I ribelli esistono ancora
MicroMega+, 25 giugno 2021 – Gli oppressi, nel mondo, non sono tutti silenti. E i giovani non sono tutti addomesticati.
Conosco molti giovani africani: la globalizzazione -la Tv, i cellulari, internet- ha cambiato radicalmente la loro vita. In direzione di una grande ansietà: per la paura di essere esclusi dal benessere che vedono nel resto del mondo, ma anche per la paura di essere inclusi a forza nella realtà dello “sviluppo”, così diversa dalla loro. C’è chi fugge dalla povertà e c’è chi resta. “Chi resta è un eroe”, mi disse un giorno Suor Lucia, una francescana che opera in uno degli Stati più poveri. Chi resta si ribella non con la fuga ma con l’impegno e con la collera sociale.
Siamo nell’età della rabbia, delle rivolte, del ribellismo spontaneo. Senza partiti e sindacati, che hanno smarrito il loro ruolo, gli oppressi, giovani e non solo, si indignano e lottano in tutto il mondo.
In Africa -Tunisia, Algeria, Burkina Faso, Senegal, Sudan…- come nell’America del Black Lives Matter. In Asia -Nepal, Indonesia, Bangladesh, Filippine…- come in America Latina -Cile, Perù, Colombia…- e nell’Europa di Fridays for Future. E’ la “globalizzazione dell’umanità” e forse di un “sentimento” dell’umanità. Un “sentimento” che coglie, magari ancora confusamente, il rapporto tra sofferenze umane e sofferenze della Natura e aspira alla “dignità” della propria vita e della vita della Natura. Vent’anni fa ero a Porto Alegre, entusiasta di quel movimento: ma la consapevolezza di questo rapporto e l’interconnessione tra i ribelli di tutto il mondo sono più forti oggi che allora.
NELLA TUNDRA CON I SAMI
Ho conosciuto i Sami nel 2007, durante un viaggio in Norvegia, e da allora non ho mai smesso di interessarmi alla loro storia. I Sami sono l’unico popolo indigeno ufficialmente riconosciuto nell’Unione europea. La loro cultura è la più antica del Nord Europa, dove vivono da oltre 5 mila anni. Ad oggi ne sono rimasti solamente circa 75/80 mila, suddivisi in una regione che copre quattro Paesi: dalla Penisola di Kola (Russia) fino alla Norvegia centrale e settentrionale, e alle regioni più settentrionali della Finlandia e della Svezia. Questa regione è conosciuta come Sápmi, la Lapponia. Il Paese con la maggiore concentrazione di Sami è la Norvegia, che ne ospita oltre 40 mila. Io li ho conosciuti nella Norvegia settentrionale, il Finmark, la regione che si estende oltre il Circolo Polare Artico, dove regna la tundra: qui solo i Sami hanno diritto di cittadinanza storica e migrante. Un deserto prepolare, che colpisce per la nuda vastità: pochi villaggi, fiordi spogli, montagne scure e brulle, valli ventose ma anche dolci laghetti, vicino ai quali nascono i piccoli fiori bianchi della tundra. Una landa dove la natura cerca di non morire. Nel ricordo rimangono lo spazio, il silenzio, il clima relativamente mite nella breve estate in cui il sole non tramonta mai, e loro, i Sami. Il 10% sono ancora allevatori nomadi di renne, altri sono pescatori. I Sami non sono mai riusciti a crearsi un proprio stato indipendente e sono quindi legati alle quattro nazioni in cui vivono, dove comunque hanno un proprio Parlamento. La loro bandiera ha quattro colori: il blu è il colore della Norvegia, e contraddistingue il vestito dei Sami norvegesi, così come il loro čiehgahpir, il “Cappello dei Quattro Venti”.
Il popolo Sami ha vinto, nei giorni scorsi, una grande battaglia: non sarà realizzata la ferrovia artica, tra la Finlandia settentrionale e il porto norvegese di Kirkenes. L’opera, pensata in funzione delle rotte di navigazione artica e dell’industria estrattiva di gas, avrebbe avuto effetti disastrosi sulle paludi, sulle aree di pascolo per le renne, sui fiumi e sull’attività di pesca lungo tutto il percorso. I Sami si sono battuti per anni e hanno vinto. La loro identità e cultura è ancora a rischio -il turismo è un’industria che può anche distruggere l’ambiente- ma ora si può ancora salvaguardare e valorizzare quel che rimane di bello e di autentico nella terra dei Sami.
TRA GLI INDIANI D’AMERICA
Un’altra notizia dei giorni scorsi: l’oleodotto Keystone XL non si farà. L’oleodotto, proposto nel 2008, avrebbe dovuto trasportare le sabbie bituminose -un materiale che con diversi processi può essere convertito in petrolio- dalla provincia canadese dell’Alberta fino alle raffinerie statunitensi nel Nebraska, percorrendo quasi 2 mila chilometri. La cancellazione ufficiale c’è stata dopo oltre un decennio di resistenza da parte di comunità indigene, agricoltori, allevatori e attivisti ambientalisti. E di braccio di ferro tra diversi Presidenti degli Stati Uniti.
La decisione dell’azienda TC Energy è arrivata dopo che il 20 gennaio il Presidente Joe Biden, nel suo primo giorno alla Casa Bianca, aveva firmato un ordine esecutivo con cui aveva bloccato il progetto revocandone i permessi. Il progetto era stato fermato una prima volta dall’amministrazione Obama nel 2015, ma nel 2017 Donald Trump aveva dato ordine di farlo ripartire.
Decisiva è stata la mobilitazione delle comunità indigene. Gli indiani del Fort Peck Assiniboine Sioux si trovavano sul percorso diretto del Keystone XL il 14 aprile scorso per protestare contro il progetto, Il gasdotto avrebbe attraversato direttamente le loro terre del Montana, minacciando la fauna selvatica e le uniche fonti di acqua dolce della tribù. Per gli anziani della tribù di Fort Peck, la minaccia rappresentata dalla Keystone XL riportava alla mente ricordi inquietanti di oltre mezzo secolo fa. “Ero uno dei ragazzi che hanno dovuto bere acqua contaminata dal boom del petrolio negli anni ’60”, dichiarò allora l’anziano di Fort Peck Cheyenne Foote a “Last Real Indians”. “Finalmente abbiamo l’acqua pulita e ora vediamo che la storia è pronta a ripetersi. Non voglio che i miei nipoti sperimentino la stessa malattia che ho avuto io bevendo acqua velenosa”.
C’è un’altra bellissima storia di lotta dei pellerossa canadesi per la “dignità” della Natura che va raccontata. Risale al 2015 e vede protagonisti i Lax Kw’alaams, che vivono vicino al confine tra Canada e Alaska, nella parte settentrionale della provincia della Columbia Britannica. Questa comunità indigena rifiutò un’offerta di un miliardo di dollari canadesi e l’equivalente di 108 milioni di dollari in terre, ovvero 320mila dollari per ciascun membro del gruppo, in cambio della costruzione di un impianto per l’esportazione di gas naturale liquefatto (Gnl) nel loro territorio. Il grande capo Stewart Phillip dichiarò al “Globe and Mail”: “I nostri anziani ci ricordano che il denaro è come la polvere che viene soffiata via velocemente dal vento, mentre la terra è per sempre”
Qualche volta sono gli indiani a vincere. Ma non smetteranno di lottare.
IN UNA BARACCOPOLI DEL KENYA
Il dio Denaro non sempre vince. Succede anche in Africa: “Siamo felicissimi: non ci siamo mai arresi e alla fine giustizia è stata fatta”, ha spiegato nei mesi scorsi l’ambientalista keniana Phyllis Omido. Dopo oltre dieci anni di coraggiose battaglie per la protezione dell’ambiente, un tribunale ha ordinato il risarcimento di 10 milioni di euro ai residenti di Owino Uhuru, una baraccopoli nella città di Mombasa, per i danni provocati dall’inquinamento da piombo. La lotta di Phyllis e dei residenti di Owino Uhuru iniziò nel 2009, quando fondarono Cjgea (Centro per giustizia, autorità e azione ambientale). L’obiettivo era combattere contro un’azienda indiana, la Metal refinery Epz, che da due anni inceneriva batterie di automobili per ricavarne il piombo, incurante di quello che i fumi avrebbero causato alla salute delle persone. Le scorie, come poi si scoprì, venivano scaricate nel ruscello che più a valle attraversava le baracche di Owino Uhuru. È così che i livelli di veleno nel sangue di molti residenti erano aumentati radicalmente.
Fhyllis Omido e altri suoi compagni attivisti in questi anni sono stati arrestati, minacciati di morte, picchiati, costretti a vivere nascosti. Nel frattempo, finora, almeno sei residenti della baraccopoli sono deceduti a causa dell’inquinamento da piombo.
Nonostante l’ostracismo del governo, Cjgea ha acquisito notorietà e supporto dai cittadini del luogo e dalle Nazioni Unite. Nel 2014 la fabbrica è stata costretta a chiudere. Nel 2015 Phyllis Omido ha ricevuto il premio Goldman, il maggiore riconoscimento mondiale per la difesa dell’ambiente.
“Gli africani devono tornare alle loro tradizioni che esigono un grande rispetto per la natura -ha dichiarato Omido ad “Avvenire”- se danneggeremo tutto il nostro ambiente oggi, cosa lasceremo alle generazioni future?”. Anche la lotta di Phyllis continua.
TRA I CAMPESINOS DELL’ECUADOR
Ovunque si combatte, anche in America Latina. In Ecuador le comunità indigene difendono il diritto alla vita di fronte alle pressioni estrattive per le miniere d’oro e di metalli. In molti territori le comunità hanno dispiegato varie azioni di lotta, con il recupero del diritto costituzionale alla partecipazione ai processi decisionali, affrontando saccheggi, devastazioni, false promesse di prosperità.
Nello scorso febbraio a Cuenca, il terzo cantone più popoloso dell’Ecuador, si è tenuta una consultazione popolare: l’80% della popolazione si è espresso contro l’estrazione di metalli nelle zone di ricarica dell’acqua dei fiumi, che ha origine nelle foreste della zona e viene utilizzata per vari usi dagli abitanti. Le concessioni minerarie minacciano gravemente l’approvvigionamento idrico. Importante è stato l’appoggio della maggioranza del governo cantonale di Cuenca.
Ispirati da questo esempio, anche le comunità locali del Chocó Andino, a pochi chilometri dalla capitale Quito, si stanno opponendo ai cartelli minerari. Hanno creato una forma di gestione territoriale chiamata Mancomunidad, appoggiata da un ampio fronte di governi locali, e chiedono una consultazione popolare per fermare le estrazioni e per proteggere l’acqua e la biodiversità. Da molti giorni gli uomini e le donne, quasi tutti produttori di zucchero di canna, del Fronte antiminero si alternano in un blocco stradale: un cammino di disobbedienza civile nonviolenta iniziato prima di Natale. Il potente blocco minerario può essere messo in scacco.
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Migliaia di persone in tutto il mondo difendono ogni giorno la “dignità” della loro vita e della vita della Natura. Sono lotte diverse, che devono unirsi in una grande alleanza globale per la giustizia sociale e ambientale. Anche in Italia ci sono forme di resistenza: ma certamente quel che facciamo è ancora troppo poco. Dobbiamo scuoterci dal comodo letargo in cui stiamo scivolando. Ci serve uno scarto, un cambiamento di direzione: verso il pensiero critico, e verso un nuovo umanesimo che lotti non solo per i diritti dell’uomo ma anche per i diritti della Natura. E’ vero, manca ancora una chiara “prospettiva generale” capace di orientarci: non basta, come pensava un tempo il marxismo ridotto a operaismo, “lo sviluppo delle forze produttive”. Le pratiche alternative sperimentate, come ho raccontato, sono tante ma frammentate, e frutto di un ribellismo spontaneo. Ma non è dall’alto dei poteri costituiti che possiamo pensare di costruire la “prospettiva generale”. Essa potrà scaturire solo dal basso, dal concorso dei germogli di ribellione che nascono nella società, spesso tra i più umili, dove si trova talora la consapevolezza che manca altrove.
Giorgio Pagano
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