Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
14 Novembre 2024 – 21:22

Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
Massa, Palazzo Ducale – Sala della Resistenza
Il libro di Dino Grassi “Io …

Leggi articolo intero »
Crisi climatica e nuove politiche energetiche

Economia, società, politica: anticorpi alla crisi

Quale scuola per l’Italia

Religioni e politica

Ripensare il Mediterraneo un compito dell’Europa

Home » Ripensare il Mediterraneo un compito dell'Europa

L’Africa e il coronavirus, Pagano racconta in un ebook un continente in bilico

a cura di in data 4 Giugno 2020 – 23:33
Giorgio Pagano a Sao Tomè e Principe con il Presidente della "Camara" di Lembà e i suoi collaboratori (2016) (foto archivio Giorgio Pagano)

Giorgio Pagano a Sao Tomè e Principe con il Presidente della “Camara” di Lembà e i suoi collaboratori
(2016) (foto archivio Giorgio Pagano)

Intervista di Thomas De Luca a Giorgio Pagano

Città della Spezia, 1° giugno 2020 – La pandemia non ha fermato la voglia di conoscenza e di condivisione di Giorgio Pagano. L’ex sindaco ha infatti da poco pubblicato una nuova fatica letteraria, che si unisce alle numerose pubblicazioni realizzate negli ultimi anni con “Edizioni Cinque Terre”. “Africa e Covid-19 Storie da un continente in bilico”, ebook pubblicato da Castelvecchi per la collana ESC, è una sorta di “narrazione collettiva” sull’Africa ai tempi della pandemia, frutto dell’intreccio tra l’analisi dell’autore e le numerose testimonianze di esponenti delle Ong, delle associazioni dei migranti, delle istituzioni locali e della società civile africane, in gran parte raccolte grazie al supporto dell’associazione ligure Januaforum e del Forum delle Attività Internazionali della Toscana.

D. Come si sta espandendo il contagio?
R. In Africa la diffusione è minore rispetto al resto del mondo. Tuttavia è in crescita. Va aggiunto che c’è il problema serissimo dell’affidabilità dei dati, dovuto alla debolezza dei sistemi informativi: è assai probabile, anzi certo, che il numero dei contagi sia più alto. Comunque, nonostante che la pandemia non si sia mai impennata, l’UNECA -la Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’Africa- ha lanciato l’allarme: rischiano di morire tra le 300 mila e i 3,3 milioni di persone, se non verranno messi in opera gli strumenti necessari a contrastarla.

D. I sistemi sanitari dei Paesi africani sarebbero in grado di gestire una situazione come quella che si è verificata in Europa?
R. No, nel modo più assoluto. Un dato dimostra la debolezza del sistema sanitario africano: il rapporto estremamente basso tra medici e pazienti. In un Paese come il Mozambico, per esempio, è di 0,38 medici su 10 mila persone, mentre in Italia il rapporto è di 40 su 10 mila. E poi gli ospedali sono scarsamente attrezzati. Facciamo un altro esempio: in Uganda, 45 milioni di abitanti, i letti di terapia intensiva sono circa 150, la maggior parte nei pressi della capitale. Il sistema sanitario africano, inoltre, non è solo scarsamente efficace. La buona sanità è in grande parte privata: quella pubblica è molto carente, e il paziente deve spesso portarsi le lenzuola e pagare il vitto.

D. Come si può agire per limitare l’avanzata della pandemia?
R. “Non tutto è chiaro e non tutto è possibile”, dice nel libro un medico italiano impegnato in Africa. Sicuramente due cose sono molto importanti: la sensibilizzazione dei cittadini e i test di massa. E’ in questa direzione che si muovono i governi africani -più o meno bene- e che si concentrano gli aiuti internazionali. Aggiungo che un elemento importante per debellare un’epidemia è la compattezza sociale della comunità interessata. In Africa c’è il concetto di “Ubuntu”, che vuol dire che ogni uomo è parte degli altri uomini, che c’è un senso di responsabilità collettiva. L’”Ubuntu” spiega il grande patrimonio di creatività popolare e di solidarietà dal basso che la società africana ha saputo mostrare anche in questa occasione. Le testimonianze sono ricche di esempi di intraprendenza -anche tecnologica- e di autogestione.
In tantissimi Paesi si sono moltiplicate iniziative per fabbricare mascherine, distribuire sapone, creare fontanelle nelle strade per lavarsi le mani, sensibilizzare la popolazione alle buone pratiche di igiene, distribuire kit alimentari, trovare soluzioni innovative per costruire respiratori polmonari…
I governi hanno imposto il lockdown, ma Il blocco risulta difficile da applicare in moltissime realtà, dove l’economia dominante è quella informale: le persone escono per la necessità di guadagnarsi da vivere, per mangiare… L’esigenza della mobilità per poter vendere nelle strade, nei mercati, è insopprimibile quando si vive alla giornata. Tant’è che ci sono state proteste e scontri. E poi le case sono in gran parte invivibili: in Africa non si vive in casa.

D. Come ha inciso il Covid-19 sull’economia africana?
R. L’impatto della pandemia c’è stato di più, per ora, sull’economia -per le misure restrittive introdotte al fine di controllare il contagio- che sulla salute. L’economia africana era già in crisi da prima, il Covid-19 ha funzionato da amplificatore. Uno schiaffo in più, in aggiunta ai tanti shock già esistenti: fame e carestie, cambiamento climatico, migrazioni, terrorismo jihadista… e, appunto, crisi economica già in essere, a causa innanzitutto del calo generalizzato del prezzo del petrolio. Secondo un rapporto di Oxfam la crisi potrebbe spingere, nei Paesi in via di sviluppo, fino a mezzo milione di persone nella povertà. Non c’è altra soluzione se non la riduzione, fino alla cancellazione, del debito di questi Paesi. La comunità internazionale si sta già orientando in questa direzione. Dovrebbe essere la grande occasione, come hanno scritto 100 intellettuali africani in una loro lettera, per “uno sviluppo endogeno, per creare valore qui, al fine di ridurre la nostra dipendenza sistemica”, alternativo al “liberalismo economico” e “alle pratiche estrattive degli attori esterni”, cioè alla rapina neocoloniale.

D. Al centro del libro c’è il concetto di “salute globale”. Può spiegarlo?
R. La salute è una questione globale, che dipende dall’ambiente, dall’alimentazione, dall’educazione, dalla lotta alle diseguaglianze sociali, che sono anch’esse un terreno fertile per la diffusione delle malattie. La salute dell’Africa è connessa con la nostra e con quella delle generazioni future. Il libro, quindi, non parla d’altro: parla di noi, dell’umanità, che è una sola. Per contrastare le pandemie dobbiamo considerare la salute un bene globale. Facciamo l’esempio dell’ambiente. In “Sao Tomé e Principe – Diario do centro do mundo” ho raccontato la bellezza straordinaria della foresta, il dramma della deforestazione, il mio incontro con i pipistrelli della foresta. Quando l’uomo deforesta, strappa il territorio ai principali portatori di virus che ci sono oggi nel pianeta, i pipistrelli. Tutte le ultime pandemie sono state portate dai pipistrelli. Questi vanno sotto stress e sono portati ad essere molto aggressivi in un territorio che era il loro. Mentre prima queste cose rientravano in un’economia della foresta, adesso si trasmettono attraverso lo “spillover”, il salto di specie, a noi. C’è un nesso evidentissimo tra le attività sciagurate e predatorie dell’uomo e il Covid-19. Come ha scritto Mario Tozzi “il vero antivirus che abbiamo a disposizione è proprio la conservazione della natura, e in particolare delle foreste tropicali”.

D. La cooperazione internazionale subirà dei cambiamenti nei prossimi anni a causa della pandemia?
R. Chissà quando potremo tornare in quei Paesi… Io, per esempio, sto seguendo un progetto formativo sull’acqua in Palestina. Stiamo cercando di trasformarlo in un progetto di insegnamento a distanza, ma temo perda parte del suo valore… Chi è rimasto in Africa o in Palestina sta aiutando a fare sensibilizzazione e a fornire i materiali indispensabili… Ora dobbiamo programmare interventi mirati, agire dove la situazione sanitaria ed economica è più grave, e farlo in modo non frammentato ma come sistema: istituzioni internazionali, Governo, Regioni, Comuni, Ong, privati.
Più in generale, tutto ci spinge a contribuire a quello “sviluppo endogeno” proposto dai 100 intellettuali africani. Come ho scritto nei giorni scorsi (“Riflessioni su Silvia Romano e il futuro della cooperazione”): I popoli del Sud del mondo non devono essere ‘oggetto’ ma ‘soggetto’ del progetto di cooperazione: la capacità dei cooperanti dev’essere quella di sollecitare l’autonomia dei popoli, senza imporre la ‘nostra’ idea occidentale di sviluppo”.

Popularity: 3%