaco comunista (che un po’ era d’accordo, anche se non poté che prendere le distanze…). La ricerca di strade nuove non portò il figlio alla rottura con il padre: nel libro mio e di Maria Cristina Mirabello “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia” emerge come il loro rapporto non si sia mai interrotto, nonostante le critiche nel PCI a Paolino, e le voci sulle sue dimissioni da Sindaco, quando il Comune fu occupato.
Paolino, classe 1912, barbiere, povero ma perfetto giovane alla moda, cominciò presto a non sopportare le prepotenze e le sopraffazioni dei fascisti. Inizialmente il suo fu un antifascismo generico. Il nonno era di idee socialiste.
Nella formazione dei giovani, anche allora, contavano i libri ma anche le canzoni. Paolino raccontava che tra i suoi amici c’era Pierino Andreani, figlio di un anarchico, che sapeva suonare la chitarra. Insieme cantavano, di nascosto, “Addio Lugano Bella”. L’anarchismo, a Sarzana, un po’ c’è sempre.
La molla decisiva fu quando a un cliente di Paolino, Valentino Bernardini, barba a metà, fu fatto bere l’olio di ricino. Il giovane barbiere ne fu segnato profondamente, come raccontò a Pino Meneghini nel libro “Paolino Ranieri dal carcere fascista alla ricostruzione”:
“Quello spettacolo vergognoso mi fece star male e per la prima volta odiai quei figuri prepotenti e violenti”.
Paolino fu vicino dapprima all’Azione Cattolica. I cattolici in Italia ci sono sempre, nell’antifascismo, nella Resistenza, nel Sessantotto…
Leggiamo ancora Paolino nel libro di Meneghini:
“Ricordo ancora che portavo il distintivo dell’Azione Cattolica: era questo per me intanto un modo di evitare rapporti con il mondo fascista, ma poi quello cattolico era un ambiente che mi piaceva, mi divertiva. Quando nel 1928 Mussolini sciolse i movimenti giovanili cattolici non solo non mi tolsi il distintivo, ma anzi cominciai a portarlo con una certa ostentazione. Ricordo a questo proposito che un giorno in strada fui avvicinato da due giovani fascisti che conoscevo bene, i quali mi invitarono a togliermi il distintivo; io mi rifiutai e quelli allora me lo strapparono con la forza e lo gettarono per terra, calpestandolo, da dove poi lo raccolsi”.
Poi Paolino si avvicinò ai comunisti, i più organizzati e i più decisi nella lotta al fascismo. “Non sono comunista e nemmeno lo diventerò -fa dire Beppe Fenoglio al partigiano Alfredo in un racconto- Ma se qualcuno, fossi anche tu, si azzardasse a ridere della mia stella rossa, io gli mangio il cuore crudo”. Paolino conobbe i comunisti clandestini a fine 1932-inizio 1933: Anelito Barontini, Dario Montarese “Briché” e gli altri del gruppo sarzanese. Dal suo salone passavano i materiali della propaganda comunista, fino a quando, nel 1937, una spia fece arrestare tutto il gruppo.
Condannato dal Tribunale Speciale, con Barontini e “Briché “, a quattro anni di carcere, Paolino fu rinchiuso con Anelito nel carcere di Fossano (Cuneo) dal 1938. Quella fu la sua università: “quando sono uscito sapevo cos’era il comunismo”, diceva sempre. E’ il “comunismo ideale” raccontato a Meneghini:
“A me e a Barontini arrivavano ogni mese L. 150 a testa, la somma massima consentita, una cifra enorme soprattutto se paragonata alla povertà delle nostre due famiglie, rette da due vedove. Era quello infatti il frutto del Soccorso Rosso che a Sarzana in quel periodo non ha mai smesso di funzionare. […] Ma in ossequio all’eguaglianza assoluta, dovevamo dividere tutto e quindi delle cinque lire che avevamo al giorno, ci restavano, dopo aver fatto la divisione, circa 60-70 centesimi per le spese quotidiane, che erano davvero pochi”.
Scarcerato nel 1940 dopo la nascita della principessa Maria Gabriella di Savoia, Paolino visse in libertà vigilata. Subito dopo l’8 settembre salì ai monti. Erano gli antifascisti “storici” come lui a sapere cosa fare, e furono loro ad aggregare i giovani, dai militari sbandati ai ragazzi renitenti alla leva. Non tutti comunisti, ma tanti comunisti.
Paolino fece sempre il commissario politico: era colui che doveva indicare ai giovani le ragioni della lotta. Scrive Andrea:
“Giovani stretti tra le spinte dell’avventura e della paura, a cui bisognava insegnare a vivere e a combattere immaginando un futuro diverso, necessariamente più grande e più bello del mondo che si erano lasciati alle spalle, e che dovevano aver chiare le ragioni per cui si poteva morire. Nessuno doveva morire senza sapere il perché. […] E poi il commissario politico doveva insegnare il rispetto per le popolazioni dei campi e dei monti in cui i partigiani avevano le proprie basi. E l’attenzione per evitare che il peso della guerra non ricadesse sui civili indifesi”.
La Resistenza fu questo incontro: tra l’antifascismo del ventennio, dell’”organizzazione”, “politico”, dei partiti, sia pure ancora in embrione, e l’antifascismo dei giovani, che a me piace definire “esistenziale” più che “spontaneo”.
Paolino era stato giovane, aveva avuto anche lui la sua molla “esistenziale”, e seppe operare per questo incontro.
Già da antifascista nel ventennio sapeva aggregare i giovani. Cercava di dare loro entusiasmo. Scrive Meneghini:
“Un’altra impresa […] fu quella di issare e sventolare sul campanile di S. Andrea una bandiera rossa. Il gruppo di Paolino progettò accuratamente il tentativo: con lo stucco fu rilevata l’impronta della serratura del portoncino del campanile e una notte i ragazzi salirono le scale fino alla sommità e fissarono la bandiera là sopra. Scesero poi con il fiato in gola fino a terra e inutilmente da lì guardarono in alto per osservare l’effetto del proprio gesto. Dalle strade cittadine il drappo rosso non si riusciva proprio a vedere, ed anzi per questo si sarebbe dovuto salire sul colle della Fortezza. Da lì a poco la bandiera venne tolta”.
Appendere la bandiera rossa era allora un modo diffuso di far sentire la propria presenza. Qualcuno fu più bravo. Leggiamo la testimonianza del comunista reggiano Desiderio Cugini (da “Ricerche storiche”, 1977, n. 31):
“Una volta Bagolini, che era molto leggero, ne attaccò una sulla vetta di un pioppo che si trovava nelle vicinanze del calzificio, a rischio di rompersi l’osso del collo, perché in quel punto l’albero era molto sottile e ondeggiava paurosamente. I fascisti tentarono invano di raggiungerla e di toglierla, con grande divertimento delle operaie e della gente di passaggio. Dovettero tagliare il pioppo ad una certa altezza”.
I reggiani forse erano meglio? Ma su Dante Castellucci “Facio” fecero lo stesso, drammatico, errore degli spezzini… Anche se loro, per fortuna, non riuscirono ad ucciderlo…
Dalle colline sarzanesi Paolino si spostò a Valmozzola, nel Parmense. Il 13 marzo 1944 ci fu l’assalto al treno: la data simbolica dell’inizio della Resistenza nei nostri monti. La prima azione eclatante. Non a caso, subito dopo, fu stampato e diffuso alla Spezia il primo volantino della Brigata d’Assalto Garibaldi, che pure non era stata ancora costituita.
Nella relazione di Paolino del 14 marzo 1944 dopo l’assalto al treno (custodita nell’archivio della Fondazione Gramsci) si notano già le “qualità” del commissario politico:
“Ognuno degli uomini che avvicinai mi dimostrò il suo malcontento, chi si lamentava perché gli erano stati rubati i calzetti, chi i lacci per le scarpe, chi una maglia, e a chi perfino il pane, e tutti brontolavano perché vi era chi faceva diverse ore di guardia e chi niente. La sera divisi in due il distaccamento e prima a una metà poi all’altra tenni loro una conferenza sui più elementari principi di educazione”.
Anche da qui si doveva cominciare.
Poi Paolino tornò ancora nel Parmense. Così scriveva di lui Luigi Cortese “Dario”, incaricato dal PCI di Parma di dar vita a un battaglione garibaldino nella zona, in una relazione del 22 maggio 1944 (custodita nell’archivio della Fondazione Gramsci):
“In breve tempo ha saputo crearsi (e crearci) simpatia e affetto tra la popolazione e tra i partigiani dimostrandosi a giudizio unanime, mio e dei compagni partigiani, dei compagni locali e di tutti i simpatizzanti, il miglior commissario politico della zona”.
Se uno studente chiedeva a Paolino che cosa gli era rimasto più impresso nei venti mesi ai monti rispondeva sempre: “la liberazione di Bardi, la conquista della democrazia nella Repubblica partigiana del Ceno, tra giugno e luglio 1944”. Una storia che andrebbe ripresa e approfondita. A Bardi sembra dimenticata.
Sconfitta la Repubblica, tornò in Val di Magra per costituire la Brigata Muccini. Rimasto in zona dopo il grande rastrellamento del 29 novembre 1944, fu arrestato e ferito a una gamba il 14 dicembre. Si salvò per un miracolo dalla ferita. E non fu ucciso o deportato perché un comandante tedesco voleva premunirsi ed aver salva la vita dopo il crollo del regime.
Da questo breve excursus storico emerge che Paolino fu un antifascista e un partigiano comunista sarzanese, del gruppo sarzanese, unito dall’8 settembre a Valmozzola e a Bardi, fino al ritorno in Val di Magra e alla Liberazione.
“Si trattava -ha scritto Giulivo Ricci nella “Storia della Brigata garibaldina ‘Ugo Muccini’”- di un gruppo omogeneo: e in questo si poneva come unico nell’intera provincia della Spezia, ove altri gruppi esistettero, affondanti le radici negli anni del ventennio, ma meno forti, meno omogenei, meno dotati di coesione e di coerenza nell’azione, epperò più esposti ai pericoli della divisione, dell’incertezza, della mancanza di direzione unitaria”.
Questa omogeneità fu anche alla base del peso che il gruppo -composto poi anche da elementi più giovani, formatisi con l’esperienza partigiana, come Flavio Bertone- esercitò nella vita politica e istituzionale del dopoguerra in provincia, e non solo.
Paolino fu però anomalo rispetto ad altri esponenti, perché non uscì mai dalla dimensione sarzanese. Perché? Che cosa lo trattenne? Certamente era il più “a sinistra” di tutti. Ma forse era anche il più “gentile” di tutti. Molti di quel gruppo amarono sia il potere che le donne. Paolino certamente amava più le donne.
La Resistenza che racconta Andrea riprendendo Paolino è soprattutto quella di Rudolf Jacobs e di Dante Castellucci “Facio”: due storie che spiegano che “la libertà sta oltre nazioni e bandiere” e che “l’orrore può esistere anche tra le fila dei buoni”. Paolino conobbe entrambi questi eroi difficili.
Jacobs, l’ufficiale tedesco che si ribellò al nazifascismo, che disertò e militò nella Brigata Muccini, che volle combattere contro i tedeschi in un agguato in cui portava la divisa tedesca, in cui trovò la morte. Un eroe difficile ma un mito di fondazione dell’Europa dei popoli, se mai ci sarà.
“Facio”, poeta, violinista e attore calabrese, compagno dei fratelli Cervi, il più valoroso partigiano dei nostri monti, il combattente leggendario della battaglia del Lago Santo, amato dai suoi uomini e dai contadini e dai montanari della Val di Vara e dello Zerasco. Un eroe difficile: il comunista fucilato ad Adelano di Zeri nel luglio 1944 da altri partigiani comunisti dopo un processo in cui fu accusato ingiustamente e in cui non poté difendersi. Il PCI spezzino criticò subito l’accaduto e inviò Paolino ai monti per un’inchiesta. Ma il commissario politico in quella occasione fu impotente. Laura, la compagna di “Facio” tenuta prigioniera, gli disse: “Sta attento, che fanno fuori anche te”. Paolino aveva paura che ammazzassero anche lui, da qui la sua frase molto umana, nell’intervista al Museo della Resistenza di Fosdinovo: “Ma! Stiamo un po’ attenti, chi me lo fa fare di…”.
Poi Paolino capì, anche se solo dopo anni, che le verità vanno sempre raccontate: anche le miserie della Resistenza, perché fanno emergere meglio le sue grandezze, e combattono le calunnie del revisionismo. Così come capì, sia pure in ritardo, la tragedia dello stalinismo e il valore del comunismo libertario, invano cercato in Cina o in Albania. Rimase sempre comunista, senza tessera.
Jacobs ebbe la cittadinanza onoraria nella prima seduta del Consiglio Comunale di Sarzana dopo la Liberazione. E Paolino si adoperò sempre per ricercare un rapporto con i parenti, e per la memoria di Jacobs in Germania.
Su “Facio” Paolino nel dopoguerra fu silente. Come tutti: alla fine anche Laura si costrinse ad esserlo. Ma nel 1990, in un video inedito curato da Arturo Izzo, Paolino, alla fine dell’intervista, ricorda Jacobs e “Facio”. Il libro di Capogreco su “Facio”, che riaprì in qualche modo il caso, uscì molto dopo, nel 2007. Il PCI era scomparso nel 1989.
Dobbiamo domandarci ancora oggi, come probabilmente Paolino fece per tutta la vita: se “Facio” non fosse stato vinto, ucciso, la Resistenza sarebbe stata migliore e più forte? La risposta è netta: sarebbe stata migliore e più forte, perché avrebbe avuto più marcato il segno della fratellanza, sintesi di libertà ed eguaglianza. La fratellanza che fu la caratteristica del battaglione di “Facio”, il Picelli. La fratellanza che Anelito Barontini e Paolino Ranieri avevano imparato in carcere. Tutto il contrario del sentimento che vigeva ad Adelano di Zeri nel luglio 1944.
Dopo la Liberazione, Paolino fu Sindaco comunista di Sarzana per 25 anni, dal 1946 al 1971. Anni che andrebbero studiati. In “Un mondo nuovo, una speranza appena nata” emerge, come cifra del suo impegno negli anni Sessanta e nel Sessantotto, la costante attenzione all’ascolto dei giovani, che sempre lo sentirono vicino.
Le occupazioni delle scuole, la Biblioteca, la Consulta, le iniziative culturali…: c’è un filo rosso che lega tutto il suo operato nel decennio.
Istintivamente capiva che, accanto alla classe operaia, c’era un nuovo soggetto (“forza motrice” nel linguaggio di allora) della rivoluzione, o del riformismo (che di questo si trattava, anche se dirompente): i giovani, gli intellettuali, con le loro domande di fratellanza e di un nuovo senso della vita. “Operai e studenti uniti nella lotta”, si ritmava.
Ma il suo partito non lo capì, e restò nel suo recinto. Gli stessi studenti e intellettuali divennero prigionieri della “Dottrina” (per dirla con Vittorio Foa), e scelsero anch’essi, sia pure in un modo diverso, il recinto della fabbrica. Il vecchio classismo comunista e il nuovo operaismo “gruppettaro” non capirono, entrambi, che non basta il punto di vista di classe, perché occorre creare un nuovo “senso comune”, una nuova moralità, un nuovo senso della vita con al centro la fratellanza. Quello che aveva chiesto il Sessantotto degli inizi.
Come nella Resistenza, come nella vicenda di “Facio”, anche nel Sessantotto “poteva andare diversamente”. In entrambi i casi Paolino, che pure fu comunista “ortodosso”, intuì pulsioni vitali che non appartenevano alla tradizione comunista “ortodossa”.
Paolino fu accanto ai giovani anche nell’ultima parte della sua vita, impegnato a raccontare la Resistenza. Per evitare che la memoria della Resistenza fosse sepolta -oggi dovremmo dire drogata e deformata- si adoperò per costruire il Museo di Fosdinovo: un museo interattivo, che mescola memoria e tecnologia. Lo fece grazie all’aiuto di Paolo, il nipote figlio di Andrea. Un consiglio: salite alle Prade, per vedere ed ascoltare Paolino e i suoi compagni.
Si affollano i ricordi: il forte sostegno che mi diede quando fui eletto Segretario provinciale del PCI, la sua tenacia incrollabile nel chiedere finanziamenti al Comune di cui ero Sindaco per la realizzazione del Museo… E poi, sempre più, la sua classica allocuzione in dialetto sarzanese “cumpagni na sega”, rivolta ai tanti che, dentro il PCI, cominciavano a pensare solo alla propria carriera o ai propri affari. Fino agli ultimi giorni tristi, insieme al suo partigiano, e caro amico comune, Piero Guelfi, accanto al suo letto in Ospedale: la sua richiesta, in dialetto, di portarlo via da quel posto, il suo tentativo di scendere con le gambe secche. Incredibile, sempre alla ricerca delle donne, della “madre”. Non volle arrendersi alla vecchiaia e alla morte, fino alla fine.
E’ molto bello il ricordo di Mimma Rolla, staffetta di Arcola con la “Muccini”, poi grande medico a Pisa, nel libro “La mia resistenza”. Era il 16 maggio 2008, Paolino aveva 96 anni:
“Così Paolino innesca nel nostro dialogo il ricordo, velato di emozione, del momento in cui clandestinamente aderì al Partito Comunista d’Italia, sottolineando il senso profondo che poi avrebbe dato alla sua vita. Lo lega quasi inevitabilmente al presente. ‘Allora -dice Paolino- prima dell’iscrizione al Partito, mi avvertirono che quell’atto comportava, tra i vari eventuali, incerti accadimenti della militanza, una prospettiva sicura: il carcere’. Accettare l’iscrizione significava caricarsi di una importante responsabilità verso il Partito, verso se stessi, la famiglia e la società. […] ‘Oggi che cosa si prospetta e si chiede a colui che vuole iscriversi al Partito di sinistra? Altre cose, molto diverse…’ Non disse altro. Lasciò cadere l’argomento che aveva espresso senza rabbia, ma con lucidità e amarezza”.
Ma i ricordi più belli sono quelli di Andrea: su padre e figlio a Tarsogno o a Roma… sulla loro comune passione per il ciclismo, con cui il libro si conclude.
Nell’Italia di oggi sembrano storie ormai lontane. Ma queste storie hanno creato anticorpi che non sono perduti: nonostante gli errori e le sconfitte, sono una risorsa da tenere cara, una bussola per il futuro. Ecco perché, come ha fatto Andrea, dobbiamo testardamente tornare a raccontarle.
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