Il calvario del Congo eterna preda indifesa
Il Secolo XIX nazionale, 28 febbraio 2021 – C’è un luogo, in questo mondo, dove la pietà è stata fatta a brandelli: è la Repubblica Democratica del Congo, soprattutto il suo Est. L’assassinio di Luigi Attanasio, di un carabiniere e di un autista ci ha fatto “aprire gli occhi” su una terra di nessuno, dove ogni giorno si lotta per sopravvivere.
Non sappiamo chi abbia ucciso. E perché siano stati colpiti proprio gli italiani. Conosciamo, però, il contesto.
Alisei, la Ong con cui collaboro, è presente nel Paese dal 1995, con progetti in campo sanitario. Racconta una cooperante, di cui non cito per ragioni di prudenza il nome: “Il Paese è ricco di minerali preziosi, estratti illegalmente con il lavoro clandestino. Molti si dedicano al contrabbando di minerali, legname, animali, i gruppi armati nella zona di confine sono oltre 120. Le terre sono incolte perché o sono scavate o si spera lo siano. Da qui il mancato sviluppo dell’agricoltura, e quindi la fame. E la persona che ha fame è più manipolabile, è in balia dei signorotti locali. Non sorprende che abbiano colpito il PAM, il Programma Alimentare dell’ONU, perché si prefigge di sviluppare la catena agricola”.
Aggiunge Maria Stella Rognoni, dell’Università di Firenze: “sullo sfondo della corsa al controllo di risorse minerarie sempre più ambite perché cruciali nella produzione di beni ad alto contenuto tecnologico, interessi internazionali, ambizioni regionali e locali hanno prodotto una trama la cui matrice costante è il ricorso alla violenza”. Una violenza atroce: massacri etnici, saccheggi, 5 milioni e mezzo di sfollati, stupri seriali di donne, rapimenti dei più piccoli per farne schiavi sessuali e bambini soldato.
Lo sguardo della storia ci aiuta a capire. Queste popolazioni sono vittime di soprusi dai tempi della dominazione coloniale (1884-1960). Il leader dell’indipendenza Patrick Lumumba, eletto democraticamente, governò dal giugno al settembre 1960. Già nel luglio il Katanga, la ricca regione del Sud-Est, dichiarò la secessione. Lumumba fu destituito con un colpo di Stato ordito da Mobutu e sostenuto da americani e belgi e poi barbaramente ucciso. In quella temperie furono trucidati a Kindu (1961) tredici aviatori italiani del contingente ONU. Contro la nuova dittatura si batté senza successo anche Ernesto Che Guevara, che -assunto il nome di Tutu- pensava, a partire dal Congo, di infiammare tutta l’Africa. La cleptocrazia di Mobutu regnò fino al 1997. Nel 1994 il dittatore aveva dato asilo alle milizie Hutu responsabili del genocidio contro i Tutsi in Ruanda: fu l’errore che ne decretò la fine. Gli successe Laurent Kabila, già vicino a Lumumba e al Che, che però disattese ogni speranza e diede vita a un nuovo regime autoritario. Il figlio Joseph ha malgovernato dal 2001 fino alle elezioni del 2018, che hanno portato al potere il Presidente Tshisekedi.
E’ la storia di una guerra permanente, di cui è difficile intravedere una via d’uscita. Per ora Tshisekedi, che ha fatto della sicurezza nell’Est uno dei punti nodali del suo mandato, non ha raggiunto risultati, anche per la perdurante rivalità con il suo predecessore. La speranza, spiega la Rognoni, è che sappia “affrancarsi dai vecchi poteri”. Nel Paese non manca la creatività della società civile: da Denis Mukwege -“l’uomo che ripara le donne” vittime di stupri, a cui è stato attribuito nel 2018 il Premio Nobel per la Pace- ai movimenti per i diritti civili.
Certamente la comunità internazionale deve fare di più. La missione ONU, la più importante in Africa (17 mila unità, 12 mila militari) deve restare, ma essere più efficace. Gli USA di Obama e l’Europa hanno varato leggi per tracciare i minerali e impedire l’importazione di materie prime provenienti da zone di conflitto: ma è un terreno su cui c’è ancora molto da fare. Dice la cooperante: “Impressiona che in una terra così fertile ci sia così tanta denutrizione, mortalità infantile, infanzia abbandonata. Servono sia l’aiuto umanitario che quello allo sviluppo. Perché il primo non serva più, almeno riguardo al cibo, bisogna coltivare, portando l’acqua dove non c’è. Ma tutto è legato al controllo del territorio. Nella regione dove opero, il Kasai, ci sono stati conflitti violenti, tra 2016 e 2018, con migliaia di morti, molti dei quali sono in fosse comuni, mai aperte. Tutto nacque dallo scontro tra il governo centrale e il capo tribale, che detiene la proprietà della terra”.
Questa la sua conclusione:
“Il modo migliore per ricordare Attanasio è che il nostro Paese torni a occuparsi seriamente di Africa e di cooperazione internazionale. L’Italia non può più essere altra rispetto all’Africa, e viceversa: i destini sono interconnessi, il rapporto deve essere sempre più stretto”.
Questa volta, dopo aver scoperto il luogo in cui è in corso da decenni la più grande tragedia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale -l’”eterna guerra d’Africa” con i suoi 3 milioni di morti- dovremmo cercare di non volgere lo sguardo altrove.
Giorgio Pagano
cooperante, presidente di Funzionari senza Frontiere
Popularity: 3%