Afghanistan, il fallimento della strategia bellica
Città della Spezia, 26 settembre 2021 – Per comprendere quanto accade in questi giorni in Afghanistan occorre fare un salto indietro di vent’anni, subito dopo l’11 settembre 2001, quando gli USA e l’Occidente decisero di vendicare l’attentato alle Torri Gemelle con l’occupazione dell’Afghanistan. Fu la prima finzione, perché i terroristi erano in realtà legati all’Arabia Saudita, Paese amico degli USA e dell’Occidente. Fu subito seguita dalle menzogne sulle armi di distruzione di massa detenute da Saddam Hussein, costruite per giustificare l’invasione dell’Iraq.
Queste guerre hanno mietuto tanti morti e hanno prodotto, alla fine, solo caos. Il terrorismo non è stato sconfitto, e la democrazia non è stata esportata, semplicemente perché non è un prodotto di esportazione ma l’esito politico di un processo storico e sociale complesso, che deve fare i conti con la storia e la cultura di ciascun popolo e di cui devono essere protagoniste le forze interne di ciascun popolo.
Mentre ci battiamo per i diritti delle donne afghane negati dal nuovo regime talebano, non possiamo dimenticare che quei diritti erano stati, in questo ventennio, una conquista solo nelle grandi città, non nei villaggi. Dove la gente non ha mai sopportato le aggressioni, anche liberatrici, dei forestieri: negli anni Ottanta dei sovietici, nell’ultimo ventennio degli americani e degli occidentali. L’Afghanistan era stato messo in una “bolla” americana e occidentale che coinvolgeva le élite e teneva a distanza il Paese reale, e che non poteva che scoppiare: il Paese è tornato in mano ai talebani senza colpo ferire. Con un esito ben più catastrofico di quanto avvenne dopo la guerra di nove anni condotta dall’URSS: il governo pro-sovietico sopravvisse qualche anno dopo il ritiro del 1989, mentre il governo di Ashraf Ghani protetto da Washington si è dato alla fuga immediatamente.
Nessun dirigente americano o europeo mostra di voler imparare qualcosa da questa disfatta. Perché significa fare i conti con il fallimento del pensiero che ha dominato in tutti questi anni: lo scontro fatale tra culture e civiltà, la guerra umanitaria, l’imposizione della nostra democrazia, l’enorme crescita delle spese militari (quasi raddoppiate dal 2001 al 2020).
Ero, allora, tra i contrari alla guerra. Ci dicevano che eravamo simpatizzanti di Bin Laden. Eravamo tantissimi, alla marcia Perugia-Assisi del 2001, al Forum sociale mondiale di Porto Alegre e in quello europeo di Firenze nel 2002, alla grande manifestazione a Roma nel 2003. Il “New York Times” definì il movimento “l’altra superpotenza mondiale”. Ma le nostre ragioni furono ignorate. Le ragioni che così bene esprimeva il grande giornalista e scrittore Tiziano Terzani:
“Eppure l’Afghanistan ci perseguiterà, perché è la cartina di tornasole della nostra immoralità, delle nostre pretese di civiltà, della nostra incapacità di capire che la violenza genera solo violenza”.
Sento già l’obiezione di molti. Io stesso riflettevo allora e rifletto oggi su questo: la contrarietà alla guerra non ci rende deboli di fronte all’arroganza dei sovrani del mondo? La mia formazione culturale non è all’insegna della nonviolenza. Come storico della Resistenza, e come persona impegnata nell’associazionismo antifascista, so bene che certe guerre civili meritano di essere combattute, e che, come ha scritto lo storico Sergio Luzzatto, “la moralità della Resistenza consistette anche nella determinazione degli antifascisti di rifondare l’Italia a costo di spargere sangue”. Ammetto quindi che può essere invocato il diritto di resistenza armata contro il tiranno o contro l’invasore. Ma non ammetto la guerra. Come diceva Gino Strada, come ha stabilito proprio la Costituzione nata dalla Resistenza:
“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” (art. 11).
L’alternativa alla guerra è la diplomazia, è la cooperazione, è l’intervento civile, è soprattutto chiamare i popoli a lottare per se stessi. Con la guerra si prepara solo la prossima guerra.
Nella guerra perdono tutti, vince solo il complesso militare-industriale. Non so se si producono e vendono armi perché ci sono le guerre o se invece ci sono le guerre per produrre e vendere le armi. Certo è che l’Afghanistan dà ragione ai costituenti italiani e ci spinge a batterci contro la guerra e contro l’uso delle armi nella guerra. A non vendere armi a chi fa la guerra. A non dimenticare -Spezia non lo ha mai fatto nella sua storia- che l’industria armiera può essere diversificata e riconvertita nel civile.
Ecco perché è giusto far sentire questa voce del pensiero critico a SeaFuture, una manifestazione che è tutta dentro una visione bellicista del mondo.
Post scriptum:
l’articolo di oggi è dedicato al partigiano di Giustizia e Libertà Sergio Ferrari, scomparso nei giorni scorsi. Cugino del comandante Amelio Guerrieri, era uno dei “ragazzi di Valeriano”, fedelissimo al suo comandante. Lo ricordo come combattente valoroso e come uomo onesto e gentile. Ho raccolto la sua testimonianza nell’articolo di questa rubrica “Dal Gottero a Valeriano vince la guerriglia della montagna” (2 febbraio 2014). Sergio fu inoltre una delle mie fonti nella ricostruzione dell’episodio raccontato nell’articolo “Valeriano, la verità sulla morte del soldato tedesco”, pubblicato su “Il Secolo XIX” del 1° luglio 2020 e leggibile su www.associazioneculturalemediterraneo.com
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