Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
14 Novembre 2024 – 21:22

Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 22 novembre ore 17 al Palazzo Ducale di Massa
Massa, Palazzo Ducale – Sala della Resistenza
Il libro di Dino Grassi “Io …

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Quell’idea che ci era sembrata così bella

a cura di in data 13 Luglio 2017 – 20:32
San Pietroburgo, il Palazzo d'Inverno    (2005)    (foto Giorgio Pagano)

San Pietroburgo, il Palazzo d’Inverno
(2006) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 9 luglio 2017

IL RITORNO DELLA SINISTRA “VINTAGE”
Alle elezioni politiche di due anni fa in Gran Bretagna votò solo il 43% dei giovani tra i 18 e i 24 anni. Il quarantenne leader del Partito laburista Ed Miliband, universalmente considerato un ganzo al passo con i tempi, subì una pesante sconfitta. Nelle elezioni politiche dell’8 giugno scorso la percentuale dei votanti tra i britannici più giovani è stata del 70%: oltre il 60% di loro ha votato il nuovo leader laburista Jeremy Corbyn, un uomo di 68 anni, a lungo preso in giro dalla gran parte dei politici e dei commentatori perché “socialista” e “nostalgico”. I giovani hanno portato Corbyn al 40%, un risultato impensabile fino a poche settimane prima: la conservatrice Theresa May ha conservato il posto di Primo Ministro, ma Corbyn è stato definito il “vincitore morale” delle elezioni, e chissà che in futuro…

L’anno scorso Bernie Sanders, 75 anni, nelle primarie democratiche americane contro Hillary Clinton ha raccolto un risultato senza precedenti per posizioni così “di sinistra”. Altrettanto ha fatto in Francia Jean-Luc Melenchon, 65 anni, che al primo turno delle elezioni presidenziali ha preso il 19,6% dei voti, contro il 24% del primo arrivato Emmanuel Macron. Anche loro grazie al voto dei giovani. Tutti e tre senza il look dei politici di oggi, tutti e tre vestiti un po’ trasandati, da “sfigati”…

Non condivido tutte le posizioni di Corbyn, Sanders e Melenchon, perché vorrei una sinistra innovativa, che non sia solo “vintage”: non ci bastano lo statalismo e l’operaismo. Tuttavia dobbiamo capire il bisogno che il ritorno della sinistra “vintage” esprime: di non buttare a mare il passato, di valorizzare ideali che sembravano essere perduti. Insomma, se la sinistra diventa “vintage” ridiventa un punto di riferimento per i giovani e i ceti meno abbienti. Oggi dobbiamo mettere in soffitta non il passato di chi è sempre stato dalla parte dell’eguaglianza e del lavoro, ma il passato più recente delle socialdemocrazie che hanno in massima parte esaltato le magnifiche sorti della globalizzazione liberista, finendo per attuare le storiche politiche della destra a suon di deregulation, guerre umanitarie, tagli al welfare e precarizzazione delle nostre vite. Che è poi il presente dei tipetti azzimati della sinistra “moderna”, che dicono solo cose di destra, esaltano le privatizzazioni, si eccitano parlando di competizione e tecnologie 4.0, ripetono che non esistono pasti gratis e preferiscono Marchionne a Gramsci e a Berlinguer. Solo così, abbandonando questo passato recente e questo presente e dimostrando una coerenza con gli antichi ideali, si batte la destra xenofoba e si recupera un rapporto con le fasce deboli della società. Poi è certamente necessaria l’innovazione, per rispondere alle grandi sfide dell’oggi: ma a partire dall’avere saldi ancoraggi. Si può e si deve svoltare in tanti punti programmatici, ma guai a recidere le radici culturali nelle formazioni secolari dei movimenti popolari. Pensiamo a Podemos in Spagna, che raccoglie il 20% dei consensi: è senz’altro un movimento di sinistra innovativo, ma se c’è un pensatore che ha influenzato il leader Pablo Iglesias è proprio il nostro Antonio Gramsci, con i suoi concetti di “blocco storico” e di “egemonia”, fondativi di una politica non separata dalla società civile.

PERCHE’ NON IN ITALIA?
A questo punto sorge la domanda chiave: come mai nel Paese del più grande Partito comunista d’Europa non siamo riusciti a partorire il nostro Corbyn o Sanders o Melenchon e anzi abbiamo consegnato l’eredità di quel partito al tardivo seguace di un Tony Blair rottamato dalla storia, a un giovane che, come politico, più vecchio non si può? E come mai non siamo riusciti nemmeno a creare, oltre il Pd, movimenti nuovi come in Spagna?

Un aiuto a rispondere ci viene dal bel libro di Tito Barbini “Quell’idea che ci era sembrata così bella”, che ho avuto l’occasione di presentare nei giorni scorsi. L’autore è stato un politico toscano in primo piano per decenni: Sindaco di Cortona, Presidente della Provincia di Arezzo, assessore regionale per 15 anni, segretario provinciale del Pci e del Pds. Poi ha scelto una nuova vita, dedicata ai viaggi e alla scrittura, anche se resta forte in lui la passione per la politica. Il libro è da leggere. E’ un libro inconsueto, un po’ un diario, un po’ un’autobiografia, un po’ un romanzo, un po’ una riflessione su cinquant’anni di vita politica della Toscana e dell’Italia.

Mi ha colpito per una certa somiglianza delle nostre vite: anch’io sono stato funzionario di partito, segretario Pci-Pds, Sindaco; anch’io ho poi abbandonato la politica partitica per scegliere nuove strade di impegno sociale e civile. Barbini usa termini che ho sempre usato anch’io per spiegare questa svolta: “la mia seconda vita”, “il distacco da una comunità”, “la scelta della libertà”.

Il libro è la storia di una vita e dunque è la storia di come le cose ci trasformano, di come cambiamo idea, se abbiamo l’onestà intellettuale di vedere e di pensare. “Quell’idea che ci era sembrata così bella” si apre con “Buffalo Bill” di De Gregori: «Tra bufalo e locomotiva la differenza salta agli occhi. La locomotiva ha la strada segnata, il bufalo può scartare di lato.» All’inizio, e per molti anni, Tito è una locomotiva dentro il partito toscano e la locomotiva ti consente di andare lontano partendo dal niente, sembra non fermarsi mai. Ma poi:

«Mi sono fermato e, come il bufalo di De Gregori, ho scartato di lato. La locomotiva aveva la strada segnata, potevo scegliere di andare sino in fondo su quel binario. E tutto si può dire, ma non ci si perde lungo un binario. Invece ho scelto di essere bufalo. Ho voluto provare a correre. Rischiando anche di cadere, ma almeno provandoci… Comunque vada, certi valori bisogna tenerseli ben stretti, prima che cadano come foglie morte.»

Un dialogo chiave del libro è nell’ultimo capitolo:

Il vecchio compagno di Cortona se ne è rimasto un po’ zitto. Poi sottovoce, è arrivata la domanda che Tito si aspettava e temeva: «Insomma perché hai lasciato la politica? Va bene, può succedere, è normale. Però non puoi rifugiarti nelle parole o nei viaggi. Ad Arezzo hanno bisogno della tua esperienza.»

Questa la risposta di Tito: «Ti ricordi cosa era per noi cinquant’anni fa il comunismo? Era la dottrina capace di spiegare tutto. La storia dell’umanità, il suo passato, il suo avvenire. Ma soprattutto un modo diverso di essere uomini. Per noi “compagno” era la prima parola di un linguaggio nuovo, allora. Adesso non ci credo più, l’avvenire si è fatto presente e non è quello immaginato. Sappiamo guardare le cose che ci stanno vicino, ma davanti a noi non c’è più orizzonte. Tu sei ancora comunista? Invidio la vostra fede, invidio chi ne ha una. Però vorrei dirti, non è vero che non soffro. Cerca di capirmi: non mi manca la passione politica. Quella è ancora intatta.»

Il senso critico in Tito, come emerge dal libro, è via via aumentato negli anni: la fine del comunismo gli ha fatto capire che “davanti a noi non c’è più orizzonte”. Che bisogna iniziare un  viaggio di tipo nuovo, il viaggio che ti porta a viaggiare dentro di te e, se ne hai modo, a viaggiare nei luoghi che hanno fatto parte della tua storia, che hai immaginato e che non avevi mai visto. Anche qui c’è una certa somiglianza tra noi: anche se i miei viaggi li ho fatti soprattutto per lavoro -in Palestina e in Africa da cooperante- essi sono stati, come quelli di Barbini, “viaggi dentro di me”, alla ricerca dei principi fondativi, di ciò che entrambi definiamo “umanesimo”, cioè l’immedesimarsi nella sofferenza degli altri (che portò Tito e la “meglio gioventù” -io ero ancora un ragazzino- nel ’66 a spalare nella Firenze alluvionata). Anch’io, però, ho fatto, come Tito, alcuni viaggi “nei luoghi che hanno fatto parte della mia storia”: nell’Unione Sovietica di Gorbaciov e poi nella Russia privatizzata, nella Praga comunista e poi in quella sfavillante del mercatismo, e anche il viaggio a New York, alla scoperta dell’America democratica.

Tito ha quindi iniziato a viaggiare e a scrivere, il modo migliore per ripensare a sé e per dare il proprio contributo a una società e a una politica che hanno bisogno di nuove forze e passioni, “alla ricerca dei principi fondativi”, dei “valori” che bisogna “tenersi ben stretti, prima che cadano come foglie morte”.

Centro Culturale Dialma Ruggero, "Mosca e i suoi compagni", spettacolo della Compagnia degli Scarti (2015)    (foto Maria Pia Pozzi)

Centro Culturale Dialma Ruggero, “Mosca e i suoi compagni”, spettacolo della Compagnia degli Scarti
(2015) (foto Maria Pia Pozzi)

GLI ORRORI DEL COMUNISMO, LA DIVERSITA’ DEL PCI E LA SUA CRISI
Nel libro ci sono il babbo comunista, il norcino Spinaldo come maestro, la passione giovanile, il ‘68, il Vietnam, il socialismo reale, la formazione politica alle scuole di partito del Pci di Bologna e delle Frattocchie, l’andare a scuola dalla classe operaia, il rapporto di un giovane dirigente toscano con i grandi dirigenti nazionali, l’amicizia con Mitterrand (sempre legato a Cortona), il fascino di quel palazzo alle Botteghe Oscure (la sede nazionale del partito, per tutti il “Bottegone”) e della grande macchina che voleva fare il socialismo dentro il movimento comunista ma all’italiana.

E poi c’è la Toscana, il riformismo comunista, un mondo in cui l’idea della società comunista andava di pari passo con la trasformazione gradualista della vita quotidiana e dell’economia, non con la rivoluzione.

Chi è stato comunista dentro o fuori dal Pci ritrova nel libro tante cose che ha vissuto: le lotte di piazza e il rapporto con quelli della squadra politica della Questura (immancabile il “questurino di sinistra”), gli scontri di piazza di cui a Tito è rimasta una cicatrice ricordo sulla fronte, le tragedie della Cecoslovacchia e della Cambogia, il lato umano dei dirigenti nazionali del Pci (nonostante l’ascensore del “Bottegone” riservato solo a loro…), l’apoteosi del ‘76, la complessità dell’ingraismo (Barbini fu molto legato a Pietro Ingrao), le difficoltà dei tempi della solidarietà nazionale e della lotta al terrorismo, il declino fino ai passaggi Pci-Pds-Ds-Pd.

Il comunismo è protagonista del libro: la dedizione alla causa e la scoperta degli orrori («Non ricordo qualcos’altro della mia vita a cui io abbia riservato una dedizione così totale come per l’idea comunista. Questa passione, genuina, non mi assolve dal fatto di essere stato per troppo tempo cieco e muto al cospetto di quanto stava succedendo. E questo continuerà a rimanermi dentro, come una vecchia frattura che, anche dopo molti anni, di tanto in tanto torna a dolere.»), ma anche la consapevolezza che il Pci ha dato una coscienza di sé agli umili e agli oppressi, e quindi la “non abiura” («E certo, la passione ha oscurato lo spirito critico, la capacità di guardare le cose come stavano. Eppure, ancora oggi dirsi militante significa dare una risposta alla mediocrità di questi tempi. Affermare ancora una volta che sono cambiato ma non ho abiurato… Il Pci ha fatto grandi errori. Ha avuto ambiguità e incertezze: non mi stancherò mai di ripeterlo. E’ stato per periodi interi dalla parte “sbagliata” della storia. Ma, intanto, sono diventato comunista perché ho incontrato una forza credibile e concreta, che mi ha fatto vedere la possibilità di vivere pienamente e di contribuire a far vivere pienamente gli altri.»).

E poi l’amore ma anche la critica per Berlinguer: «Se si voleva andare al governo, quel partito non poteva arrampicarsi sugli specchi del compromesso storico, ma doveva diventare qualcos’altro. Doveva diventare uno degli odiati partiti socialdemocratici. Doveva riconoscere che la lettura comunista della società era sbagliata, che il capitalismo non stava per crollare, che la funzione salvifica dei comunisti era una favola. Che per incidere sul mondo bisognava vederlo per quel che era e non inseguire antiche utopie, riverniciare schemi ormai smentiti dalla realtà.»

L’”ingraiano” Barbini approda a posizioni simili a quelle di un “amendoliano anomalo” (o “riformista di sinistra”) come me, che nel saggio introduttivo al libro “Non come tutti” scrissi: «Un elemento di analisi sempre presente (nel libro, ndr) è quello che riconduce gran parte della debolezza, e della subalternità, del Pd a quelle del partito nato dalla “svolta”. Si imponeva, allora, un bilancio critico della storia del Pci, ma l’esigenza fu del tutto elusa. Creiamo una sinistra del tutto nuova, questa fu l’impostazione dominante, che va oltre tutte le tradizioni e tutte le appartenenze. Uno stile improvvisato e disinvolto che caratterizzò quel gruppo dirigente in tutti i passaggi successivi, fino alla sua sconfitta storica, di cui la vittoria di Renzi è stata la conseguenza più che la causa. Questa sconfitta storica mi ha fatto tornare a quel bilancio critico della storia del Pci che ancora manca, e mi ha fatto riflettere sui limiti profondi dell’attitudine riformista di quel partito. Il presente della sinistra ha davvero radici lunghe, e la sua sconfitta di oggi è un dramma che può essere compreso solo se inserito in un vasto orizzonte. Questa, in estrema sintesi, la mia conclusione: aveva ragione Giorgio Amendola a chiedere il partito unico della sinistra; e aveva ragione Pietro Ingrao a chiedere un riformismo più innovativo e attento alle trasformazioni sociali. Se di questi due “revisionismi” si fosse fatta una sintesi avremmo avuto quel “partito socialista di sinistra”, alternativo alla Dc, che l’Italia non ha mai avuto. L’espressione di una “parte”, di un blocco delimitato di interessi sociali, portatore di un “riformismo radicale” capace di un progetto per il Paese, per “tutti”. Che avrebbe potuto dare una risposta politica di cambiamento alle spinte sociali e culturali del ’68-69 e degli anni Settanta. La mia tesi è che il Pci comincia la sua crisi con il “compromesso storico”… A ben pensare, Enrico Berlinguer è, in quegli anni, una “figura della crisi”: perché porta avanti, sia pure innovandola, la linea di Palmiro Togliatti, cioè una grande tradizione politica che aveva dato tutto quello che poteva dare e che si stava esaurendo e disfacendo. Si diede vita a un grande schieramento politico di unità democratica per salvare il Paese, ma i lavoratori e i giovani, coloro che il Pci doveva rappresentare, non si sentirono protagonisti, e temettero la loro marginalizzazione. Emerse già allora un punto circa il quale la mia critica è presente costantemente nel libro: cioè una concezione della politica “istituzionalista” e “politicista” , distante dai processi sociali, dalla società civile, dalla vita delle persone.»

DOPO IL PD
Tito, che pure, a differenza di me, è stato iscritto al Pd fino all’anno scorso, è impietoso nei confronti della deriva assunta dalla politica nell’era di Renzi: «Negli ultimi dieci anni ho guardato attonito a come pezzo dopo pezzo veniva smontato ciò che avevamo costruito in tanti decenni precedenti. Era evidente, via via che mi allontanavo dalla politica quale l’avevo conosciuta, che anche quella politica stava venendo meno. Come due strade che si separano dopo un bivio, allontanandosi sempre di più. Nella realtà non rimaneva in piedi quasi nulla delle cose che mi stavano a cuore.»

Nel libro non propone un’alternativa, ma si dichiara insoddisfatto; è come se volesse ritrovare la partecipazione e il modo di far politica dei tempi dei partiti di massa pur sapendo che un’epoca è finita per sempre.  Ma non smette di coltivare la speranza nella società e nelle persone, che faccio interamente mia:

«Per fortuna nostra e dei nostri nipoti si sta sviluppando nelle società contemporanee occidentali un bisogno di beni e valori che non sono quantificabili con il metro del danaro né misurabili con il criterio del mercato. Bisogni di comunità umana diretta; esigenze di affettività; volontà di prestazioni gratuite; domanda di liberazione da un lavoro colpito da nuove forme di alienazione.»

Ultimamente Tito un’alternativa ce l’ha: la formazione Articolo 1, composta  in gran parte da fuoriusciti del Pd, a cui ha aderito, e la piazza romana chiamata a raccolta da Giuliano Pisapia e Pierluigi Bersani. Mentirei se dicessi che, a oggi, questa proposta è capace di resuscitare il desiderio di votare e di partecipare in chi, come me, è da tempo “senza casa”. E spiego perché: non mi convince la tesi che tutti i problemi della sinistra e del Paese siano riconducibili a Matteo Renzi. So bene quanto grandi siano le sue responsabilità. Ma torniamo alla domanda iniziale: perché non abbiamo un Corbyn o un Iglesias? Una domanda strettamente intrecciata all’altra: come siamo arrivati a Renzi? Non possiamo raccontarci che è venuto fuori come un fungo, senza radici e senza ragioni. Non possiamo nasconderci che Renzi è il più grave sintomo di una malattia degenerativa della sinistra, ma non ne è la causa. E quindi dalla classe dirigente del centrosinistra, le cui scelte hanno generato un Renzi, ci si aspetta un’analisi profonda, spietatamente autocritica.

A questo punto la questione è programmatica, ma non solo. Sui programmi i punti del cambiamento sono chiari: ripristino dell’articolo 18 contro i licenziamenti, reddito di dignità come propone Libera, politica fiscale progressiva per far pagare i redditi più alti, rilancio degli investimenti pubblici nel settore delle energie rinnovabili, della messa in sicurezza del territorio, della scuola e della cultura… E qualche misura simbolica, come il divieto di stage gratuiti per i giovani, come ha proposto Corbyn.

La questione è anche quella del leader (non del capo carismatico). A un amico ho detto nei giorni scorsi, un po’ provocatoriamente: serve un “Papa straniero”, un cavaliere libero che non rassomigli a nessuno dei leader di questi anni. Uno magari trasandato come Corbyn. Ma capace di ridare voce a chi l’ha persa da troppi anni e a chi non va più a votare. Di far rinascere la sinistra aprendola al sociale e al civismo.

Post scriptum:
Dedico l’articolo odierno a un partigiano a cui ero molto legato: Giovanni Uras “Il Mosca”, scomparso nei giorni scorsi. A diciassette anni salì ai monti con il battaglione “Vanni”. Catturato dalle brigate fasciste il 28 febbraio del 1944 nei pressi di Vezzano, subì il carcere, fu condannato a morte dal tribunale di guerra, ma scampò all’esecuzione. I suoi compagni di cella, Luigi Zebra di ventidue anni, e Giuseppe Da Pozzo, di ventotto, furono invece fucilati a Monterosso il 5 marzo 1945. Nel dopoguerra fu operaio dell’Oto Melara e tra i protagonisti della lotta in fabbrica del 1950-1951. Fu licenziato e costretto a emigrare per trovare lavoro. Per molti anni lavorò a Zurigo. Poi tornò al Limone, dove era nato. Operaio e comunista, è stato esempio di una vita coerente con i valori di cui ho scritto in questo articolo, quei valori che bisogna “tenersi ben stretti, prima che cadano come foglie morte”.

Ho raccontato la storia del “Mosca” in questa rubrica negli articoli:
Il Battaglione Vanni, una storia ancora da raccontare”, 15 marzo 2015
’Il Mosca’ e il ‘disastro’ del 3 agosto 1944”, 28 agosto 2016
Dai racconti di Giovanni è stato tratto lo spettacolo teatrale “Mosca e i suoi compagni” della “Compagnia degli Scarti”. La foto in basso, di Maria Pia Pozzi, ritrae gli attori che interpretano “Il Mosca” e i suoi compagni nei giorni drammatici trascorsi in carcere.

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