Squadra che perde non si cambia
Città della Spezia 2 aprile 2018
Sconfitta del “sistema” e “vendetta” delle persone e dei luoghi dimenticati: è questo, in estrema sintesi, il significato del voto del 4 marzo. Rigetto dell’ordine politico-economico dominante e sconfitta di Renzi e di Berlusconi. Esplosione dello scontento dei giovani, degli operai, del ceto medio impoverito, del Sud, delle periferie urbane e dei luoghi rurali, e vittoria dei partiti concepiti come anti – establishment, M5S e Lega. Per dirla con il titolo dell’editoriale scritto da Fabio Lugarini subito dopo il voto: “La protesta è manifesta, la sinistra in cantina” (“Città della Spezia”, 5 marzo 2018).
M5S: PERCHE’ NON BASTA DIRE “POPULISTI”
Il M5S ha vinto perché ha intercettato parte di questo scontento, sottraendo molti voti al Pd. I ceti sociali sottoprivilegiati si sono sentiti abbandonati e traditi da chi doveva proteggerli e hanno reagito votando in buona parte i grillini. Nella nostra provincia i voti pentastellati sono sostanzialmente gli stessi delle elezioni del 2013: probabilmente a Spezia una parte dei voti persi dal Pd è andata al M5S, che ha a sua volta perso voti verso la Lega; mentre un’altra parte dei voti persi dal Pd è andata direttamente alla Lega.
La prima grande novità del voto è che il M5S è riuscito in un’impresa difficile: cambiare pelle e aumentare (da noi confermare) il consenso. Ha infatti assunto sembianze più moderate. Come potenziale Ministro del Tesoro Luigi Di Maio ha scelto il professor Andrea Rovantini, coautore di alcuni saggi con il Premio Nobel Joseph Stiglitz: una chiara dimostrazione del superamento di una posizione radicalmente antieuropea. Anche sull’immigrazione i toni sono cambiati. Il programma del M5S prevede “la sospensione di tutti i rimpatri verso i Paesi extra Ue che violano i diritti umani”. Nulla a che vedere con l’estremismo della Lega. Insomma, c’è stato uno spostamento a sinistra del M5S. E’ troppo facile dire che il M5S è una forza populista. La verità è che la sinistra chiama populismo tutto quello che non riesce a capire.
Ora il M5S deve scegliere: o un’innaturale (perché le proposte economico-sociali sono alternative) alleanza con la Lega, o il posizionamento nel centrosinistra.
LA MARCIA DELLA LEGA NELLE EX REGIONI ROSSE
L’onda grillina ha impedito una vittoria storica del centrodestra a trazione leghista. Chi a sinistra strepita contro il M5S dovrebbe avere l’onestà di riconoscerlo. La Lega, questa è l’altra grande novità del voto, vince comunque nelle antiche regioni dell’insediamento comunista, spiantando le ultime radici di un partito in qualche modo erede del movimento operaio e contadino. Non esiste più l’Italia rossa. La sconfitta alle comunali spezzine era stata emblematica: Spezia è una delle poche città italiane in cui il Fronte Popolare (Pci-Psi) vinse nelle elezioni politiche del 1948 contro la Dc. Ma pochi mesi fa Peracchini ha trionfato su Manfredini con il 60% dei voti. Questa mutazione genetica dell’Italia di mezzo vede quasi ovunque trionfare non il M5S (con eccezioni, come Livorno e Carrara) ma il centrodestra. O, meglio, la Lega. O comunque un partito unico di destra a egemonia leghista, come quello a cui lavora Giovanni Toti. Forza Italia e i cosiddetti “moderati” del centrodestra sono infatti senza rotta. Hanno tentato con il Pd la riforma del sistema di voto per poi -dopo le urne- governare assieme, ma il Rosatellum ha avuto l’effetto opposto: la riproposizione della rivoluzione liberale (datata 1994 e mai realizzata) è stata respinta dagli elettori.
PD, IL GRANDE SCONFITTO
In cinque anni il Pd ha perso due milioni e mezzo di elettori. E’ proprio vero che gli dei accecano chi vuol perdere. Era già tutto chiaro da tempo. La rivoluzione conservatrice del neoliberismo non avrebbe potuto trionfare così facilmente nel nostro Paese se non avesse potuto affondare il coltello nel ventre molle della sinistra postcomunista. Chi un tempo rappresentava gli operai ha contribuito a trasformarli da protagonisti in spettatori delle ultime file, e ne ha tratto i risultati. Oggi, per milioni di cittadini, sinistra è sinonimo di contratti flessibili, di licenziamenti facili, di lavoro precario, di pensione a settant’anni, di ticket sanitari, di smantellamento del welfare. Ho conosciuto bene il ceto politico postberlingueriano del Pci. Oggi siamo davanti alla sua debacle e alla sua fine. Come ha scritto il filosofo Alberto Olivetti: “La responsabilità del dirigere si è trasformata in esercizio clientelare; la formazione dei gruppi dirigenti in una selezione di subalterni rotti a ogni conveniente infedeltà; il governo della cosa pubblica in assidua e oculata soddisfazione del tornaconto privato e di parte” (Il manifesto”, 30 marzo 2018). All’origine vi fu il drammatico errore del 1989: la scelta, caduto il muro di Berlino, di diventare “liberal” ovvero liberisti, non socialisti. C’è stata un’inversione di ruoli e di rappresentanza di ceti e di stili di vita, raffigurato da tutte le analisi del voto degli ultimi anni -anche a Spezia- che hanno contrapposto i benpensanti e benestanti soddisfatti dei centri cittadini al popolo delle periferie che esprime un bisogno al tempo stesso di ribellione e di protezione. Oggi, in un’Italia che si ribella e chiede protezione, a che serve un partito “liberal”?
LA SCONFITTA DELLA SINISTRA RADICALE
Tutta la sinistra, anche quella radicale, è stata giudicata dall’elettorato come parte integrante di un sistema da cambiare. Liberi e Uguali è stato un esperimento sbagliato, costruito a tavolino, incapace di un’analisi strategica in grado di mettere in discussione il modello politico-economico vigente: concepito quindi come una corrente esterna al Pd. Ho guardato con simpatia, ma senza illusioni, al “movimento del Brancaccio”: il tentativo di costruire un’alleanza tra i partiti della sinistra e cittadini senza partito, di creare qualcosa di nuovo. Sapevo quanto quel tentativo fosse ingenuo e destinato alla sconfitta: per averci provato -per caso, spinto da cittadini senza partito- nel 2015 in Liguria. Arrivai già allora alle stesse conclusioni cui è arrivato Tomaso Montanari, promotore del “movimento del Brancaccio”: l’inaffidabilità del gruppo dirigente della sinistra, “di chi ha scelto consapevolmente la via peggiore, perché calcolava di poterne ricavare maggiori benefici per la sopravvivenza del proprio ceto politico” (Huffington Post”, 22 marzo 2018).
CHI HA PERSO SPADRONEGGIA
E’ incredibile la rapidità con cui si è passati, sia nel Pd che nella sinistra radicale, sopra la più grande sconfitta del dopoguerra. Niente analisi, niente dimissioni. In tutti i partiti serve un “punto a capo”. I capitani che hanno portato la nave sugli scogli non possono rifondare alcunché. La storia del Pd e quella della sinistra radicale sono finite per sempre. Se nel futuro ci sarà una sinistra, dovrà avere un personale politico in totale discontinuità con quello attuale.
Renzi si è dimesso, è vero. Ma per finta: “l’artefice della peggior Waterloo della sinistra italiana continua a voler dettar legge” (Piero Ignazi, “Repubblica”, 30 marzo 2018). Può farlo perché ha confezionato con cura liste di parlamentari yes – men (altro che primarie!). E per la debolezza dei suoi oppositori interni. Insomma: “squadra che perde non si cambia”. Come successe nel Pd ligure dopo le regionali del 2015: il risultato fu la perdita, dopo la Regione, anche dei Comuni di Savona, Genova e Spezia.
GLI AVENTINI SONO INUTILI
Renzi sta imponendo al Pd un immobilismo cadaverico, per mantenere il suo potere nel partito. Si dice che vorrebbe fare un partito “alla Macron”, come in Francia. Ma l’ipotesi non sta in piedi: da noi c’è già il M5S, che non a caso sta dialogando proprio con Macron. Certamente Renzi spera nel “tanto peggio tanto meglio”: un governo M5S – Lega, per diventare l’unico partito di opposizione. Ma se questa alleanza innaturale non si realizzerà, il Pd sarà costretto prima o poi a uscire dall’arroccamento e a prendere delle decisioni. Non potrebbe più dire di stare all’opposizione: opposizione a che? In realtà il Pd dovrebbe già ora fare delle scelte, per impedire questa alleanza innaturale, che invece sta cercando di favorire in tutti i modi. Gli Aventini sono inutili. Come lo furono per i plebei romani e per i deputati antifascisti. Certo, sembra impossibile che il Pd guidato da Renzi faccia un qualche accordo con il M5S. Ma a quel punto sarebbe opportuno che il processo si compisse fino in fondo. Se si andasse a nuove elezioni, a scegliere tra M5S e Lega sarebbero gli elettori del Pd: certamente lo farebbero assai meglio dei loro dirigenti. Sanzionando così la definitiva marginalità del partito.
NELLA CITTA’ (QUASI) PERDUTA DI SARZANA
Il Pd e i suoi elettori dovranno comunque scegliere a giugno, quando si voterà per le amministrative in molti Comuni. Se gli elettori votassero in queste elezioni come hanno votato il 4 marzo, in 88 Comuni su 111 ci sarebbe un secondo turno con il ballottaggio tra il candidato della destra e quello del M5S. Che farà il Pd? Certamente i suoi elettori non sceglieranno la destra.
A proposito, tra questi 88 Comuni ci sarebbe anche Sarzana. Il Pd spera di modificare il dato e di arrivare al ballottaggio. Ma tutto fa pensare, anche ammesso che ci arrivi, che poi lo perderebbe. Una strada di vero cambiamento ci sarebbe. Io la proposi, inascoltato, prima delle elezioni comunali spezzine: “C’è bisogno di una coalizione civica, sociale, popolare, aperta a tutti, a partire da chi non vota più, sulla base di un programma di grande cambiamento. Con dentro le migliori passioni e competenze della città, comprese quelle che sono dentro i partiti: ma senza alleanze tra partiti, e senza simboli dei partiti. Che abbia l’ambizione di vincere le elezioni e di governare la città” (“Una storia è finita, ora una grande lista civica”, pubblicato in questa rubrica il 20 marzo 2016). Nei giorni scorsi Andrea Ranieri, spinto da molti sarzanesi, ha fatto una proposta simile. Anche lui inascoltato. Mentre Valentina Ghio, a Sestri Levante, l’ha fatto con maggior successo. Come ha detto Ranieri: “non è più tempo dei partiti in Italia, e a casa nostra”. Piaccia o non piaccia, ora è senz’altro così. E la responsabilità è dei partiti.
Post scriptum:
Dedico questo articolo alla memoria dell’amico Mario Vegetti, recentemente scomparso. Era un grande studioso di Platone e della filosofia antica. Milanese legato a Levanto, mi fece l’onore di presentare il mio libro “Ripartiamo dalla polis”. A Spezia, nell’agosto scorso, presentai il suo “Chi comanda nella città”, raffinata riflessione sul potere. Uomo di sinistra, riteneva che la politica avesse bisogno di uno slancio utopistico. “O la democrazia si ripropone obbiettivi di eguaglianza -disse quella sera- o perde la sua ragione principale di esistere”.
lucidellacitta2011@gmail.com
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