“Strage di piazza Fontana. 55 anni alla ricerca di verità e giustizia”. Incontro a Sarzana, al Centro Sociale Barontini – Giovedì 12 dicembre ore 17
9 Dicembre 2024 – 21:23

“Strage di piazza Fontana. 55 anni alla ricerca di verità e giustizia”
Incontro a Sarzana
Centro Sociale Barontini
Giovedì 12 dicembre ore 17
Il Circolo Pertini, la Sezione ANPI di Sarzana e l’Associazione Culturale Mediterraneo hanno organizzato l’incontro sul …

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Anno vecchio e anno nuovo riflessioni, ricordi e speranze – prima parte

a cura di in data 5 Gennaio 2017 – 13:31
Firenze, Palazzo Strozzi, mostra "Libero" di Ai Weiwei, "Reframe" (Nuova cornice)    (2016)    (foto Giorgio Pagano)

Firenze, Palazzo Strozzi, mostra “Libero” di Ai Weiwei, “Reframe” (Nuova cornice) (2016) (foto Giorgio Pagano)

ANNO VECCHIO E ANNO NUOVO
RIFLESSIONI, RICORDI E SPERANZE

prima parte

Città della Spezia, 1° gennaio 2016

L’anno dell’esclusione
Roberto Saviano, nella sua trasmissione “Imagine”, ha definito il 2016 “l’anno dell’esclusione”. Sono d’accordo, anch’io l’ho vissuto così. Il 2016 è stato l’anno con più muri nella storia dell’umanità. La mia generazione aveva conosciuto finora solo il muro di Berlino, oggi siamo circondati da muri. E Donald Trump propone di costruirne altri. Qualche anno fa sono stato, in estate, al confine tra Russia e Norvegia: un luogo bellissimo, raggiungibile con passeggiate nei boschi. Oggi la Norvegia ha costruito un muro, per impedire l’ingresso dei migranti attraverso la “rotta artica”: arrivavano anche d’inverno, a 30 gradi sotto zero. Anche per questo, nel 2016, è stato più usato, come via per entrare in Europa, il Mediterraneo: i morti in mare sono cresciuti del 30%. Ma i muri non sono la soluzione al problema delle migrazioni, che si affronta in due modi: con l’accoglienza in Europa e con la cooperazione per un nuovo sviluppo in Africa. Dando cioè risposta sia al diritto di migrare che al diritto di restare. Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, impegnato come me sia nell’accoglienza che nella cooperazione, è uno dei pochi che dice parole chiare:
“Occorre moltiplicare la cooperazione e responsabilizzare i governi africani nel sensibilizzare le giovani generazioni. In Africa si vive un ’68 permanente e i giovani senza lavoro sono un elemento di instabilità per i governi, per i quali è meglio mandarli via. Ma questo è un sistema antidemocratico, che mette a rischio la vita delle persone. Conosco i giovani africani e so che la scelta di andare via, di attraversare il deserto rappresenta una sorta di rivolta contro nazioni che sono matrigne, perché vogliono vivere meglio di come vivono. E’ la rivolta dei giovani. Senza dimenticare che c’è anche tanta gente che è costretta a fuggire. Pensiamo alla Nigeria, al Corno d’Africa, alla Somalia, lì si fugge dalla guerra. Questa rivoluzione non si fermerà in un anno, ma una politica europea di cooperazione è la direzione giusta. Europa e Africa non hanno destini separati e i destino dell’Africa ci coinvolgerà”.
Bisogna, dunque, investire in cooperazione. Ma Riccardi aggiunge:
“Bisogna avere il coraggio di dire con molta chiarezza che noi abbiamo bisogno dei migranti perché abbiamo un vuoto demografico incredibile. Paesi che si chiudono come l’Ungheria tra un po’ saranno vecchi e dovranno invitare i migranti nella propria terra. Non avranno più però la capacità di integrazione perché saranno paesi di anziani, quindi saranno conquistati”.
Bisogna investire anche nell’accoglienza. Anche nell’interesse di quei Paesi europei che presto saranno troppi vecchi e dovranno implorare l’arrivo dei migranti. Ma questo sarà il loro suicidio e insieme la perdita della loro storia.

Un anno insanguinato e la mancanza della politica
Il 2016 è stato anche l’anno di tante guerre. Le guerre da cui milioni di persone hanno cercato di fuggire finendo in fondo al mare, o nelle mani di trafficanti di esseri umani. Una lunga scia di sangue -dalla Siria all’Iraq, da Tunisi al Cairo, da Ankara a Berlino, dalla Nigeria alla Libia- ha unito Occidente e Oriente, anche se, scrive Umberto De Giovannangeli, “non tutte le morti hanno avuto, per noi europei, lo stesso peso”. Sentiamo più vicini i morti di Parigi, Bruxelles, Nizza e Berlino, perché i “lupi solitari” o le cellule jihadiste hanno trasformato in campi di battaglia i luoghi della nostra normalità: un caffè, una festa, una stazione della metropolitana… E’ naturale che sia così, ma questa normalità non appartiene, ecco il punto da capire, a una parte grande, maggioritaria, dell’umanità. Non appartiene ad Aleppo, per esempio.
La vera questione è che il male nel mondo e la terza guerra mondiale che prepara si nutrono della mancanza della politica. La forza ha annientato la politica. Le mancanze della politica sono molte. Manca una visione dell’Oriente che non si illuda che dopo la “liberazione” di Aleppo e la tregua il cratere della guerra si sia fermato. Lo ha spiegato, da Saviano, Loris De Filippi, infermiere e presidente di Medici senza Frontiere. Manca l’Europa: stiamo costruendo i muri che i nostri trattati proibiscono, abbiamo lasciato sole le “primavere arabe”, non abbiamo fatto nulla per la Siria o l’abbiamo fatto male, non capiamo che la stragrande maggioranza dei terroristi proviene dal corpo stesso delle nostre società. Giovani, talvolta adolescenti, in rottura con l’Islam dei loro genitori e nonni, catturati dall’ideologia dell’Isis. Il massimo studioso francese dell’Islam radicale, Oliver Roy, sostiene che sono il degrado e la marginalizzazione -non la scelta religiosa- a spingere i giovani verso il terrorismo… Manca, infine, la lungimiranza delle scelte: sia nella destra che semina odio e paura, sia nella sinistra che pensa di doverne seminare un po’ meno o in altro modo.
Gli antidoti? Si chiamano dialogo, conoscenza dell’altro, convivenza, cultura. Anche a Spezia. Dove per fortuna abbiamo Castelnuovo Magra, Varese Ligure e altri Comuni capaci di accogliere, anziché costruire “muri umani”, come a Gorino, in Emilia (contro 12 donne, di cui una incinta). Ma dove non mancano spinte razziste, a chiuderci in fortezze indifendibili. L’Associazione Culturale Mediterraneo, con il suo progetto “Mediterraneo diviso. Prove di dialogo”, sta dando un piccolo contributo a rafforzare gli antidoti.

Il terremoto e il recupero delle aree interne
Un altro ricordo vivo del 2016 è quello del terremoto in Appennino. In “Imagine” il vigile del fuoco Mauro D’Angeli ha raccontato come ha ritrovato la vita sotto le macerie. Bisognerebbe raccontare anche l’impegno della rete solidale che cerca di aiutare chi è rimasto, fedele alla storia del mutuo soccorso agli albori del movimento operaio. Perché oggi in Appennino non serve soltanto un piano di ricostruzione, serve mantenere e riportare popolazione ed economie. Il terremoto rischia di rendere irreversibile il più grave problema demografico-territoriale del nostro Paese, quello che vede il 70% della popolazione addensarsi lungo la costa, mentre l’interno è abbandonato. Non è impossibile la realizzazione di un progetto che affidi alle popolazioni l’opera di creare o ricreare il tessuto produttivo, nuove relazioni sociali, servizi… Sarebbe un grande investimento per il nostro futuro. In cui, tra l’altro, i migranti che arrivano da noi potrebbero trovare un’opportunità. Offrendola anche a noi, poveri di braccia per l’agricoltura, l’allevamento e l’economia dei boschi. E’ una riflessione che vale anche per le nostre terre, la Val di Vara e la Lunigiana.

Milano, San Siro, concerto di Bruce Springsteen    (2016)    (foto Giorgio Pagano)

Milano, San Siro, concerto di Bruce Springsteen (2016) (foto Giorgio Pagano)

La nostra guerra contro la natura
Fa davvero riflettere quel pastore, o quell’anziano, che non vuole abbandonare la propria casa. C’è una saggezza, che noi moderni chiamiamo incoscienza o ignoranza. Significa che quel pastore, o quell’anziano, vuole continuare a “convivere con il mostro”, la forza oscura che nasce dalle viscere del pianeta, per non morire orfano della propria terra e della propria dimora. Come hanno fatto i suoi antenati. Questa saggezza ci spiega che con la natura, anche quando è spietata, bisogna, appunto, convivere.
Ma il 2016 ci squaderna davanti agli occhi che sono in corso due grandi guerre: non solo quella, già citata, di uomini contro altri uomini, ma anche quella contro la natura, nel nome del “Progresso”. Nel febbraio 2016 si sono registrati sia il record di aumento della temperatura globale del pianeta sia quello dei livelli di anidride carbonica. Sono due guerre difficili da distinguere: sia perché si combattono anche guerre connesse al clima, come quelle per l’acqua, sia perché i migranti fuggono dalle guerre ma anche dai cambiamenti climatici. La seconda di queste guerre ha una fine già segnata: la vittoria della natura, perché la creatura che distrugge l’ambiente distrugge se stessa. Eppure Donald Trump, nuovo Presidente degli Stati Uniti, ha scelto come Segretario di Stato un petroliere la cui multinazionale, Exxon, è sotto inchiesta per avere falsificato gli studi sui danni delle energie fossili. Stiamo segando l’albero su cui siamo seduti.
E l’Italia? Non abbiamo neppure iniziato a mettere in pratica le politiche energetiche necessarie. Matteo Renzi diceva: “facciamo le trivellazioni e anche le rinnovabili”. Ma per le rinnovabili non ha fatto nulla. Spezia è un importante banco di prova: per chiudere al più presto la centrale a carbone, bonificare l’area e puntare sulle fonti alternative.

Diseguaglianze, disoccupazione, precarietà del lavoro
Saviano non ha toccato il tema della guerra contro la natura né quello dell’economia, che però sono decisivi per spiegarci quanto “guasto è il mondo”, per citare il titolo di un bellissimo libro di Tony Judt, che è stato uno dei più influenti intellettuali americani. Veniamo all’economia: il Rapporto Oxfam 2016 ci ricorda il dato che i superricchi, l’1% della popolazione, possiede una ricchezza maggiore di tutto il restante 99% della popolazione. In Italia l’1% possiede il 23,4% del patrimonio. Il Rapporto mette in evidenza l’enorme livello delle diseguaglianze. Per il sociologo Zygmunt Bauman la società è diventata “liquida”, cioè in continua trasformazione. Il termine può valere per indicare la facilità con cui si cambiano lavoro, gusti e consumi. Ma, se guardiamo alle diseguaglianze economiche e sociali, la nostra società ci appare molto “solida”, incollata alle gerarchie della sua “plutocrazia”.
Ancora: i recentissimi dati di Istat, Inps, Inail e Ministero del Lavoro ci spiegano che nella seconda metà del 2016 l’occupazione è calata, i contratti precari sono cresciuti, hanno lavorato di più gli over 50, i più penalizzati sono stati i giovani under 35. Viene confermato il boom dei voucher: ne sono stati venduti 121 milioni nei primi dieci mesi del 2016. Il Governo dice che l’abolizione dei voucher favorirebbe il lavoro nero. Ma il nero, spiegano i dati, non è in calo: i voucher convivono accanto a un sommerso sostanzialmente indisturbato.
Romano Prodi ha fatto implicitamente autocritica, nei giorni scorsi, rispetto agli anni in cui il centrosinistra ha governato: “E’ dal 1985 che le disparità di reddito crescono. Sono i frutti del periodo post-Reagan e post-Thatcher. Per vent’anni si è detto che quello che andava bene agli imprenditori e ai banchieri avrebbe arricchito tutti. E gli accademici annuivano. Ora ci si rende conto dell’errore. Ma nessuno sembra in grado di contestare un modello verticale di potere che è fallito. Non si discute più nelle assemblee, nei partiti, nel Parlamento”. Ritorna il tema della mancanza della politica, della mancanza dell’Europa e della mancanza della sinistra, sempre più omologata alle posizioni della destra.
Il ragionamento vale anche per Spezia, dove è ancora sostanzialmente in piedi, nonostante minori risorse e mancate revisioni, il sistema di welfare costruito a partire dagli anni Settanta. Ma le diseguaglianze, la disoccupazione, la precarietà del lavoro sono cresciute: il sistema reggerà se sarà maggiormente finanziato e se sarà riformato per adeguarsi ai nuovi bisogni sociali, e se sarà affiancato da un piano del lavoro.

La rete e la “post-verità”
Saviano ha riflettuto sul peso crescente della rete e dei social network. Il 62% degli americani si informa sui social, in Italia il 50%. Sono diventati “i nuovi grandi editori”. Riferendosi al successo crescente di Snapchat tra i giovani lo scrittore ha detto: “Tutto è solo presente, tutto scorre via veloce… vale il mi piace, non la verità, l’attendibilità”. Ancora: “La parola chiave del 2016 è ‘post-verità’, come dimostrano i falsi dei falchi della campagna per Brexit e di quella per Trump”. Notizie completamente false (il Papa sostiene la candidatura di Trump, Barack Obama non è nato negli Usa, ecc.), costantemente amplificate nelle camere dell’eco della rete, hanno influenzato buona parte dell’elettorato. “L’emotività -ha continuato Saviano- prevale sui dati di fatto, conta far diventare i post virali… la notizia più cliccata e condivisa è quella falsa, più che quella vera”.
Già la filosofa Hannah Arendt aveva scritto che il suddito ideale del regno totalitario è “l’uomo per cui la distinzione tra fatti e finzione e la distinzione tra vero e falso non esistono più”. Trump è l’esempio di questa nuova era di menzogna politica. Naturalmente politici mentitori ci sono sempre stati, ma oggi è diverso. Christian Salmon ha ricordato che Roosevelt fu il primo Presidente a utilizzare la radio per comunicare. Quando lui faceva un discorso alla radio “la gente aveva il tempo necessario per riflettere, poteva combinare l’emozione e i fatti”, ha spiegato il neuroscienziato Antonio Damasio. “Oggi, con internet e la televisione via cavo che diffondono informazione 24 ore su 24, sei immerso in un contesto in cui non hai più il tempo di riflettere”. In società ipermediatizzate, ha scritto Salmon, “ la capacità di strutturare una visione politica non con argomenti razionali ma raccontando delle storie, è diventata la chiave della conquista del potere”.
Leggiamo quanto scrive un altro neuroscienziato, Lamberto Maffei, nel suo bellissimo libro “Elogio della ribellione”:
“Questo essere vicini a tutti e a tutto ha distrutto o danneggiato la meraviglia del nuovo, dell’incontro e quando si perde il dono della meraviglia si diventa poveri, forse disperati e ci si domanda quale sia il senso del nostro viaggio terreno deprivato del desiderio di esplorazione. Tecnologia e globalizzazione hanno paradossalmente creato solitudine, causata da un eccesso di stimoli, da una saturazione di tutti i recettori in particolare di quelli uditivi e visivi, che inducono un’attività frenetica del cervello, e hanno così levato spazio alla riflessione o addirittura impedito la libertà del pensiero, intasato dalle entrate sensoriali che possono essere, ad esempio, le connessioni in rete o la televisione. Una solitudine che potremmo chiamare il paradosso della solitudine in quanto apparentemente è il contrario di essa. E’ la solitudine di un cervello che, solo in una stanza, invia e riceve notizie unicamente attraverso messaggeri strumentali informatici, ma spesso ha perso il contatto affettivo con gli altri. Il cervello troppo connesso è un cervello solo perché rischia di perdere gli stimoli fisiologici dell’ambiente, del sole, della realtà palpitante di vita che lo circonda”.
Secondo Maffei la tendenza della rete a privilegiare operazioni mentali rapide contrasta con ciò che le neuroscienze ci dicono della macchina cervello, sostanzialmente lenta. Non si può insomma, pensare rapidamente. La rete ha quindi comportato vantaggi e svantaggi. I primi sono quelli di facilitare le comunicazioni tra popoli di diversa cultura (ho appena ricevuto un messaggio augurale proveniente da uno dei villaggi più poveri di Sao Tomè e Principe, a sua volta uno dei Paesi più poveri del mondo!); i secondi sono quelli di tendere a “sostituire il cervello dell’individuo con il cervello collettivo della rete”. Un cervello lento con un cervello veloce. In questo modo si crea una “gabbia invisibile della libertà del pensiero e dell’originalità”.

“Occorre una parola che fa paura”
Che fare, allora, in questo “mondo guasto”, di fronte al rischio di questa “gabbia invisibile”? Non basta l’emotività, bisogna unire pensiero emotivo e pensiero razionale, perché in questa unità consiste il vero pensiero dell’uomo. L’antidoto è ancora e sempre la conoscenza, la cultura. Maffei ricorda che tra gli studenti è molto popolare la canzone del rapper Frankie Hi-Nrg “Scool rocks!” (La scuola spacca!), che a un certo punto dice:
“Occorre una parola che fa paura
Tratteniamo il fiato… cultura”
La cultura ci serve per capire, e quindi per dialogare con gli altri invece che demonizzarli, per convivere e per impedire le guerre tra gli uomini. Per contrastare la guerra contro la natura. Per riportare in equilibrio un sistema in cui i potenti diventano troppo potenti e i ricchi troppo ricchi. Chi possiede la conoscenza e la cultura dovrebbe comprenderne il valore liberatorio e tendere a favorirne la diffusione, riducendo la forbice tra chi sa e chi non sa. Spesso oggi non è così: c’è una “casta” anche nella cultura, di “servi volontari” al servizio dei potenti e dei ricchi. Ma per fortuna c’è ancora la cultura non asservita al potere. E’ da qui che bisogna ripartire per riparare il “mondo guasto” e per uscire dalla “gabbia invisibile”. Non con soluzioni individuali ma con il coinvolgimento degli altri. Ma iniziando da un cambiamento che è sempre innanzitutto personale. Come scrisse il grande romanziere e pensatore Albert Camus nei suoi “Taccuini” (1935-1939):
“Perché un pensiero cambi il mondo,
bisogna prima che cambi la vita di
colui che l’esprime .Che cambi in
esempio”

Buon anno a tutte e a tutti

Post scriptum:
L’articolo è suddiviso in tre parti. La seconda e la terza parte saranno pubblicate il 6 e l’8 gennaio.
In tutti gli articoli le fotografie sono dedicate ad artisti non asserviti al potere: l’artista cinese Ai Weiwei, dissidente e icona della lotta per la libertà, e Bruce Springsteen, un musicista che sta sul palco soprattutto per sforzarsi di rendere la vita degna di essere vissuta, per sé e per gli altri. La fotografia in alto è la facciata di Palazzo Strozzi a Firenze con l’opera “Reframe” (Nuova cornice), in occasione della grande mostra di Ai Weiwei “Libero” (23 settembre 2016 – 22 gennaio 2017). L’opera è composta da una fila di gommoni rossi appesi alle facciate riprendendo la sagoma delle finestre: la tragedia dei profughi e dei migranti si specchia nella fragilità delle strutture cui aggrapparsi, emblemi spaesati sui muri di un palazzo simbolo della nostra storia, come i destini di chi approda in un’Europa ignota. La fotografia in basso è stata scattata durante lo straordinario concerto di Springsteen a San Siro (5 luglio 2016).

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