Spezia e i carri armati contro il Sessantotto
Città della Spezia, 23 settembre 2018 – Sono trascorsi cinquant’anni dall’occupazione sovietica della Cecoslovacchia: un’invasione armata contro il tentativo di conquistare il “socialismo cecoslovacco”, il “socialismo dal volto umano” che intendeva ridimensionare il potere assoluto del Partito comunista. Verso la mezzanotte i carri armati sovietici e degli altri Paesi del Patto di Varsavia varcarono il confine. Radio Praga diede la notizia all’alba, e lesse il comunicato del Partito comunista che condannava l’intervento. In mattinata la radio entrò in clandestinità. Demetrio Volcic, allora corrispondente della Rai da Praga, nel suo libro “1968. L’autunno di Praga”, ha scritto:
“Dopo le cinque del mattino la popolazione scese in strada, la folla sventolava le bandiere, piangeva, urlava: un’atmosfera che ricordava molto il 1938, quando le truppe di Hitler entrarono nel Paese. La gente improvvisava barricare, i carri armati le distruggevano, i russi sparavano all’impazzata ma in aria… I carri armati procedevano, la gente gridava ‘fascisti andatevene’; alcuni uomini si arrampicavano sui carri armati… A mezzogiorno tutti gli automobilisti si misero a suonare il clacson per protesta… I cittadini fermi sull’attenti interruppero per dieci minuti ogni attività in un silenzio totale, con in sottofondo il suono delle sirene di tutti gli stabilimenti industriali della capitale. Il 21 agosto finivano le ultime illusioni di riformare il socialismo”.
PRAGA COME SAN FRANCISCO
Il “nuovo corso” cecoslovacco fu lungamente preparato dalle vicende degli anni Sessanta, come successe per il Sessantotto in tutto il mondo. Anche a Praga arrivarono la letteratura beat, gli hippies, il rock, il jazz. Dopo la visita nel ’65 del poeta Allen Ginsberg, che con le sue letture entusiasmò folle di giovani, la città sembrava San Francisco, diventò un laboratorio di cultura underground.
Un momento importante fu il Congresso degli scrittori svoltosi nel giugno ’67, che fu molto critico verso il regime e chiese la libertà di espressione. All’indomani la repressione fu durissima. Molti intellettuali cecoslovacchi inviarono un appello “all’opinione pubblica e a tutto il mondo libero”, che fu pubblicato dal settimanale “L’Espresso”. Vi si leggeva: “Siamo per un vero socialismo, per ‘l’impero della libertà’ proclamato da Marx e non per la legge del terrore”.
Un altro momento importante fu la mobilitazione degli studenti universitari, che organizzarono una manifestazione il 1° novembre 1967, caricata brutalmente dalla polizia. Il 5 aprile 1968 fu presentato il manifesto programmatico del Kan, Associazione dei senza partito impegnati.
ALEXANDER DUBCEK, IL TRAVAGLIO DI UNA VITA
In questo clima, il 5 gennaio 1968 fu eletto segretario del Partito comunista Alexander Dubcek, l’uomo che interpretava il desiderio di cambiamento del Paese. Tre furono gli aspetti centrali dei pochi mesi di governo di Dubcek, la “Primavera di Praga”: le riforme politiche che miravano a riconciliare il socialismo con la democrazia; quelle economiche che si proponevano una sintesi tra economia pianificata ed economia di mercato; e il ruolo chiave attribuito alla cultura. Il “modello sovietico” veniva messo radicalmente in discussione. La tensione tra Urss e Cecoslovacchia crebbe di continuo, fino al colpo di stato.
Dubcek fu arrestato e portato a Mosca. Per il resto della vita fece l’impiegato, poi il fabbro nell’azienda forestale di Bratislava. E’ ancora emozionante la sua intervista concessa al quotidiano del Pci “L’Unità” il 10 gennaio 1988: “Alexander Dubcek: ‘mi sia restituito l’onore politico’”.
Pochi mesi dopo Dubcek così concluse il suo intervento scritto al convegno organizzato da comunisti e socialisti a Bologna:
“Sono stato e resto un comunista convinto, influenzato dai rivoluzionari che ci hanno preceduto. Sono partigiano di un socialismo nel quale la democrazia della gente e per la gente ha diritto di cittadinanza. Socialismo e democrazia sono termini inseparabili. Il primo senza il secondo non è socialismo nel vero senso della parola. Soltanto la coniugazione dei due termini in un unico insieme, in un solo concetto dà il contenuto vero al socialismo”.
Nel dicembre 1989, crollato il muro di Berlino, Dubcek fu eletto Presidente del Parlamento.
IL SESSANTOTTO NON CAPI’ PRAGA
Nel resto del mondo era scoppiato il Sessantotto. In Occidente il movimento studentesco prestò però scarsa attenzione al Sessantotto di Praga. Certo, l’invasione fu condannata, ma non vi fu una mobilitazione, come quella contro la guerra americana in Vietnam. Solo il tedesco Rudi Dutschke, nell’aprile del ’68, si recò a Praga per capire, poco prima dell’attentato neonazista che lo ridurrà in fin di vita e gli impedirà di proseguire la sua riflessione. Nei repertori dei nostri sessantottini non entrò mai la bellissima canzone che Francesco Guccini scrisse allora:
“Son come falchi quei carri appostati/ corron parole sui visi arrossati/ corre il dolore bruciando ogni strada/ e lancia grida ogni muro di Praga…/dimmi chi era chi il corpo portava/ la città intera che lo accompagnava…”.
Per il movimento studentesco e soprattutto per i nascenti gruppi della sinistra “rivoluzionaria”, le istanze dei cecoslovacchi erano “borghesi”, perché si battevano per le “libertà formali”. Si condannava l’invasione, ma anche il “nuovo corso”.
IL PCI: PERCHE’ NON BASTO’ LA “RIPROVAZIONE”
La Direzione del Pci espresse “riprovazione” contro il colpo di Stato. Ma una presa di distanza radicale dall’Unione Sovietica non vi fu. Questo errore fu pagato duramente anni dopo, quando il Pci si dissolse dopo la caduta del muro di Berlino: perché non aveva saputo fare, dopo Praga, una coerente scelta per il socialismo democratico. Non a caso dopo il 1989 il suo gruppo dirigente passò in maggioranza dal comunismo al liberalismo.
LE REAZIONI A SPEZIA
Nella nostra città le reazioni all’invasione sovietica furono sostanzialmente omogenee a quelle dei partiti e dei gruppi a livello nazionale. La Fgci, l’organizzazione giovanile del Pci, ebbe una posizione più “radicale” rispetto a quella del partito. Anche a Spezia, come emerge dalla ricerca sul ’68-’69 a cui sto lavorando con Maria Cristina Mirabello. Il 25 agosto i giovani democristiani, socialisti e comunisti sottoscrissero un documento comune di condanna.
Nel gennaio 1969 ci fu il tragico gesto di Jan Palach, che si diede fuoco in piazza San Venceslao a Praga per chiamare il suo popolo alla lotta. Gli studenti del Liceo Scientifico Pacinotti fecero una manifestazione silenziosa sfilando in via Chiodo. Ci fu poco altro. Il gruppo “Il Potere Operaio”, in un volantino ciclostilato a Castelnuovo, riconobbe a questo gesto il valore di aver riaperto il problema cecoslovacco, ma poi manteneva la linea: “Difendiamo il socialismo contro la burocrazia contro la borghesia rossa”. Ricordo che, a quattordici anni e mezzo, nel marzo ’69 mi iscrissi alla Fgci, dopo una lunga riflessione. A convincermi furono le parole ascoltate nel salone di piazza Mentana, nella sede del Pci, da Gianpaolo Baiocchi, della segreteria nazionale della Fgci: “Se il socialismo fosse quello che c’è in Urss o in Cina, allora non varrebbe nemmeno la pena di lottare”. Ma il Pci non fu conseguente, e non ruppe mai fino in fondo con l’Urss. Praga fu lasciata sola.
IL DECLINO DI TUTTA LA SINISTRA
Si può sostenere che la fine della “Primavera di Praga” anticipò il futuro declino di tutta la sinistra a livello mondiale. Ciò vale sia per la sinistra “rivoluzionaria” e per il Pci, e per i partiti comunisti dell’Occidente in genere. Ma anche i socialisti oggi sono in declino. Non hanno saputo affrontare la globalizzazione, sono stati subalterni all’ideologia neoliberista e hanno dimenticato chi dovevano rappresentare, i lavoratori e i più deboli.
Scrivo dalla Palestina, dove sto lavorando a un progetto di cooperazione internazionale che cerca di risolvere in questa terra martoriata il problema dell’acqua. Oggi sono arrivato nella mia amata Gerusalemme, dopo sette anni di lontananza. E’ stato straziante. Eppure era il Paese del socialismo sionista, dei kibbutz… Dall’aeroporto di Tel Aviv si arriva a Gerusalemme con l’autostrada 433: per metà passa in territorio israeliano, per metà in territorio palestinese occupato. Ai lati c’è pieno di postazioni militari, che controllano i pochi palestinesi che vogliono venire a Tel Aviv. Gli israeliani, invece, vanno dove vogliono. Le macchine israeliane hanno targhe verdi, quelle palestinesi gialle. Di macchine con le targhe gialle non ne ho viste. Lungo la strada c’è la città di Modi’m: anch’essa per metà in territorio israeliano, per metà in territorio palestinese. Ma è abitata solo da israeliani. Arrivato a Gerusalemme, ho visto con dolore la parte araba stuprata. Davanti alla porta di Damasco, che porta al suk, ci sono due orribili postazioni militari israeliane. Soldatesse e soldati israeliani armati pattugliano ogni angolo di Gerusalemme est. Quando venivo a Gerusalemme -tra il 2005 e il 2011- sarebbe stato impensabile. Il processo di “ebraicizzazione” della città è andato molto avanti. La Spianata del Tempio è accerchiata. Nelle vie principali della kasbah gli israeliani hanno comprato case, addobbate con le loro bandiere. Nessun palestinese potrà mai farlo a Gerusalemme ovest.
“LA BELLEZZA SALVERA’ IL MONDO”
Eppure Gerusalemme resta bellissima: ho fatto appena in tempo a rivedere le sue pietre dorate al tramonto, la meraviglia che tanto mi mancava. Così come era bellissima Praga quando c’era il regime, ancora più magica, perché meno sfavillante, di quella di oggi. Ma la bellezza è anche quella della gente: degli uomini e delle donne palestinesi che sbarcano il lunario come possono, delle praghesi e dei praghesi che soffrivano durante il regime. In entrambi i casi con un qualche vincolo di solidarietà tra loro.
Stasera mi è tornata in mente la frase di Fedor Dostoevskij “La bellezza salverà il mondo”. La bellezza era così centrale nella sua vita che il grande romanziere russo andava almeno una volta all’anno a vedere la bellissima Madonna Sixtina di Raffaello. Rimaneva a lungo in contemplazione davanti a quella splendida figura. Questo fatto è sorprendente: i suoi romanzi penetrano nelle zone più oscure e perfino perverse dell’animo umano. Ma quello che lo spingeva era la ricerca della bellezza: per questo ci ha lasciato quella famosa frase, che appare nel romanzo “L’idiota”. Nel romanzo “I fratelli Karamazov” Dostoevskij approfondisce il problema. Un ateo, Ipolit, domanda al principe Mynski: “In che modo la bellezza salverebbe il mondo”? Il principe non dice nulla ma va da un giovane di diciott’anni che sta agonizzando. Lì rimane pieno di compassione e amore finché quello muore. Secondo il teologo Leonardo Boff con questo Dostoevskij voleva dire: è la bellezza che ci porta all’amore condiviso con il dolore; il mondo sarà salvo oggi e sempre fin quando ci sarà questo gesto. Oggi ci manca. Dobbiamo sperare e lottare perché torni.
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