Presentazione di “Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi, Venerdì 29 novembre ore 16.30 a Pontremoli
24 Novembre 2024 – 21:44

Presentazione di
“Io sono un operaio. Memoria di un maestro d’ascia diventato sindacalista” di Dino Grassi
Venerdì 29 novembre ore 16.30
Pontremoli – Centro ricreativo comunale
Il libro di Dino Grassi “Io sono un operaio. Memoria di un maestro …

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Ospedali, una storia di ritardi e di errori

a cura di in data 18 Febbraio 2017 – 12:56
Riomaggiore, Punta Pineda    (2006)    (foto Giorgio Pagano)

Riomaggiore, Punta Pineda
(2006) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 12 febbraio 2017 – Il libro di Sondra Coggio “Storia di un reparto mai nato” è un viaggio nella sanità spezzina che ha il merito di suscitare una riflessione sulle vicende degli ultimi decenni, in particolare quelle riguardanti i nostri ospedali. Il reparto che dà il titolo al libro è quello che fino a poche settimane fa si poteva vedere all’ultimo piano dell’ospedale del Felettino, oggi demolito. Si cominciò a parlarne nei primi anni Novanta: ricordo che fu varata una legge dello Stato, con cospicui finanziamenti, per affrontare l’emergenza Aids; e che la Regione Liguria decise di utilizzarla per costruire un reparto per le malattie infettive all’ultimo piano del Felettino. L’appalto fu fatto nel 1998, per un importo di oltre otto miliardi delle vecchie lire; l’opera fu collaudata solo nel 2008. Dieci anni di lavori, per un’opera piena di contenziosi, come troppo spesso accade nel nostro Paese, tra l’ente pubblico committente -in questo caso l’Asl 5, per conto della Regione Liguria- e l’impresa costruttrice, la Tangram di Genova. Che era, nel 1998, una delle principali imprese nel settore dell’edilizia sanitaria, e che fallì nel 2004. Sono stato Sindaco dal 1997 al 2007 e ho seguito il calvario dell’opera: l’appalto non era nostro ma ricadeva pur sempre nel territorio comunale. Non fu l’unico calvario: basti pensare alla Variante Aurelia, opera dell’Anas, che ancora non si è conclusa, perché ha avuto problemi in più fasi. Non solo per i fallimenti delle imprese e i contenziosi con esse, ma anche per i movimenti franosi, per la mancanza di finanziamenti, e pure, in una fase, per l’incapacità di Anas di fare il proprio mestiere. Il Comune, in quella fase, riuscì a ritagliarsi un ruolo decisivo: nel 1997 firmammo infatti una convenzione con Anas che affidava al Comune il compito di bandire la gara per il terzo lotto, quello in corso di realizzazione. Un calvario simile non ha risparmiato, in questi decenni, alcune opere dello stesso Comune: per fortuna non nel mio mandato né in quello precedente di Rosaia (nel quale avevo la delega ai lavori pubblici), i mandati in cui riuscimmo in tempi record a realizzare il Museo Lia, ottenendo così la donazione dell’ingegnere, e anche a ultimare il Palazzo di Giustizia, bloccato per anni da contenziosi tra il Comune e l’impresa. Ma prima e dopo è certamente accaduto. Perché? Più in generale: perché in Italia, non solo a Spezia, le opere pubbliche conoscono spesso tanti ritardi? La risposta è complessa, rimanda a leggi da cambiare, ma anche a comportamenti da cambiare. Non ci sono solo le imprese che falliscono, ci sono anche le imprese che vivono solo di contenziosi; così come ci sono enti pubblici che commettono troppi errori nella fase decisiva, che è quella della progettazione. Occorre riformare norme e prassi per ridare centralità e dignità alla progettazione, intesa non come fase di secondaria importanza, come oggi spesso avviene, rispetto alla realizzazione, ma come strumento decisivo per realizzare opere di qualità ed evitare, o quanto meno limitare, i contenziosi. Che cosa c’è stato alla radice del “reparto mai nato”? Il libro non può darci una risposta certa, perché l’autrice si è trovata di fronte alla scomparsa -pensate!- della delibera dell’Asl che aggiudicava, nel giugno 1998, i lavori. Da atti della Regione risulta comunque che il progetto sia stato redatto da tre autorevoli professionisti. Peccato, però, che l’Asl, in un documento successivo, abbia scritto che il progettista fu un professionista diverso da costoro, di cui la Coggio non riesce a scovare alcuna traccia: solo un nome simile, allievo di uno dei tre autorevoli progettisti… L’edificio, come ricordato, viene collaudato nel 2008: ma il reparto non nasce, perché nel frattempo si decide di demolire il Felettino. Mentre i progetti precedenti prevedevano che il nuovo ospedale fosse composto da un nuovo corpo collegato a quello vecchio, ora il progetto prevede che il nuovo ospedale sia nuovo di zecca: prima la demolizione, poi la ricostruzione. A causa di questa decisione, e complice il fatto che l’Aids c’è, purtroppo, ancora, ma non nelle forme che si temevano agli inizi degli anni Novanta, il reparto non si fa più. E la Regione utilizza in altro modo i fondi restanti, perché non ha speso tutti gli otto miliardi di lire previsti. Resta il problema di quei dieci anni tra appalto e collaudo. Ci furono anche responsabilità di Asl e Regione, e più precisamente errori nella progettazione, come la Coggio teme? Al Comune fu sempre riferito che i problemi erano da addebitare all’impresa, poi fallita. Fu davvero così? O ha ragione chi sospetta che in realtà non si sarebbe potuto sopraelevare il Felettino di un piano, perché non avrebbe potuto reggere un altro peso? Chi aveva allora posizioni di responsabilità in Asl e Regione, e chi ha redatto il progetto, dovrebbe fornire una risposta pubblica, quella risposta che la Coggio, nella sua ricerca, non ha avuto.

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Il libro, al di là del titolo, è anche una storia della vicenda ospedaliera spezzina. L’autrice ha una tesi, espressa fin dall’inizio: sarebbe stato meglio “fare un solo grande ospedale, baricentrico, capace di dare servizi adeguati a tutto il territorio”. E’ una tesi che ogni tanto ritorna: quella del “grande ospedale a Santo Stefano Magra”. La tesi ha un suo fascino, ma a mio parere è “illuministica”, non fa cioè i conti con una lunga storia. Sarzana e Spezia hanno da tempo due ospedali, il San Bartolomeo da metà Ottocento e il Sant’Andrea da inizio Novecento. Dal punto di vista istituzionale c’è un’unica Asl dal 1993, prima c’erano due Usl, una della Val di Magra e una dello Spezzino, Riviera e Val di Vara. L’idea del nuovo ospedale di Sarzana nacque nel 1969,il cantiere iniziò nel 1973 e si completò -un altro calvario- solo nel 2000. Io negli anni Settanta ero un ragazzo, conosco solo le ultime vicende: so che i sarzanesi non volevano un ospedale provinciale ma per la Val di Magra, e che semmai pensavano a una “concorrenza” con Carrara, non con Spezia. Probabilmente l’ospedale fu pensato troppo “in grande” (se ben ricordo la Regione lo “tagliò” per un terzo rispetto alle previsioni), ma non avrebbe mai potuto essere l’ospedale provinciale. In questa storia era inevitabile che Spezia si ponesse anch’essa il problema di un nuovo ospedale, cosa che fece Rosaia nel 1993. Io ero il suo principale collaboratore, so per certo che non nacque “contro” Sarzana. Il punto vero era semmai come integrare i due poli, cosa che si è quasi sempre fatta male: su questo la Coggio ha ragione.

Riomaggiore, Punta Pineda    (2016)    (foto Giorgio Pagano)

Riomaggiore, Punta Pineda
(2016) (foto Giorgio Pagano)

Così come ha ragione a stigmatizzare la lunga vicenda, non ancora conclusa, del nuovo ospedale spezzino. Tutto nacque, come detto, nel 1993, con l’idea del Comune, fatta propria dalla Regione. Si pensò subito al Felettino, dove, al posto del vecchio sanatorio, era nata una succursale del Sant’Andrea. La nostra determinazione era così forte che, oltre a essere il promotore politico del nuovo ospedale, il Comune ne era anche il cofinanziatore: mettemmo infatti a disposizione 15 miliardi di lire. Il progetto prevedeva un corpo nuovo, in grado di congiungersi con la vecchia edificazione del Felettino, da ristrutturare e non da demolire (ecco perché accettammo l’idea della Regione della sopraelevazione di un piano per le malattie infettive). Il problema erano le risorse: quelle di Comune, Stato e Regione, più quelle della vendita del Sant’Andrea, non bastavano. Mancavano 46 milioni di euro. Nel 2001 i nodi vennero al pettine. In Regione era arrivato il centrodestra con Biasotti Presidente: ci proposero di trovare i soldi mancanti attraverso il privato che costruisce e gestisce, ed estrae l’utile di impresa prevalentemente dalla gestione dei servizi non sanitari (manutenzione, calore, mensa, pulizie…) grazie a un canone di circa dieci milioni l’anno, per trent’anni. La gara andò deserta. Asl e Regione modificarono l’impianto dell’appalto, con un ulteriore benefit sul canone di 5 milioni di euro. Il Comune disse: in questo modo riducete a zero il rischio di impresa, ed esponete tutta la procedura all’illegittimità. Ma non fummo ascoltati. Si costituì la Commissione di gara, prevalse l’offerta della ditta Bonatti su quella della Techint, che fece ricorso al Tar. Il giudice accolse il ricorso: il Presidente della Commissione di gara era stato nominato in violazione della legge sugli appalti pubblici, che prevede che il Presidente debba essere un dirigente della stazione appaltante, cioè dell’Asl, esterno al procedimento e comunque non coinvolto in funzioni di controllo. L’Asl aveva invece nominato l’unico cittadino italiano in grado di contravvenire a tutti e tre i punti della legge, cioè il Direttore del comparto sanità della Regione Liguria. L’Asl si disse indisponibile ad applicare la sentenza del Tar, anche se fu sollecitata in questo senso dal Comune (dicemmo: “Rinominate il Presidente e sanate tutto”). Obtorto collo, sostenemmo in giudizio le posizioni di Asl e Regione, nel nome dell’interesse pubblico della città ad avere un nuovo ospedale, sovraordinato all’errore formale di nomina del Presidente di Commissione. Ma il Consiglio di Stato confermò la sentenza del Tar. Anche perché il corrispettivo al privato era eccessivo.

Avevamo subito una ferita grave. E perduto anni. Le competenze erano di Asl e Regione, noi avevamo un ruolo solo “politico”, non “amministrativo”. Per giunta il rapporto tra Comune e Regione, anche ma non solo per il diverso “colore”, non era stato per nulla buono. Eravamo nel 2006, nel 2005 era subentrata una Giunta di centrosinistra con Burlando Presidente. Dicemmo: “Chi ha sbagliato paghi”, fu attivata la Corte dei Conti. Volevamo il nuovo ospedale il più presto possibile, la situazione era sempre meno sostenibile. Chiedemmo alla Regione di onorare il debito con il nostro territorio e ponemmo tre questioni: il nuovo ospedale doveva essere un Dea di secondo livello; doveva essere ubicato in un’unica sede; doveva avere finanziamenti pubblici certi e tempi brevi di realizzazione, anche per evitare una transizione insopportabile per gli utenti. Proponemmo, per questo, di rinunciare al Felettino e di costruire un monoblocco sopra la collina di San Cipriano, con il vecchio Sant’Andrea trasformato in “cittadella della salute” con funzioni socio sanitarie, l’abbattimento dei muri perimetrali e l’apertura alla città. Umberto Veronesi e Renzo Piano, in quegli anni, proponevano ospedali proprio di quel tipo, nel cuore dei centri urbani. Il Comune avrebbe realizzato il parcheggio nell’area a fianco, dove ora c’è un parcheggio a raso. La Regione si disse disponibile, mettendo a disposizione intanto 60 milioni di euro. Con quelle risorse solamente la nostra proposta era praticabile. Chissà, se fossimo partiti subito forse oggi il nuovo ospedale sarebbe realtà…

Invece, con la nuova consigliatura, si scelse nuovamente il Felettino, con la demolizione e la ricostruzione. La Regione disse che i soldi erano raddoppiati: 120 milioni. Era il gennaio 2008. Solo nel maggio 2015 la ditta Pessina si aggiudicò l’appalto dei lavori. Il resto è cronaca. Ma restano aperte due grandi questioni di fondo. I soldi bastano? Il Sant’Andrea si venderà, e si venderà alla cifra prevista? E ancora: che tipo di ospedale sarà?

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Mi soffermo solo su questa seconda questione: per anni la città ha sostenuto di voler costruire un Dea di secondo livello, con almeno tre cosiddette “alte specialità”, ma non ha i numeri previsti dalla legge, da un minimo di 600.000 a un milione e 200.000 cittadini. Prima di questa questione si parlava poco, troppo poco. Ora il Sindaco l’ha sollevata: “Regione e Asl dovrebbero difendere l’obbiettivo del secondo livello previsto nel piano regionale trovando, per ovviare ai limiti posti dalla legge, gli accordi del caso con il Governo e quelli eventualmente necessari tra Liguria e Toscana. Un po’ di spirito di iniziativa insomma, invece che l’opaca palude. Il Dea di secondo livello non è un lusso, ma un diritto per il territorio” (“Felettino, Regione e Asl paludate. Il Dea di secondo livello è un diritto”, “La Nazione”, 29 gennaio 2017). Tranchant la risposta del Direttore generale dell’Asl Andrea Conti: “Alla Spezia non ci sono i requisiti per la realizzazione di un Dea di secondo livello. Inutile girarci attorno, a prescindere dagli accordi tra la nostra azienda e quelle della Toscana per alcune specialità” (“Niente Dea di secondo livello, mancano i requisiti”, “La Nazione”, 4 febbraio 2017). Ma quale ospedale stiamo costruendo? Con quali attrezzature, tecnologie, sale operatorie, personale, modello di funzionamento? Nessuno ha risposto a Conti. Consiglieri regionali, Sindaci, parlamentari… Tutti pronti a twittare sulla prima “belinata” del giorno, tutti zitti su una delle questioni chiave della città. Se questa è la nostra “classe dirigente”, bisogna che i cittadini si sveglino.

Post scriptum:
Sul nuovo ospedale si veda, in questa rubrica, “L’Enel se ne va, ma il nuovo ospedale arriva?”, 15 novembre 2015
Sulle questioni più complessive della sanità si veda la documentazione dell’incontro dell’Osservatorio Civico Ligure “Come si sta in Liguria – Come ci ammaliamo – Come ci si cura – Che cosa deve cambiare”, tenutosi il 21 novembre 2016 (in www.associazioneculturalemediterraneo.com)

lucidellacitta2011@gmail.com

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